Cosa non si fa per possedere eredità non dovute…

 

di Franco Deramo

Il nuovo romanzo di Gianni SpinelliLa scatola di cuoioFazi Editore (pp.213), si sviluppa intorno a tre cose: una scatola di cuoio… “vissuta”, tanta proprietà, testamenti.

Tutto si svolge in un piccolo comune, uno come tanti, della Basilicata. Gli abitanti si suddividono rigidamente in due classi sociali: borghesi, latifondisti, proprietari di beni e soldi, da una parte, poveri, braccianti e proletari, sempre più anziani, dall’altra.

“San Clemente il suo nome, nel materano. Con una caratteristica: è l’epicentro della vicenda, ma è un comune inesistente”

Tanti i personaggi che danno vita ad una storia intrigante. Con protagonisti a loro volta tipici e al tempo stesso originali, imprevedibili, con i quali l’autore riesce a metterti faccia a faccia.

La fantasia e l’arte narrativa di Spinelli hanno una grande capacità: sanno raccontare e sanno prenderti, sanno coinvolgerti. Nella storia entri anche tu, non come osservatore, ma come attore. Una vicenda che intriga, che ti fa guardare solo l’agire del suo protagonista, non la modalità con cui è pervenuto a tanta ricchezza.

“Su tutti emerge la figura di un monaco.

Un cappuccino che ama farsi chiamare

e dice di essere il Provinciale: Don Pantaleo”

Fuori da ogni convento, da ogni regola, da ogni Ordine, pare non sottoposto ad alcuna autorità e lontano da ogni forma di vincolo religioso: non prega, non celebra, cura il corpo più che l’anima.

I vizi capitali sono l’esercizio eroico delle sue “virtù”. A partire dalla sua raffinata arte culinaria, esercitata con forme cultuali ostentate che gli vengono platealmente riconosciute da commensali gaudenti e plaudenti. Peccato di gola ben risaputo e condiviso.

La lussuria, il peccato nascosto, mai risaputo, occultato, ben tutelato, dedotto e sublimato.

Un personaggio diabolico, cioè, più amico del diavolo che vicino a Dio, forse totalmente… da lui lontano.

Diabolico anche nelle scelte e nelle decisioni: parla poco, anzi niente, anaffettivo, ma agisce con spietata determinazione e voluttà in una “casona” donata perché divenisse convento di spiritualità e di suffragi per l’anima generosa della donatrice.

Dedito, con il notaio del paese, all’accumulo di proprietà e beni e alla “generosa”, mortale pratica dell’usura.

Appare poco, ma da chi si presenta, ottiene donazioni consistenti, in quanto monaco.

Agisce, possiede e vive, però, come altro.

Uno spaccato di figura venerata dai parenti che mirano al suo patrimonio, all’eredità…

Una nipote, donna Marta e suo marito, lo assistono con cura oblativa, ma interessata, pronta a subentrare, la nipote acquisita, carica di ingordigia insaziabile, nel possesso e nelle consuetudini rituali del venerato zio. Tentativo forzoso, dopo la sua morte, per darsi ruolo e dignità agli occhi del paese e al suo pettegolare.

Quel che conta è il giudizio della gente, quel che ad essa appare e che percepisce.

“Una vicenda umana ricca di accadimenti, impensabili, imprevedibili”

Tutti i famigliari tesi al possesso di un patrimonio che può cambiare la vita a tutti, nipoti e pronipoti.

Ma i colpi di scena si alternano a finzioni e ad incapacità di sopportazione di angherie, di tormenti e paure che l’ambiente concorre a costruire, custodire e far subire.

Testamenti e promesse che alternano fragili, ma interessatissime beneficiarie, incapaci a reggere forme di spiritismo alimentato da fantasiose ricostruzioni o non lasciate libere di vivere la propria esistenza. Vicende raccontate anche da libere interpretazioni dalla stampa, a cura di un giornalista del territorio che sulle vicende che filtrano, si fionda con determinazione pruriginosa.

L’ultimo testamento, quello di una lunga serie, vedrà il suo oneroso quanto inutile epilogo in tribunale.

La proprietà, i beni degli altri, fanno gola agli ingordi e ai miseri.

I soldi degli altri ti possono cambiare la vita con un colpo di mano o un colpo di fortuna, inaspettato.

Chi se ne impossessa illecitamente, è risaputo, però, che non se li godrà mai.

“Sono molti quelli che ci devono pensare, non solo a San Clemente…”

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