Una nuova disfida da vincere, come nel Rinascimento
di Riccardo Greco
magistrato e scrittore
C’è un autore romantico che di questi tempi andrebbe riletto; ed è Massimo D’Azeglio, riconosciuto autore della frase simbolo: “Fatta l’Italia bisogna fare gli Italiani”.
Era il 1860. Dopo oltre un secolo e mezzo c’è da chiedersi se sia il caso di recuperare quel monito. In effetti, per un bel po’ non ce n’è stato bisogno: perché l’omologazione fra italiani è stato un fatto compiuto, e i valori europei si sono sovrapposti a una cultura sciovinista, frammentatrice ed escludente, per fare di noi un popolo sovranazionale.
Ora invece! Ora invece che ritornano di moda i nazionalismi, con i loro propugnatori autodefinitisi “sovranisti”, si va sempre più scendendo nella gerarchia territoriale, e il confine entro cui esercitare il “potere sovrano” rimpicciolisce via via, passando dallo Stato alle autonomie, fino ai microcosmi localistici.
A breve si compirà l’approvazione dell’autonomia fiscale di alcune regioni del nord e staremo a vedere se succederà che ritornano a loro indietro gli introiti erariali, e rimarrà allo Stato il carico di spese collettive (difesa, sicurezza, istruzione, trasporti ecc..), con conseguenti buchi nelle tasche degli altri. Di fatto, il federalismo fiscale, concepito in origine come condivisione di risorse in un’ottica perequativa degli svantaggi, è stato da tempo sostituito dal decentramento amministrativo-impositivo, in chiave competitiva piuttosto che solidaristica, ed è stato giustificato l’accaparramento finanziario in ragione della leva elettorale.
Le circoscrizioni italiane e il numero dei seggi sono distribuiti avendo a parametro il solo dato della popolazione (anziché ad esempio un dato congiunto con l’estensione territoriale), di modo che le 8 regioni del nord cumulano 140 seggi al Senato e 229 seggi alla Camera, contro rispettivamente 66 e 103 delle 4 regioni del sud. Una sproporzione che impone al legislatore di fare i conti con il rampantismo localistico, molto di più di quanto i bisogni dei territori richiederebbero.
Ora Milano è una grandissima città e merita il primato nello smart city index del 2018. Ben amministrata ed efficiente si conferma capitale culturale, industriale ed economica. Ma su questo successo ha un peso determinante anche la contribuzione pubblica.
Solo grazie ad Expo, la città ha ricevuto finanziamenti diretti alla manifestazione per 1,258 miliardi di euro.
Soldi che sono confluiti in un bacino territoriale strettissimo, costituendo volano economico di crescita diffusa. Così come Torino uscì vincente dalle olimpiadi invernali del 2006, e a distanza di 10 anni in un’intervista agli organi di stampa, Chiamparino ha potuto sostenere il successo dell’iniziativa, riferendosi, di proposito, agli interventi realizzati con gli investimenti pubblici straordinari erogati per l’occasione (nota 1). E in effetti qualsiasi visitatore di Torino ha la netta sensazione del miglioramento urbanistico di cui si è avvantaggiata la città.
Expo e olimpiadi invernali potevano essere fatte altrove? Direi no; assolutamente no. Perché gli eventi si fanno dove c’è un contesto favorevole: dove sono possibili collegamenti veloci, dove ci sono strutture recettive adeguate, dove c’è un sistema complessivamente funzionante. Ma, come dire? Piove sul bagnato. Perché antecedenti storici dei finanziamenti di quei due eventi, sono i tanti altri soldi pubblici spesi per realizzare infrastrutture totalmente appagatrici delle necessità.
Probabilmente la Calabria, il miliardo e passa di euro dell’Expo non li vedrà nemmeno sommando i finanziamenti straordinari per venti anni di seguito.
Ed è già tenue la speranza di una rete viaria efficiente per tutto il suo periplo, mentre per la ferrovia jonica credo che tutti già non ci pensino nemmeno.
Dunque, il solito piagnisteo? Nei fatti, inutile illudersi. Perché il divario di crescita non può che allargarsi, con il Sud destinato a una perenne, continua emarginalizzazione e perifericità. Il circolo vizioso si autoalimenta: più marginalità, più fuga di popolo, meno rappresentatività e ancor meno risorse.
Qualche rivincita possiamo prendercela. Ma dobbiamo attingere ad altri valori: natura, solidarietà, un comune sentire di felicità a poco prezzo.
Mi rivolgo ancora a D’Azeglio e rilancio. Ettore Fieramosca con la disfida di Barletta fu il segno del riscatto italico; in forma narrativa ne scrisse l’autore romantico, ma la storia è vera.
All’inizio del ‘500, Spagna e Francia si stavano spartendo, more solito, il Regno di Napoli ed eterni belligeranti, si erano impantanati un conflitto di posizione. I francesi sbeffeggiarono d’incapacità militare gli italiani e questi, con il Fieramosca, lanciarono la sfida sul campo. Tredici italiani e tredici francesi scelsero un pianoro su per giù nei pressi di Barletta e con le regole del duello si azzuffarono in luogo recintato, l’uno contro l’altro. Vinsero gli italiani riscattando il dileggio che di loro era stato fatto.
La vicenda si rivestì d’epopea dopo l’unità d’Italia per rafforzare lo spirito nazionalistico, e ancor di più con il nazionalismo vero del ventennio fascista. Il fatto è che di disfide all’epoca, come pochi sanno, a dispetto della documentazione storica dei contemporanei (nota 2), ce ne furono ben cinque: un’altra a Trani tra undici cavalieri per parte, nella stessa Barletta fra due capitani soltanto, ripetuta dopo tra uno sconosciuto cavaliere italiano e un certo Vozmediano, uomo d’armi di Diego di Mendoza, e poi, l’ultima, nel 1504 a Rossano, ancora compresa nei possedimenti sottoposti all’autorità francese. La città calabrese, cinta d’assedio da duemila spagnoli comandati da Garcia de Paredes e da Gonzalo Pizzarro, furono destinatari della sfida dal feudatario di quella terra, Giovanni Battista Marzano e fu allora che con tre cavalieri per parte, suonarono ancora le trombe dell’onore. Vinsero gli Spagnoli, ma non la voglia di riscatto di quegli eroici combattenti.
Cinque disfide, e non la sola tramandata dalla tradizione letteraria, sono esempio di un sentire diffuso per la difesa della propria identità di popolo.
Oggi abbiamo necessità dello stesso spirito di riscatto, e necessitiamo di analogo coraggio. Vorrei lanciare il guanto a chi ci rimprovera di parassitismo, incultura, asocialità. Accuse non sempre infondate a cui dobbiamo porre rimedio, ma ingiustamente dimentiche della forza di una tradizione umanistica dei nostri luoghi risalente alla Magna Grecia e rinnovata nei secoli successivi, da Federico II in poi, quale culla del diritto. Oggi si popolano di persone per bene che contaminano, con la loro diaspora, altri contesti, diversi da quelli natii.
Lanciamo la sfida perché tutti riconoscano e apprezzino le nostre qualità, partendo da noi e dalla voglia di competere.
1) “http://www.torinotoday.it/
2) Oltre Paolo Giovio in La vita del Gran Capitano, sul Consalvo, anche Hernando del Pulgar nella sua Chronica de los reyes Catholicos, e altri autori.
Caro Riccardo affrontare oggi la questione meridionale significa innanzitutto fare chiarezza sul passato e tu hai offerto nel tuo articolo interessanti spunti di riflessione. Anche l’articolo del mio amico Erasmo Venosi esamina aspetti poco noti ai piu’. Oggi il sud e’ abbandonato a se stesso. E questo non e’ un effetto leghista. Guarda Chiamparino, ad esempio, che anche dopo la divulgazione del rapporto negativo sui costi benifici della TAV, voluto dai 5stelle ( che conferma quanto le associazioni no TAV hanno sostenuto da 10 anni) dichiara di scendere in piazza a manifestrae pro TAV. Sei miliardi di euro da spendere (rectius da buttare via ) gli fanno gola. Pensa a cosa si potrebbe fare con quei soldi investiti in Calabria. Tanto per dirne una: incentivi alle imprese della green economy. Un vero boom in Italia, visto che fatturano oltre 80 miliardi e vendono in tutto il mondo ( USA compresi) . Magari,invece di farle scappare via si potrebbe invogliarle a fare investimenti al sud.
Maurizio Rizzo Striano