CARMINA VIRI

di Fulcanelli ©

 

15

Al cielo

 

 

Pece nera!

Nient’altro che oscurità attorno a me.

Oscurità presente da quando è iniziata, ormai da più di tre settimane, la mia clausura forzata che ho ribattezzato amichevolmente “arresti domiciliari”, senza nemmeno aver commesso il reato.

O forse sì…

Chissà…

Magari sono anch’io uno di quei “asintomatici” divenuti inconsapevolmente untori.

Ecco perché mi sento così intriso di pece nera.

Quel colore, tenebrosamente intenso, che Goya usò nelle sue Pitture mentre se ne stava rinchiuso nella disperazione della casa di campagna fuori Madrid.

La deformazione professionale mi fa vivere sempre tutto ricollegandomi ad un’opera d’arte. È come se fossi preda di un’eterna sindrome di Stendhal.

Una dipendenza da cui non mi riesco a staccare. E in momenti come questi sono circondato da quadri che s’impossessano di me e che racconto online ai miei studenti.

Eh sì! Ora, a causa del Covid-19, le lezioni si fanno così. Ma caspita! L’arte ci salverà davvero?

La bellezza salverà il mondo?

Ma se tutti i quadri che mi balenano nel cervello sono tragici!

Mi sento ad un tratto pittore medievale. Già. A quel tempo la Peste Nera fece milioni di vittime. Ed ecco allora che il morbo di secoli così lontani non pare tanto diverso da oggi.

Le opere d’arte continuano a raccontarci la ciclicità della storia! Io lo ripeto da sempre, ma chi mi ascolta?
Nessuno.

Sono abbandonato in questa mia solitudine artistica.

Attorno le sirene delle ambulanze rompono il silenzio accompagnate dal suono a lutto delle campane.

Letteralmente mi tuffo nei quadri sui libri, sul tablet, sul computer e cerco una risposta.

Mi dispero e mi commuovo davanti alla forza dei dottori, degli infermieri, di fronte alla solidarietà che affiora dal lato oscuro nell’anno del Signore 2020.

E poi ripiombo nella malinconia struggente: ancora una volta vengo sopraffatto da immagini orrendamente tragiche: danze macabre e trionfi della morte – oh quante ce ne sono in Italia ed Europa – accompagnano il mio carcere quotidiano che pare allungarsi all’infinito.

C’è speranza?

C’è la possibilità di un ritorno alla normalità?

Maldico la razza umana incapace di cogliere l’insegnamento della storia passata e dell’arte stessa.

Ogni giorno è una via crucis e ci stiamo pure avvicinando alla Pasqua.

Chiudo l’ennesimo volume illustrato, spengo il televisore. La luce della mia stanza, anomalo hortus conclusus, rimane l’unico barlume che mi fa guardare oltre la soglia. Mi ripeto ancora: C’è speranza? All’improvviso m’appare Friedrich, il caro vecchio Caspar David, pittore romantico.

Mi ricorda che l’unica vera sorgente dell’arte è il nostro cuore e mi mostra la sua Abbazia nel querceto. Immerso in un lugubre paesaggio fatto di rovine e alberi senza più vita, vedo avanzare un corteo funebre spettrale mentre le grandi querce tendono al cielo le braccia nude. Al cielo! Sì! In quel cielo brilla una luce di speranza, un astro che mi conforta.

E allora, forse, quest’incubo in cui siamo precipitati potrà avere fine, lasciando che le lacrime possano essere sorgente di nuova vita. M’addormento accompagnato dal ricordo di chi non c’è più mentre le menzogne cedono il posto alle verità e alle notizie di guarigioni che tutti attendiamo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Abilita le notifiche per non perderti nessun articolo! Abilita Non abilitare