di Gino Annolfi

 

Ti vuoi rilassare? No problem! Puoi vedere un bel film, oppure ascoltare musica e canzoni, ma anche semplicemente affacciarti ad una finestra e osservare volti e figure di quelli che passano.

E senza che la volontà abbia ruolo si attivano processi spontanei di trasporto in nuovi ‘paesaggi’, in altre vite, storie da osservare e/o interpretare, dipende solo dalla condizione emotiva del momento, dalla spinta creativa che ci anima…

“Sì, non ci bastiamo e il modo più sensato di guardarci dentro consiste nel guardare gli altri”

A volte per emularli (benedetti neuroni-specchio), talvolta per sentirsi o essere diversi (auto assoluzione?).

C’è chi addirittura si inventa esorcismi inconsapevoli e si prepara a gioiosi ritorni alla realtà dopo aver visto film horror o trame ‘noir’ gravide di paura. Confesso, non è il mio genere, ma la molla che spinge i cultori di questi generi ha un ché di ‘pedagogico’: vedi? la realtà, pur normale e banale, è davvero un paradiso in terra a fronte di tanto dolore e tensione. Sulle vie personali alla felicità e alla quiete “non est disputandum”.

Anche perché ciascuno di noi della paura ne vive varianti e toni particolarissimi.

“Con questo termine si identificano infatti stati di diversa intensità emotiva che vanno dal timore, all’apprensione, alla preoccupazione, all’inquietudine o all’esitazione sino ad eccessi come l’ansia, il terrore, la fobia o il panico”

Sì, cari lettori, comunque si palesi, la “paura fa paura” agli umani, e le diverse tradizioni/culture tendono ad occultarla, rimuoverla, persino negarla. E con un grave errore metodologico e di prospettiva si inneggia al coraggio che ne è la diretta conseguenza.

Racconti e storie declamano eroi che indomiti sbaragliano nemici e sgominano il male.

Quanta retorica melensa e ripetitiva. Poveri incolpevoli eroi che si vedono dimezzati e male interpretati da quella magniloquenza irrispettosa e fuorviante. Sì, l’eroe ha paura per definizione.

È invaso, dominato dalla paura fino a scoppiarne. A volerne uscirne per volontà o disperazione. È l’istinto alla vita che lo salva (uomini simili a animali!), il più misterioso e potente strumento che l’evoluzione ci ha donato per vincere la paura, anzi, farne il vero motore delle nostre azioni.

“E la paura delle paure è per noi umani la morte, o l’oblio e la dimenticanza che ne sono sorelle terrene”

E se provassimo ora a sperimentare volontariamente, come in un corale laboratorio sociale, dinamiche e discese che ci portano nell’altrove e in destini altri che non siano il nostro? Certo ci vuole un minimo di fantasia e quella leva potente che si chiama empatia. Quel bisogno profondo di rompere le limitazioni della nostra individualità e abbracciare le vite dei nostri simili, quelle passate e quelle che verranno.

Stanchi di svernare nella nostra sola vita. Una sorte di ambizione smodata che talvolta ci prende e non ha altro obiettivo se non quello di trovare un senso nel mondo, una sua giustificazione e plausibilità.

Nulla di luciferino e nemmeno di scientifico; ma un qualcosa che ha a che fare con quella comunione cosmica che nel dolore o nelle ‘situazioni limite’ ci soccorre e ci rende fratelli.

Già, le situazioni limite! Quelle che non conosciamo, che ci trovano disarmati e impreparati.

Terreno fertile per la paura che tutto mobilita, in primis la fuga, e che non consente stasi o indifferenza: “muoviti” è l’imperativo che ci ammannisce senza scampo.

E se ci liberassimo da ogni visione consolatoria sull’uomo e sulla vita? Non saremmo meglio predisposti ad averne rispetto? Abbandonare retoriche e fedi inadeguate per vedere l’ombra e la finitudine che grava e impera sovrana forse sarebbe una via dignitosa, umana. Non ci sono vittorie o improbabili felicità lungo il percorso, ma almeno non sembriamo meravigliati se la paura irrompe e rivendica il ruolo di prima donna nel dramma o in commedia. Eviteremmo quell’inutile vittimismo che ci porta a chiederci: “proprio a me doveva capitare?”.

“Da quel laboratorio sociale, pur vissuto tra le quattro mura della nostra mente, ne uscirebbe un’ invocazione perentoria: vivi, lotta, impegnati, cerca un senso, non ti abbattere, nel breve lasso di tempo che le oscure leggi del caso ci consentono di vivere. Tutto vale la pena, anche il semplice respiro che nutre il corpo”

La letteratura ci ammonisce sul significato ambiguo di ‘normalità’. Basta inciampare in Kafka per scoprire l’abnorme ed il mostruoso celato nell’ordinario e nel consueto. Per non scomodare l’amato Pessoa che usa la quotidianità anonima come coperta per occultare l’immensità che arde nell’animo di un apparentemente scialbo contabile consumato dall’alcool e dai sogni.

Ed allora è solo nel finito, nel provvisorio e nell’incompreso (e nella nostra ineliminabile normalità) che la gioia può convivere con la paura, unica forza vitale che giace come ombra al fondo del nostro essere e si palesa ‘cieca e indifferente’ nelle ‘situazioni limite’ che violano la normalità e la fanno apparire fragile e inconsistente.

E, infine, l’amore, l’anestetico più pervasivo inventato con la sessualità dall’evoluzione, può relegarla sconfitta nell’oblio momentaneo, come un San Michele guerriero che la schiaccia e la sconfigge, in una singola battaglia di una guerra che andrà comunque persa.

Perché l’unica paura che non ha rimedio è la paura della morte e dell’oblio.

E ora mi chiedo abbastanza dubbioso se il mio interesse per i tratturi (cicatrici dimenticate sul nostro territorio) e la loro storia non ne sia una conseguenza.

Ma questa è un’altra storia e lasciamola incompiuta così come mi è affiorata alla mente…

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