di Dunia Elfarouk

Fino a qualche decennio fa l’anticonformista era il perdente, l’outsider incarnato dal tanto amato Daniel Johnston (pace e bene all’anima sua). Colui che ti prometteva, con la voce spezzata della canzone che meglio rappresentava il suo spirito, che l’amore alla fine ti avrebbe trovato. Colui che, quasi inconsapevolmente, dissacrava le correnti di pensiero in voga nel suo tempo e faceva del suo stile di vita una musica completamente stonata rispetto a tutto il resto. Per necessità di sopravvivenza della propria personalità.

Il vero anticonformista era colui che rivoluzionava i suoi giorni per rincorrere lo spirito insicuro che aleggiava fino a ieri con timidezza tra una parete e l’altra del suo Io.

Era colui che, schiacciato dal bianco senza scritte, decideva di scarabocchiare senza preoccuparsi di mescolare i colori.

Era colui che cercava un modo per raschiare le sue corde vocali dai suoni estranei che potevano intaccare le sue urla. Scuoteva prima di tutto se stesso per poi far vibrare le piastrelle sconnesse su cui poggiavano i suoi piedi liquidi, inafferrabili.

Era sbagliato, disadattato, fuori luogo. Sempre col cuore tra i denti  e il battito furioso. Era incazzato. Sì, terribilmente incazzato, ma non inutilmente chiassoso: il suo era un urlo e un pianto rivolto alla sincera ricerca di un minuscolo angolo di mondo da cui espandere la sua benedetta rivoluzione.

Era colui che non si accontentava di ricucire il bottone staccato, ma che strappava tutti gli altri con i polpastrelli in fiamme.

Ma poteva capitare che non ci riuscisse. E allora la sconfitta dell’essere “altro” lo pervadeva facendolo sentire ancora più ingrato verso la sua diversità.

Comune in un ingordo desiderio di artificiosità è l’“alternativo” digitalizzato oggi.

Una goffa figura che accosta bruscamente gusti e manie in un presuntuoso mutismo. Copie di copie rintracciate altrove, non si sa dove e non importa il perché.

Non c’è ragione. Solo l’immotivata superbia nell’esibire un volto fregiato dall’eyeliner o un corpo agghindato all’ultimo eccentricissimo grido purché marchiato Gucci.

Ciascuno è un “diverso” . Dice di sé di fare la differenza, ma inghiotte con avida ignoranza ciò che gli viene dato in pasto. Guarda in faccia il resto con sufficienza, convinto che, cambiando se stesso in una deforme figura che non gli apparterrà mai,  riuscirà ad imporre la sua misera ombra in questa era di sofisticati artifizi.

Tutto è “ diverso” in un’uguaglianza che ha mortificato la vera difformità, cioè quel contrasto sofferto in una soffocante bugia.

L’alternativo indossa stravaganze inseguendo la moda in quel già affollato vicolo chiamato “controtendenza”. Alternativo è chiunque abbia un passo incerto, ma dal rumore pesante e una gran voglia di farsi notare, camuffando un’ impacciata routine con uno stile improprio seppur disegnato con tratto deciso. Bastano in concreto un guardaroba e un’Iphone abbastanza capienti.

Non sprecate tempo a chiedervi qual è la musica alternativa di cui tanto distrattamente si parla: un ammasso indistinto dall’indie strappalacrime alla trap fanno dell’alternativo un groviglio musicale dall’identità più che discutibile.

Musica alternativa, abbigliamento alternativo, turismo alternativo, città alternative, siti alternativi, stili di vita alternativi.

L’ “alternativo” invade ogni spazio di questa cultura assiderata.

Alternativa non è più la scelta d’eccezione, ma un omologato eccesso del costume.

Frasi di protesta, contenute tra note arrabbiate, come “ Different strokes for different Folks” paiono aver perso ogni significato.

 

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