Tradizionale e tecnologica: due diverse agricolture con diversi problemi

di Canio Trione
È di solare evidenza che da un chicco di grano opportunamente seminato si ricavano centinaia di altri chicchi di grano. Cioè l’agricoltura crea valore pur che lo si voglia. Molto tempo fa si credeva che tale creazione promanasse da Dio direttamente non foss’altro che per il fatto che solo Lui è il creatore. Si pensava che solo dall’agricoltura potesse venire la ricchezza mentre il resto era solo trasformazione e quindi valorizzazione dei prodotti del suolo e del sottosuolo.
Poi sono venuti quelli che “ragionano”, gli illuministi, che si sono accorti che tale miracolo non era dipeso dalla divinità ma da fattori naturali che materialmente producono la spiga. Quindi abbiamo cominciato a forzare la natura fino a produrre alimenti senza necessariamente utilizzare il terreno. Così, oggi, non è più  un’azione di creazione di ricchezza ma di trasformazione di certe sostanze in alimenti. È l’impero della tecnologia dove l’uomo ritiene di poter agevolmente sostituire il Creatore nella azione di creazione della vita e della ricchezza.
Quindi al di la dei distinguo filosofici abbiamo due agricolture che hanno lo stesso nome ma sono cose profondamente diverse. Quale è più competitiva? Quali sono i loro problemi?
La prima agricoltura è quella tradizionale con prodotti di quantità e qualità più naturali e sostenibili ma imprevedibili e non programmabili. La loro produzione dipende dalla manodopera e non tanto dal capitale investito. Essa è quella dei paesi e delle economie a grande impiego di braccia a poco prezzo. La grande distribuzione vi ricorre mettendo in difficoltà i produttori domestici delle economie avanzate. Frutta, frumento, olii, risi, vengono acquistati a prezzi che in Occidente sono da fame. In Occidente quel poco che si realizza di queste produzioni costituiscono i famosi alimenti a chilometro zero portatori della tradizione e della identità locale e venduti da imprese piccole e molto specializzate. Non garantiscono redditi decenti ai produttori ma garantiscono forniture di qualità a prezzi relativamente molto bassi.
La seconda agricoltura, quella tecnologica, fornisce beni standardizzati, accompagnati da certificazioni di ogni tipo, confezionati da tonnellate di plastiche di ogni genere per la gioia dei buyer di tutto il mondo. I costi sono molto più elevati dell’agricoltura tradizionale ma garantiscono redditi significativi specie ai proprietari ma hanno elevati livelli di costi fissi; energia, acqua, concimi, trasporti, meccanica, interessi passivi,…tutti costi che costituiscono incassi delle multinazionali fornitrici nei vari settori e quindi molto rigidi e indiscutibili. Spesso si tratta di produzioni geneticamente modificate brevettate e quindi costose anche da questo punto di vista. Non dovrebbe chiamarsi agricoltura ma industria. Ambientalmente non è sostenibile neanche nel medio periodo. La grande distribuzione parla la stessa lingua di questi produttori e scaricano sui consumatori i costi elevati di produzione e di distribuzione. Non si conoscono gli effetti a lungo termine sulla salute umana di codesti prodotti dell’”industria agricola”. I prezzi sono elevati e scaricati interamente sulle spalle dei consumatori e le produzioni sono parzialmente programmabili.
Su tutto incombe il costo dell’acqua e il suo effetto disponibilità: mentre in altre aree d’Europa l’acqua è disponibile ed è vicina ai campi coltivati in molte aree del Sud come il Salento e l’Appennino non solo non ce n’è ma non può esserci mentre gli acquedotti non vi sono o sono inefficienti e costosi; richiedendosi interventi ambiziosi e molto ma molto delicati sul piano ambientale.
Ancora peggio è da dire della disponibilità di personale competente ed abbondante a costi competitivi. Un disastro senza fine!
Il disagio dell’agricoltura coinvolge tutto il settore, tradizionale ed industriale, ma la confusione che regna al suo interno toglie agli agricoltori la possibilità di indicare una qualche proposta chiara e unitaria. Su tutto domina lo strapotere della grande distribuzione che moltiplica i costi e quindi i prezzi di vendita comprimendo le quantità vendute e quindi condannando a morte sia l’agricoltura tradizionale che quella industriale. A questo proposito va detto che la produzione di alimenti dell’agricoltura tradizionale è molto rigida nel senso che se la domanda è più elevata delle produzioni non c’è modo di accrescere le produzioni nel breve periodo producendo rincari elevatissimi; circostanza rara ma possibile. Al contrario quando le produzioni sono eccedentarie rispetto all’offerta i prezzi crollano sotto i costi di raccolta e distribuzione e molti campi rimangono non raccolti. Circostanze tutte gravissime e già chiare all’inizio della crescita della grande distribuzione che non doveva nascere ma che adesso, nel suo insieme, costituisce una specie di massa tumorale impossibile da rimuovere. Al contrario la piccola distribuzione ha costi fissi molto bassi e alle volte vicini allo zero (bancarelle e negozi di vicinato) e quindi in grado di garantire una distribuzione efficiente ed efficace nell’offrire uno sbocco alle produzioni e prezzi vicini ai costi a vantaggio del consumatore.
Che fare? Bloccare l’apertura di nuovi punti vendita della GDO e favorire una progressiva chiusura di molti di essi è una misura salutare non solo per l’agricoltura ma anche per la stessa grande distribuzione, ma certamente non basta. Serve un progetto complessivo che mentre da un lato renda progressivamente e strutturalmente più economica la logistica (quindi ad esempio chilometro zero…) dall’altro disincentivi per l’agricoltura industriale. In questo senso la reintroduzione dei dazi anche in chiave ambientale mi sembra il minimo; la uniformizzazione delle merci importate alle norme nazionali sul modello statunitense è assolutamente ovvio; il blocco delle coltivazioni super intensive è coerente con l’idea di salvaguardia ambientale; la selezione e blocco delle varietà transgeniche va nello stesso senso di salvaguardia dell’ecosfera; MAI assistenze!
Menzione a parte meritano le grandi sacche di inefficienza dovute alla burocrazia. La maniacale e molto male interpretata esigenza di garantire il consumatore ha prodotto norme prive di senso ed inefficaci che vanno rimosse e sostituite con altre più semplici ed efficaci naturalmente a carico del bilancio pubblico essendo interesse pubblico e non certo privato questo tipo di garanzie. Si tratta di una mentalità molto lontana da quella tecnocratica e quindi arzigogolata e barocca che domina nei Palazzi del potere nazionali ed europei. Stesso ragionamento va fatto per le norme agricole europee espressione di “esperti” scollati dalla realtà che non solo è differente da un posto all’altro di un’area così grande come l’Europa ma che è anche in perenne divenire; realtà che non va mai influenzata o determinata.
Una gatta da pelare come poche altre che promette smottamenti e rotture della continuità gravissime che solo l’abnegazione ed eroicità degli addetti potrà parzialmente superare. Tutte cose prevedibili e previste al punto da farci dire che forse sono state lasciate a se stesse per consentire il collasso del settore a favore di eventuali produttori di cibi “nuovi” massificabili a dismisura.

FOTO: “Per ottanta centesimi”, Angelo Morbelli, 1895.

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