Capitolo V

 

“Per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno”.

Una volta Moa aveva letto questa scritta sul muro di un bar della sua amata Roma.

In quell’istante gli scattò automaticamente un parallelismo creditizio dal punto di vista sentimentale.

Dove, per sentimenti, non si intendevano esclusivamente le relazioni amorose, bensì, tutti i rapporti umani.

Quando hai difficoltà a fidarti degli uomini, la tua vita non sarà più semplice.

Eppure, quella ragazza radical chic, oltre ad essere di una bellezza travolgente, per la sua fragilità fisica, gli trasmetteva uno strano senso di protezione.

Ecco, avrebbe voluto abbracciarla, sin dal primo incontro.

Chiacchierarono, a lungo, sin quando il loro gate non fu chiamato e Moa si dovette imbarcare per primo, essendo in possesso di un biglietto di business class.

Per una quantità considerevole di minuti, fu costretto a pensare a Diaisy, sin quando non la vide passare per accomodarsi nelle file retrostanti.

Allora, i due si scambiarono un sorriso, nella consapevolezza, tuttavia, che avrebbero affrontato il viaggio separati e nella quasi certezza di non rivedersi più.

Il viaggio per Daisy fu lungo e tormentato.

Tormentato dalla serie infinita di pensieri che la spingevano a viaggiare sola, senza una meta in California.

Perché una bellissima giovane donna è costretta ad un viaggio per resettare la propria vita?

La risposta è semplice: per cambiare una cosa complicata, serve una soluzione drastica.

Diversi metri avanti, Moa pensava alla sua vita e, come se fosse una commessa commerciale ben delineata, si ritrovò prestissimo a stendere un’analisi finalizzata ad un riscontro in termini di utilità.

Chiuse gli occhi e non vide altro che palazzi distrutti, bambini impolverati, lacrime e persino rumori.

Poi setacciò la sua vita professionale e la rapida ascesa che lo aveva portato a ricoprire ruoli a sei cifre di ricompensa nelle multinazionali.

Riaprì gli occhi e diede uno sguardo al suo Panerai fiammante,

Non avrebbe mai pensato di potersi permettere un orologio del genere, ai tempi in cui si sporcava le mani di grasso nella bottega dello zio.

Stranamente, l’uomo riuscì ad assopirsi e si svegliò solo diverse ore dopo.

Il viaggio in aereo è ormai una delle poche occasioni nelle quali non è usuale poter usare smartphone e diavolerie varie, così, solo in quella circostanza, diviene semplice capire in che direzione sta andando la nostra persona, nella sua intimità.

Ebbene, la vita di Moa, vista in maniera asettica e scevra da considerazioni esterne, era l’esperienza di chi, capace di realizzarsi da solo, aveva una gran voglia di condividere con altri.

Era sicuro che avrebbe cercato Daisy dopo il controllo dei passaporti, nella quasi totale consapevolezza che sarebbe stato estremamente più semplice arretrare di poche file e trovarla sull’aeroplano.

A volte, però, ci piace giocare con il destino.

 

 

 

Capitolo VI

 

Ogni volta che Moa era costretto a superare un controllo, di qualsiasi genere, tremava. Istintivamente.

Ebbene, dopo quella data di settembre che aveva cambiato il mondo, gli agenti di sicurezza dell’enorme aeroporto di Los Angeles, erano diventati tra i migliori cacciatori di sensazioni strane al mondo.

Giunto al controllo passaporti, infatti, l’uomo, benché dall’aspetto curato e decisamente occidentale, venne squadrato dal poliziotto doganale come se fosse un muezzin in caffettano con barba chilometrica e non un uomo d’affari inglese.

Nel giro di pochi secondi, due agenti in borghese, alti come stelle della pallacanestro, gli chiesero di seguirli.

Venne condotto in una piccola stanza che gli trasmise un senso di claustrofobia che conosceva bene, o meglio, che non aveva mai dimenticato.

Quello che sembrava essere il più anziano dei due prese la parola:

 

<Mister Pasalic… Quale sarebbe il motivo della sua visita negli Stati Uniti?>

 

Moa era totalmente pervaso dal panico ed anche a un occhio molto meno esperto, appariva chiaro come una strana irrequietezza si fosse infiltrata nella spina dorsale di un uomo, generalmente di grande charme.

Quasi immediatamente, tuttavia, rispose:

 

<Sono qui in vacanza.>

 

L’agente mostrò molti denti con un sorriso troppo aperto per essere sincero e proseguì quello che aveva tutta l’aria di essere un interrogatorio:

 

<Deve raggiungere qualcuno?>

 

Questa volta la risposta fu ancor più celere della prima:

 

<No. Sono solo.>

 

Il poliziotto continuava a sorridere, come se fosse realmente divertito:

 

<Quindi lei è venuto in vacanza, da solo, da Londra qui negli Stati Uniti, con un biglietto di ritorno che prevede si mesi di permanenza?

Il suo ESTA, inoltre, chiarisce che la sua residenza negli USA corrisponde al Saint Regis si San Francisco… Quanto tempo ha intenzione di soggiornare in un albergo da mille dollari al giorno?>

 

Moa aveva capito l’antifona, quindi, nonostante il panico, si ricordò di essere un uomo di successo e dopo un lungo sospiro, rispose con voce ferma:

 

<Tutto il tempo che occorre…

Guardi, ho capito benissimo che i dati del mio passaporto provocano un legittimo sospetto.

Tuttavia, sino a due settimane fa ero il direttore generale della Sanio Mobile International Europe.

Sono un uomo d’affari in periodo sabatico, non un terrorista.

Potete contattare tranquillamente l’ambasciata britannica o la sede americana dell’azienda.

Le daranno tutte le referenze del caso.

Se invece le dovesse essere più comodo, può tranquillamente usare Google.>

 

I troppi “tranquillamente” innervosirono l’agente che dal sorriso passò ad una fragorosa risata e si girò verso il suo collega:

 

<Hai sentito Derek?

Il signor Pasalic ci ha dato i compiti a casa.>

 

L’altro poliziotto, che era rimasto sin a quel momento immobile, produsse un ghigno, allora, l’agente anziano, compiaciuto per la sua stessa battuta proseguì:

 

<Gli Stati Uniti d’America si riservano il diritto di non far entrare nel territorio nazionale chiunque desti dei sospetti.

Non abbiamo il dovere di controllare le sue “referenze”, possiamo tranquillamente dirle arrivederci e rispedirla a Londra.>

 

Moa mantenne uno sguardo fermo e disse:

 

<Non le sto imponendo di fare un controllo, lungi da me, tuttavia, le chiederei la cortesia di evitarmi un ulteriore viaggio transoceanico.

Può tranquillamente cercare su YouTube il video di presentazione dell’XP70, l’ho tenuta io>.

 

Un altro ultroneo “tranquillamente”.

L’agente conosceva il suo mestiere, il tremore del cittadino britannico destava i sospetti di scuola, tuttavia, si allontanò senza fiatare e si assentò per quasi venti minuti.

Nel frattempo, il poliziotto più giovane guardava Moa con aria di superiorità.

Quando finalmente fu rientrato, disse con la testa china:

 

<Ci scusi per il fraintendimento, ma questo è il nostro lavoro.

Buon soggiorno negli Stati Uniti d’America mister Pasalic!>

 

Moa fu molto sollevato, nondimeno, era consapevole di aver perso ogni speranza di rincontrare quella bellissima ragazza che lo aveva colpito come un pugno nello stomaco.

 

Capitolo VII

 

Moa entrò nel suo Four Seasons e decise di lasciare le valigie lì, come se fossero un inutile peso al quale avrebbe dato importanza solo in un secondo momento.

Aveva la testa leggera, come chi sa di aver fatto a botte con i fantasmi del passato e di aver vinto.

Il “Mister Pasalic ci scusi” era valso più di qualsiasi inconveniente sui suoi dati passaportuali.

Era un uomo “arrivato”, era riuscito a superare anche le diffidenze del più importante bureau del mondo, anche dopo l’11 settembre.

La cosa lo inorgogliva e gasava, eppure, se qualcuno avesse saputo il perché del suo tremore, non si sarebbe ripreso dallo stupore per molto tempo.

Prese una saggia decisione: si sarebbe goduto San Francisco e il suo splendore.

Tuttavia, doveva per forza soggiornare una notte a Los Angeles: la “città dei pier” era distante e non avrebbe sopportato altre ore di viaggio.

Erano solo le cinque del pomeriggio e doveva decidere come ammazzare il tempo.

Lo shopping convulsivo su Rodeo drive non lo affascinava affatto, invece, nonostante il suo livello culturale e sociale, scelse di prendere la decisione meno sofisticata del mondo: il giro in pullman delle residenze delle star e delle starlette.

Così, come un uomo medio senza particolari doti celebrali, salì sopra un double decker rosso, imitazione dei suoi autobus londinesi, e si mischiò a quella sfilza di banalità umana.

Il vero obiettivo di quella scelta erano due luoghi in particolare, ossia, le magioni di Beverly Hills e Bellaire dove erano state girate due serie che avevano fatto da padrone durante la sua adolescenza, se di adolescenza si poteva parlare.

Quando il pullman terminò il giro, si ritrovò su Holliwood boulevard, senza sapere cosa fare, dunque, entrò da solo in un bar per un aperitivo.

La voglia invadente di prendere il telefonino e spendere una serie infinita di minuti inutili sui social network lo invase, tuttavia, in prima battuta, riuscì a desistere.

Prese tra le mani un vecchio libro.

Da qualche tempo, infatti, alcuni locali modaioli avevano ripreso l’antica usanza dei caffè di mettere a disposizione dei clienti una piccola libreria, allestita con titoli vintage, al fine di creare un’atmosfera boemienne che non sarebbe mai riuscita a eguagliare gli anni della cultura vera, quella senza televisione spazzatura e portali telematici con i quali potersi fare gli affari di un procugino residente dall’altra parte del globo.

Già, la tecnologia.

Era grazie a quella se un ragazzo della periferia del mondo era riuscito a “realizzarsi”.

Si mise a riflettere su quella parola.

Non aveva mai pensato di sentirsi “vuoto”, eppure, in quel dannato momento, era completamente solo, come spesso gli accadeva, ma in compagnia di una tristezza pesante e petulante che gli indicava gli errori della sua vita.

Prese lo smartphone e senza pensarci un secondo aprì le applicazioni di tutti i social network esistenti.

Cancellò tutti i suoi profili ed account, mandando allegoricamente a fanculo Zuckemberg.

Un ragazzino con qualche chilo di troppo e una t-shirt che ambiva ad essere spiritosa, si sedette al suo tavolo, invadendo completamente la sua sfera di riservatezza, poi, senza chiedere il permesso, iniziò a parlargli:

 

<Mister Pasalic.

Secondo me ha fatto benissimo.

Volevo solo stringerle la mano>.

 

Moa, pur detestando enormemente gli attacchi alla sua privacy, decise di ricambiare il gesto del giovane e diede atto al rituale che da millenni significava “non sono armato”.

Quando la stretta di mano fu terminata, senza che l’uomo d’affari avesse detto una parola, il “fan” si dileguò senza intoppi.

Non era poi così raro che venisse riconosciuto.

D’altronde, era apparso in decine di video di presentazioni di prodotti dell’azienda che aveva fatto crescere con le sue idee innovative, però, la circostanza di essere fermato dall’altra parte dell’oceano lo lasciò perplesso, nonostante fosse perfettamente a conoscenza delle centinaia di migliaia di seguaci virtuali.

I suoi followers, in parte, avevano apprezzato quella maledetta e benedetta frase che lo aveva spinto alle dimissioni.

Moa rifletté su quello che gli aveva detto il ragazzo: “ha fatto benissimo”.

Sapeva cosa intendesse l’ammiratore, tuttavia, pensò che quella frase poteva essere agevolmente riferita anche alla circostanza che avesse deciso di lasciare il mondo della tecnologia.

Almeno per il momento.

 

Capitolo VIII

 

La prima mattina a San Francisco iniziò con una sensazione di tranquillità che lo sorprese.

Iniziò a benedire la decisione di viaggiare per qualche tempo.

Moa adorava visitare i posti ancora inesplorati ma immaginati.

Per lavoro aveva viaggiato per il mondo ma si era concesso pochissime vacanze per piacere.

Dopo aver consumato una breve colazione nel bar dell’albergo uscì per le strade di Frisco e arrivò a piedi sino al Pier 39, piccolo centro turistico che aveva la caratteristica quasi unica di non essere squallido come gli altri centri commerciali mascherati da attrazioni del mondo.

Gli venne nuovamente voglia di caffè, si sedette in un localino e ordinò un espresso, poi, si perse nella lettura del suo romanzo preferito che aveva estratto dallo zaino.

Dopo alcuni minuti, una voce soave, seppur quasi per nulla famigliare, lo destò dal torpore della lettura.

 

Il “tripode vitale di Bichat” è una teoria medica che fa coincidere la morte con l’arresto delle funzioni respiratorie, cardiache e nervose.

Secondo questa concezione classica, che prende il nome dal suo ideatore francese, è quello il momento esatto nel quale un uomo diviene cadavere.

Ebbene, quando Moa alzò la testa e vide Daisy, in un istante, gli venne l’affanno, il cuore iniziò a battere all’impazzata e il cervello prese a elaborare una serie sconfinata di pensieri.

Se il contrario di “morte” è “vita”, in quel preciso istante visse.

 

<Allora è proprio vero che sei un maniaco sessuale. Hai iniziato a seguirmi!>.

 

Le parole che la ragazza aveva pronunciato mentre prendeva posto accanto a lui, in quel tavolino di San Francisco, non trovarono una risposta altrettanto spiritosa e Moa ci mise alcuni secondi per riprendersi.

Daisy aveva un outfit simile a quello presentato in aeroporto: t-shirt appositamente larga, jeans di marca e sneakers alla moda.

Il viso completamente privo di make up le donava l’area serena di una top model in vacanza.

La ragazza riprese a parlare:

 

<Che coincidenza… Anche tu hai scelto San Francisco per leggere in pace “Le relazioni pericolose”>

 

I due scoppiarono a ridere, poi l’uomo, finalmente emise parole e non gemiti:

 

<In realtà non ho un programma preciso.

Penso che i prossimi capitoli li leggerò nella Monument Valley, sempre ammesso che trovi qualche ragazza da seguire anche lì.>

 

Daisy sorrise, poi ebbe un sussulto improvviso dovuto ad un brivido di freddo.

Moa, senza pensarci su due volte, si sfilò la costosissima giacca di lino e la appoggiò sulle spalle eleganti della ragazza, dicendo:

 

<Mark Twain diceva che l’inverno più freddo che avesse mai vissuto fosse un’estate a San Francisco.>

 

La ragazza arricciò le labbra in segno di gratitudine poi lo incalzò:

 

<Mark Twain è uno pseudonimo ispirato al linguaggio nautico: indica una profondità dell’acqua. Non fare il saputello con me, sono un mostro a Trivial!>

 

Moa, impressionato, sorrise, poi le domandò:

 

<E tu?

Dove proseguirai il tuo tour per sminuire uomini galanti che cercano di impressionarti?>

 

Daisy rise di gusto, poi diede la risposta più sorprendente che Moa potesse desiderare:

 

<Con te, se ne hai voglia.

Vogli vedere l’antilope canyon e le riserve indiane.>

 

II Boulevardier

 

Non ti ha ancora detto di sì, però, ti ha dato un cenno, per farti capire che è possibile.

Quanto sono potenti le sensazioni che seguono come gatti affamati chi ha una speranza.

Non ti importa di null’altro.

Vuoi averla.

Devi averla.

E allora, finisci subito di consumare quel meraviglioso istante di felicità per il suo segnale positivo e ti sale l’ansia.

L’ansia perché hai una cazzo di possibilità e non vuoi sprecarla.

Non puoi mandare tutto a puttane e quel poco che hai raccolto, per te, è più importante di ogni altra cosa.

Devi giocartela bene.

Devi giocartela bene.

Devi giocartela bene.

Ripeti questa litania come un vecchio ebreo che si dondola, muovendo la schiena, ma con il culo ben piazzato su un piano.

E pensi già a quando la perderai per aver detto una cosa sbagliata o perché si accorgerà di un tuo difetto fisico o prestazionale o perché quella dea capirà che non sei poi così interessante.

Poi di nuovo la testa torna a pensare positivamente e salgono le speranze.

O’ speranza… Quanto sei troia.

Perché mi devi dare l’illusione di poter raggiungere la felicità, se sai già che rovinerò tutto?

Quanto è detestabile darsi questa responsabilità.

Perché non possiamo passare direttamente al momento in cui le infilerò un anello in quell’anulare affusolato?

Siamo come cuccioli in un negozio di animali: sbraitiamo perché vogliamo essere scelti, nella speranza di essere i più desiderabili, ma nella consapevolezza che un rapporto che nasce implorando non ci lascerà mai totalmente liberi.

Le coppie hanno bisogno di equilibrio.

Ma chi cazzo se ne fotte!

Non voglio arrivare a spendere un anniversario di matrimonio nel silenzio di un tavolino da ristorante.

Non voglio entrare in un caldo letto matrimoniale a due piazze e usarlo solo per dormire e, all’occorrenza, procreare.

Non voglio far passare tutti i giorni nella stessa maniera, nella stessa routine.

Voglio la perfezione della quotidianità.

Che schifo la serenità.

Il pugno nello stomaco, che ho preso la prima volta che l’ho vista, lo voglio prolungare all’infinito e se colpirà sul livido sarò contento perché è meglio sentire più dolore che non sentire nulla.

Sembra un cazzo di coro da catechismo, però, se avrò avuto la possibilità di godere del suo essere mia, mi accontenterò: dopo, potrò anche morire.

Questo è l’amore.

Non è amore quello che ci fanno credere le coppie su un dondolo in un villaggio turistico: l’amore è quello dei libri, dei film, dei sogni erotici.

Va bene il dondolo insieme a centodieci anni, ma mano nella mano, nella consapevolezza che è lei la persona che mi fa battere quel vecchio figlio di puttana del mio cuore marcio.

Non devi essere solo scoglio, ma onda e poi scoglio, altrimenti sei inutile come un bagnino ai mondiali di nuoto.

I vecchietti del film “Up”.

Quelli sì che sono due idoli.

Non posso pensare alla serenità banale.

Voglio la serenità dopo la tempesta.

Quindi sì che mi sale l’ansia, voglio che mi salga, deve salirmi, altrimenti si tratta solo di capire in quale schifoso ipermercato passare le domeniche.

Ti trovi già a pensare che sarà lei a scandire i tuoi battiti cardiaci e paradossalmente vedi già proiettato come un trailer la vita senza di lei, ma con accanto una donna che ti vuole, che non ti dà alcun tipo di pensiero.

Puoi disegnare la sagoma di quella donna ad occhi chiusi. Puoi sentire il puzzolente profumo del piatto che ti fa trovare la sera quando torni a casa.

Cosa significa essere felici?

Proprio nessuno lo sa, ma il momento in cui ti dà una speranza si avvicina molto alla perfezione, però poi ti sale l’ansia.

E ti ritrovi a scrivere alle cinque del mattino su una tastiera sporca di cenere, perché non vuoi dormire dopo che ti ha detto che ha inserito la retromarcia e ci ha ripensato.

Ti ritrovi ad avere il viso illuminato dallo schermo del computer, con la bocca ancora impastata dal secondo boulevardier di ieri sera.

Ecco l’ansia da prestazione: la proiezione di quanto sarà brutto rimanere deluso da te stesso.

E allora c’è la scorciatoia dei vigliacchi: la volpe che dice che l’uva è acerba, perché non ci arriva.

Non arriva a capire che di quell’uva vorresti anche il verme che la invade.

Ma ne parliamo al terzo boulevardier: avere paura delle conseguenze mi fa capire che sono troppo sobrio.

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