La famiglia. L’individuo. La lettura della sceneggiatrice Tamara Jenkins.

 

di Dunia Elfarouk

 

Secondo gli antichi Greci prima – che si richiamavano alle Parche – e secondo gli antichi Romani poi, che le denominavano Moire, vi è una sorta di filo di provenienza da queste creature ultraterrene che, per ignote mistiche ragioni, tesse l’esistenza dell’uomo e del divino, affidando la sua nascita ad una determinata famiglia, poiché di essa deve farne primaria esperienza in questo percorso terreno, trarne un qualche primitivo indispensabile insegnamento, una sorta di primo incontro-scontro con la dimensione mondana. Così, Cloto, la più giovane delle Moire, tessitrice delle nascite, affida ciascun poppante al seno familiare da cui succhiare le iniziatiche sorsate di esistenza.

Che si voglia credere o meno al fascino del mito, nulla prescinde quello stretto nucleo da cui prende origine il resto della civiltà, società. Quella prima inevitata tappa da cui si proviene, da cui si prendono le distanze, da cui si scappa a gambe in spalla o a cui si rimane arroccati per non perdere certezze.

Ne parlava già il buon vecchio Aristotele, secondo cui la famiglia TIPICA avrebbe dovuto essere composta da un adulto maschio libero, dalla propria moglie, dai figli e dagli schiavi. Non volendo approfondire in questa sede il concetto differenziale tra libero e schiavo, un po’ perché pare fuori luogo e un po’ perché mi riporterebbe ad altri scorci di vita, le mai dimenticate aule di diritto romano, appoggerei piuttosto lo sguardo su questa tipicità accostata alla nozione di famiglia, intesa certamente in senso filosofico e/o sociologico, non in senso normativo-giuridico.

Esattamente, è sulla tanto discussa, sviscerata, bistrattata, contestualizzata, decontestualizzata, mortificata, sulla bocca di tutti “famiglia” che mi soffermerei. E, en passant, su un punto, grimaldello poetico che apre porte e spalanca quesiti, vale la pena spendere un cenno di pensiero. Aristotele così si pronuncia nella sua “Politica”:

“I bambini sono evidentemente influenzati dalla madre che li porta, come le piante dalla terra”. E, allora, verrebbe da chiedersi, chi è la madre? La madre terra stessa? Il luogo in cui si è venuti alla luce? Le radici a cui si risale?

Di certo, la famiglia è il nucleo fondamentale e allo stesso tempo la complessa culla da cui dipartono tutte le nostre relazioni umane.

Allora, se già Aristotele era così avanti da definirla “famiglia tipo” ovvero una forma possibile di famiglia, un prototipo di buon senso e di ordinato vivere civile cui eventualmente adeguarsi, concetto poi cristianizzato e radicalizzato da Sant’Agostino, rigidamente inteso con rigore assoluto nelle epoche successive e mai venuto a mancare, per lo meno negli ordinamenti di questa parte di mondo, perché siamo ancora qui a strapparci i capelli per definirne forma, perimetro, composizione e limiti invalicabili pena l’oltraggio di massa?

Dunque, senza blandire il già chiacchieratissimo Papa Francesco che ha ardito dare la sua benedizione alle coppie omosessuali (Gesù Bambino si rivolterà nella culla questo Natale), azzardo a pensare che, in fondo, prendendo le distanze da ogni estremizzazione del pensiero greco, religioso o laico contemporaneo, che le possibilità di aggregazione familiare possono essere molte e diversificate, come molti e diversificati sono i tipi di esseri umani che le compongono.

Pensate un po’ che io, sino a qualche tempo fa, ho sempre considerato la mia “famiglia ideale” Simone de Beauvoir e Jean Paul Sartre.

Una coppia di intellettuali sgangherata che manco aveva figli. E che, con buona pace di Simone, contemplava anche le – pur sempre indigeste alla compagna stessa – fughe d’adulterio di Jean Paul. Perchè i due si amavano, crescevano intellettualmente di pari passo ed in un modo del tutto indipendente: immaginate, nemmeno abitavano la stessa casa.

Ora, beh, ora, di che cosa debba essere o non essere composta la famiglia ideale non mi pongo il problema.

Lascio che accada, purché nel segno di qualcosa di bello. Produttivo. Non necessariamente prolifico di figli. Ma anche e soprattutto di idee.

      CONSIGLI PER LA VISIONE

Nell’ottica della regista Tamara Jenkins è proprio la comunque lodevole ambizione rivolta alla costruzione di una famiglia (di qualsiasi conformazione essa sia, ndr) che comporta non poca determinazione e fatica: prima nella sua ideazione, dopo nella sua effettiva formazione e alla fine nella sua malaugurata deriva.
Ce l’aveva già sublimemente narrato una decina abbondante di anni fa con i suoi toni agrodolci attraverso La famiglia Savage, una black commedy intrisa di malinconia, dolce-amara consapevolezza, acuta e tagliente intelligenza, per di più interpretata da mirabili attori.

Ve li ricordate i Savages?

Sono sicura che se fate uno sforzo minimo non possono non sovvenirvi alla mente i fratelli Jon e Wendy.

I due non hanno ormai da lungo tempo alcun contatto fra loro. Si tratta di una famiglia sgretolata ormai da incalcolabili anni: il padre è sempre stato indifferente nei confronti dei due figli e della madre si erano perse notizie da tempo immemorabile.

Un giorno i figli stessi vengono informati che il padre soffre di demenza senile e che la compagna con la quale egli ha convissuto per decenni, nella minuscola cittadina di Sun City in Arizona, è morta. Decidono perciò di trasferirlo in una casa di riposo a Buffalo, dove vive Jon, il quale lavora come insegnante universitario di drammaturgia e sta scrivendo un libro. Wendy, a sua volta aspirante sceneggiatrice, coinvolta in una logorante relazione con un uomo sposato, da New York si trasferisce momentaneamente presso la casa di Jon. I due fratelli si ritrovano, quindi, improvvisamente, a farsi carico delle cure dell’anziano padre, che pare agli ultimi scorci di vita.

Ma la nuova faticosa situazione non fa che essere un pretesto per la regista per aprire con il più affilato bisturi le anime dei protagonisti: sconvolte, disilluse – eppure mai del tutto e per davvero, poichè c’è sempre una grottesca fiammella di speranza a spingerle a credere. A ricondurle, infine, ad una goffa affettuosa ri-unione.

Protagonisti del successivo esperimento cinematografico (eccellentemente riuscito) della Jenkins, Private Life, sono Paul Giamatti e Kathryn Hahn, una coppia che ripetutamente e con ogni metodo clinico, pena l’esaurimento nervoso di entrambi, sta tentando di avere un figlio. Che si ostina a non arrivare.

Il cedimento d’animo che questo desiderio costantemente amputato dai fallimenti comporta per la coppia rischia di condurla al definitivo tracollo emotivo.

Ma, ad un certo punto, la figlia di una coppia di amici, affascinata dallo stile di vita dei due: lei scrittrice sopra le righe, lui ex sceneggiatore che in gioventù aveva partecipato a lotte progressiste, si propone loro come donatrice di ovuli.
Conseguiranno ulteriori crisi ed un aggravamento della relazione di coppia.

Jenkins utilizza il pretesto della maternità e della famiglia per investigare, come solo lei sa fare, i drammi del singolo, amplificati dalla vita di coppia, acuiti dalla esasperata disperata ricerca di un figlio.

Come chiaramente si intuisce dal titolo, alla regista non interessano più di tanto i meccanismi della fecondazione e delle donazioni, seppure vengano attentamente percorsi con minuzia scientifica, ma la vita privata di una coppia e di chi la circonda, le glorie e le frustrazioni dei rapporti umani, i sospiri intimi da cui emergono i quesiti esistenziali che accomunano ciascun individuo. Nessuno escluso.

E’ per questo che, alla fine di tutta la mia frastornante circumnavigazione di pensieri, vi consiglio di togliervi lo sfizio di vedere il lato intimo delle cose come lo racconta la regista sceneggiatrice.

Giacchè, in fondo, in ogni dimensione, l’uomo teme di più la libertà di fallire rispetto al fallimento stesso.

Ma, per fortuna, l’amore quale libera catarsi, nonché prezioso strumento di autoanalisi, così come l’essere famiglia in ogni declinazione si desideri possono essere, essi stessi, una via all’introspezione e una purgazione rispetto alla più atavica delle ossessioni.

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