Bulimia da Trash on demand
di Riccardo Palamà
Ormai da diverso tempo, scorrendo la home dei social network o passeggiando per le strade della città, capita sempre più spesso di imbattersi nelle pubblicità sponsorizzate dei ristoranti giapponesi o nelle loro insegne nere, rosse e molto minimal.
Formule all you can eat, roll di tutti i tipi e sconti al limite dell’affare attirano sempre più clienti che spesso riempiono le sale sfiorando la capienza massima.
Prezzo fisso, scelta vastissima e prodotti illimitati!
L’intrattenimento, così come la ristorazione, ha avuto uno scossone molto simile.
Lo streaming, infatti, ne ha completamente rivoluzionato la dinamiche: se prima bisognava sottostare alle regole della televisione e della sala cinematografica per potere vedere film e prodotti in serie rispettando quindi orari di programmazione, numero di puntate, ecc., adesso lo spettatore può vedere i suoi film e le sue serie preferite quanto, come, dove e quando vuole.
Netflix, Amazon Prime Video, Mubi, Disney+, Infinity (solo per citare i più famosi) propongono ai propri abbonati un lunghissimo catalogo con una varietà impressionante di contenuti e tutto quello che serve per poter gustare i prodotti è una buona connessione internet.
Prezzo fisso, scelta vastissima e prodotti illimitati!
Conveniente in entrambi i casi, anzi convenientissimo finché se ne riescono a sfruttare i lati positivi. E non sempre questo succede!
Vuoi per pigrizia mentale, vuoi per mancanza di tempo, vuoi anche per la scelta troppo vasta,
spesso il pubblico si ritrova vittima della stessa piattaforma, che “controlla” le scelte dello spettatore, sponsorizzando solo determinati prodotti di consumo, anzi proprio “usa e getta”.
E’ il caso tipico di Netflix, il servizio streaming più popolare e che dell’intrattenimento ne fa un po’ il bello e il cattivo tempo.
Dotato di un’interfaccia intuitiva ed essenziale, tende a spingere sempre lo stesso tipo di contenuto seriale, sfruttando sempre il formato della miniserie (max 8-10 episodi) e presentando trame piatte, personaggi macchiettistici dai denti splendenti e una superficialità di fondo che (e non è carino da dire) spesso si allinea con la pigrizia sopra citata dello spettatore.
Va sottolineato che non c’è nulla di negativo nel voler vedere una serie (o anche un film) fine a stesso che permetta di “staccare il cervello” per un po’, il problema si rivela nell’eccessiva presenza di questi prodotti, che nell’immediato non lasciano niente e che a lungo andare fanno perdere la capacità di riflessione, di sviluppare un pensiero proprio o di ricercare un confronto esterno.
Non si ha nemmeno il tempo di fare tutto questo, perché subito viene lanciato un nuovo trailer e il risultato finale è il sapore dei roll che, nonostante le forme e i colori, sanno tutti di salsa di soia e panko fritto.
In soldoni, Netflix punta più sulla quantità che sulla qualità, poiché la politica aziendale è volta a presentare un ingente numero di sceneggiati ma banalizzando quanto detto, il fatto che ci siano tante produzioni da poter realizzare, non vuol dire per forza che vadano realizzate tutte.
Tuttavia Netflix, non è da demonizzare e bisogna dare i giusti meriti.
Riprendendo il discorso sopra, i contenuti originali Netflix di qualità (anche se molto limitati) ci sono ed è proprio grazie al respiro di novità che un po’ tutte le piattaforme hanno che alcuni lungometraggi hanno visto la luce.
E’ il caso di Atlantique (regia di Mati Diop, 2019), Gran Prix speciale della giuria a Cannes 2019, che è stato rilasciato direttamente su Netflix, non avendo ricevuto una distribuzione cinematografica mondiale adeguata (esclusa Francia e Belgio).
Credo che sia proprio questa la forza dello streaming: un’estensione e un prolungamento dell’esperienza audiovisiva che permetta al pubblico di godere anche di lavori usciti in sordina, di opere prime e seconde, di debuttanti, di film indipendenti e/o a basso budget e, fermo restando che niente sostituirà il cinema come struttura, dove non arriva la sala arriva lo streaming!
E vale anche per la tv!
Sempre Netflix si è fatta carico di distribuire in diversi paesi non esattamente di mentalità aperta Pose, miniserie distribuita sulla rete via cavo FX e ideata da Ryan Murphy, che racconta le vite e le storie della comunità LGBT+ sullo sfondo delle ballroom di fine anni ’80.
Ora, immagino la reazione di sdegno di un fedele e integerrimo spettatore a una pubblicità sulla RAI in cui un gruppo di transessuali balla sulle canzoni di Diana Ross con boa di piume e tacchi a spillo… Rido che mi viene un ictus!
E così come il wasabi conferisce una nota piccate ai nighiri, la possibilità di vedere i contenuti in lingua originale, la presenza dei sottotitoli, gli extra e le scene tagliate rappresentano uno sfizioso contorno volto a stimolare la curiosità dello spettatore, continuando ad amplificare la già citata esperienza audiovisiva.
Abbandonando solo per un momento le metafore culinarie, anche allo spettatore è richiesto un po’ di impegno nel confrontarsi con stili e generi diversi, ricercando contenuti nuovi e stimolanti per sviluppare uno spirito critico personale altrimenti si rischia una lobotomizzazione di gruppo che porterà a confondere la carne del fast food per quella della braceria, i bastoncini di merluzzo per il salmone scozzese, la pizza napoletana per la pizza surgelata e la Casa di Carta per una vera serie televisiva.