“Economia è cultura. Cultura è economia” + spiritualità
di Filomena Montella
docente di storia e letteratura
Qualche giorno fa, fra i corridoi dell’istituto scolastico in cui lavoro, ho avuto un momento di confronto con il collega Enzo Varricchio che dirige questo giornale e che a suo tempo ebbe a scrivere:
“Economia è cultura. Cultura è economia”
Abbiamo convenuto sul fatto che cultura significhi anche una dose di umanesimo e spiritualità, ritrovandoci su un dato:
oggi, più che mai, si sta perdendo il senso dello spirituale alla ricerca spasmodica del profitto economico.
Allora ho deciso di scrivere una mia riflessione sul tema del come conciliare spiritualità e profitto.
Parto da questo passo di Karl Marx che in Manoscritti economico-filosofici del 1844 scriveva:
«L’economia ha come suo dogma la rinuncia a sé stessi, la rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani (…)
Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua
vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato.
Tutti i sensi fisici e spirituali sono stati sostituiti dalla semplice alienazione di essi, tutti sostituiti dal senso dell’avere. Tutto ciò che l’economia ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza, e tutto ciò che tu non puoi, può il tuo denaro, esso può insomma impadronirsi per te di tutto quanto; può tutto comprare: esso è il vero e proprio potere. Ma pur essendo tutto questo, non è in grado di produrre null’altro che sé stesso, né di comprare nulla fuor che sé stesso. Quando il denaro diventa il fine ultimo, tutti i beni che non sono di natura economica come l’intelligenza, la cultura, l’arte, la forza, la bellezza, l’amore, per l’avaro cessano di essere valori in sé, perché lo diventano limitatamente alla loro convertibilità in denaro, che, a questo punto, si presenta agli occhi dell’avaro come la forma astratta di tutti i piaceri che tuttavia non vengono goduti».
Parole che sono davvero attuali.
Ai miei studenti dimostro come oggi più che mai sia necessario implementare l’intelligenza, la cultura, la bellezza per far sì che il cuore non si
inaridisca alla ricerca solo del profitto economico. Non serve solo avere; è importante anche essere, per dare dignità alla nostra vita.
La bellezza della cultura insegna la filantropia, che oggi più che mai rimanda al concetto di condivisione della ricchezza perché tutti abbiano il
necessario per una vita dignitosa.
In particolare penso alla letteratura, materia che insegno con passione e rigore, coniugando anima e cervello, cuore e mente.
Quando a Josè Saramago fu chiesto: «A cosa serve la letteratura?», rispose: «A niente. Prenda le opere letterarie più notevoli, quelle occidentali, se
vuole, le più vicine a noi; prenda quelle che hanno messo il dito nelle piaghe delle miserie umane, quelle che con maggior acume e forza ci hanno
avvertiti sul pericolo che rappresenta la nostra presenza umana per il mondo in cui viviamo, prenda le tragedie di Sofocle, la Commedia di Dante, il
Don Chisciotte, i drammi e le tragedie di Shakespeare, i romanzi di Kafka, Tolstoi, Dostoievski, Musil, Camus, Sartre, quelle che vuole, e sarà
d’accordo con me che nessuna di queste opere – nemmeno tutte loro insieme- sono riuscite a cambiare una virgola nella storia della barbarie umana».
Eppure, continuava Saramago: «Sebbene sia vero che la letteratura non è mai servita a cambiare il corso della nostra storia, e in questo
senso non nutro alcuna speranza nei suoi confronti, a me è servita per amare di più i miei cani, per essere un miglior vicino di casa, per curare i miei
alberi, per non buttare la spazzatura in strada, per amare di più mia moglie e i miei amici, per essere meno crudele e invidioso, per capire meglio
questa cosa tanto strana che siamo noi uomini».
Ecco, l’arte declinata in tutte le forme dalla poesia alla pittura non ha un effetto immediato e materiale, come l’economia, ma serve ad essere belle
persone, per capire il nostro essere e il nostro compito nella vita, una vita fatta di altri a cui dobbiamo voler bene.
Se unissimo all’economia anche il bello dell’arte non sarebbe un’esperienza di vera armonia?
Penso alla figura dell’imprenditore Adriano Olivetti, che riprese dal padre, Camillo, quel progetto di un’industria illuminata, non capitalistica,
concependo (come disse a Pozzuoli nel 1955) «la fabbrica alla misura dell’uomo, perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno
strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza. […] L’uomo, strappato alla terra e alla natura dalla civiltà delle macchine, ha sofferto nel
profondo del suo animo e non sappiamo nemmeno quante e profonde incisioni, quante dolorose ferite, quanti irreparabili danni siano occorsi nel
segreto del suo inconscio».
L’imprenditore di Ivrea parlava di fabbriche come un insieme di comunità del bene, concetto che nasce dalle letture di Maritain e di Mounier: «Una Comunità né troppo grande né troppo piccola, concreta, territorialmente definita, dotata di vasti poteri, che desse a tutte le attività quell’indispensabile coordinamento, quell’efficienza, quel rispetto della personalità umana, della cultura e dell’arte, che il destino aveva realizzato in una parte del territorio stesso, in una singola industria.
La fabbrica di Olivetti è una fabbrica bella e giusta, così come l’ordine sociale che egli immagina, costruito sulla base di comunità che danno alla bellezza e alla giustizia un valore non puramente astratto.
La fabbrica non è il luogo del puro profitto, ma un elemento centrale della comunità, dove si crea e vive la propria storia attraverso i rapporti che vi nascono. Dove si produce cultura.
Allora sì, è possibile coniugare il profitto e la cultura, non solo per pochi eletti, ma per tutti, dove davvero possa divenire reale l’utopica Atlantide.
Della stessa Autrice su SM:
Sul tema:
https://festivaleconomiaespiritualita.it/
PIC: Vasilij Kandinskij, Composizione IV , 1911