di Luciano Sechi e Luigi Triggiani

 

“La lotta collo straniero è portata a buon porto, ma non è questa la difficoltà maggiore. La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse, è la lotta interna. I più pericolosi nemici d’Italia non sono i Tedeschi, sono gl’Italiani. E perché? Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; perché pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro, perché l’Italia, come tutt’i popoli, non potrà divenir nazione, non potrà esser ordinata, ben amministrata, forte così contro lo straniero come contro i settari dell’interno, libera e di propria ragione, finché grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere, e non lo faccia bene, od almeno il meglio che può”.

Non è il passaggio di un accorato editoriale dopo le dolorose settimane di lockdown e di un’escalation di vittime di un’inattesa pandemia, e nemmeno sulla polemica con il premier olandese Mark Rutte, leader dei cosiddetti paesi frugali che pretendeva controlli da troika sulla spesa Ue nel post pandemia, dimenticando le facilitazioni fiscali che hanno garantito al suo paese la localizzazione fiscale di medie e grandi imprese: è un brano di qualche tempo addietro, da “I miei ricordi”, di Massimo Taparelli, marchese d’Azeglio (Torino, 24 ottobre 1798 – Torino, 15 gennaio 1866), già primo ministro del Regno di Sardegna dal 1849 al 1852, noto soprattutto per essere l’autore di Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta, del 1833.
E il vecchio politico sabaudo non è stato nemmeno tra i più caustici sulla capacità italiana di governarsi, se è ormai diventata quasi un luogo comune la frase, non si sa se del liberale Giolitti nel 1901, di Mussolini nel 1939 o ancora di Churchill alla caduta del fascismo il 25 luglio del 1943: “Governare gli italiani non è impossibile, è inutile”. E’ sicuramente del premier britannico, Nobel per la letteratura nel 1953, l’affermazione “Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio”, mentre Indro Montanelli rincarava “Gli italiani non si dividono in furbi e in fessi, sono nello stesso tempo tutti furbi e fessi” e Gino Bartali ammetteva che “Gli italiani sono un popolo di sedentari. Chi fa carriera ottiene una poltrona”.
Questa sequela di commenti scarsamente ottimistici sul popolo italico, o quanto meno del suo senso dello Stato, non sembrano fuori luogo all’indomani della conclusione dell’aspro confronto Nord/Sud, paesi mediterranei verso paesi frugali, scontro che nonostante tutto ha portato all’accordo nel Consiglio europeo sul cosiddetto Recovery Fund, che garantirà all’Italia di essere l’unico contribuente netto del bilancio Ue a diventare beneficiario netto delle sovvenzioni. Il bilancio 2021-27 dell’Unione europea, che fungerà da garanzia per l’emissione comune che finanzierà il Recovery Fund, è stato sbloccato (sarà di 1.074 miliardi). Saranno mantenuti gli sconti per alcuni paesi (rispondendo quindi alle richieste dei frugali) rispetto a quanto questi dovrebbero versare alle casse di Bruxelles sulla base del loro Pil.
Con questi aggiustamenti è nato il Next generation Eu, un pacchetto da 750 miliardi di euro, in linea con la proposta originale della Commissione, sia pure con una riduzione delle sovvenzioni da 500 a 390 miliardi di euro, mentre i prestiti sono cresciuti da 250 a 360 miliardi. Il compromesso finale prevede complessivamente maggiori fondi per l’Italia: si passa dai 172 miliardi previsti nella proposta iniziale a poco meno di 209 miliardi attuali, di cui 80 miliardi in contributi e il resto, circa 130 miliardi, in prestiti a basso tasso; risorse economiche da investire nei prossimi anni e rimborsare tra il 2026 e il 2058. I fondi arriveranno a partire dalla prossima primavera ma potranno essere utilizzati anche per coprire spese affrontate nel 2020. Per ottenere questa ormai famosa “Pioggia di miliardi” i Paesi dovranno presentare piani che saranno valutati dalla Commissione e approvati dal Consiglio a maggioranza qualificata, ovvero 15 paesi rappresentanti almeno il 65% della popolazione.
In altre parole, l’Italia, a fronte dei massicci finanziamenti, dovrà presentare programmi d’intervento precisi (e qui qualche preoccupazione comincia a palesarsi, visto anche che negli ultimi anni il BelPaese non ha mai dato prova di saper utilizzare con efficacia i finanziamenti disponibili).
L’accordo europeo giunge mentre l’Italia a maggio raggiunge un debito pubblico di 2.507,6 mld di euro (+40,5 mld rispetto ad aprile e +175,7 rispetto a maggio 2019); su ogni italiano pesa un debito pubblico di 41mila euro. Se prima della crisi, con debito al 135% del Pil e con tassi d’interesse ai minimi storici dovevamo accantonare una sessantina di miliardi di euro l’anno solo per pagare gli interessi sul debito, dalla fine del prossimo anno, con un debito ben oltre il 160%, è presumibile che di miliardi di euro da versare ne servano almeno un’altra ventina in più rispetto a quelli pagati nel 2019.
Non si poteva probabilmente fare altrimenti, pena la totale paralisi di un’economia che già zoppica e che comunque arranca in coda, con Grecia e Portogallo, rispetto alle altre economie europee. Per dirla con Moyra Longo: “L’Italia è la terza maggior economia dell’Unione europea. È la seconda manifattura del Continente. È un grande Paese esportatore, con un avanzo commerciale cresciuto da 31 miliardi del 2010 a 89 miliardi del 2018 al netto delle risorse energetiche. Ha una enorme ricchezza privata. Eppure sui mercati finanziari, dove viene misurato il rischio-Paese, l’Italia è penultima nell’area euro. Peggio di noi c’è solo la Grecia. E la distanza che ci separa dagli altri Stati è diventata abissale: i rendimenti dei nostri titoli di Stato decennali sono ormai ben più vicini a quelli della Grecia fanalino di coda che a quelli del Portogallo o della Spagna”.
Com’era facile presagire, la pandemia e il lockdown dei mesi scorsi hanno già procurato effetti pesanti sull’economia italiana (e in generale, con molte differenziazioni, su tutta l’economia mondiale) a cominciare dall’occupazione. Secondo la Svimez, l’occupazione nel 2020 si ridurrà del 3,5% nel Centro Nord (perdendo circa 600mila posti di lavoro) e del 6% al Sud (-380mila posti). Anche la prevista, auspicata ripresa, avrebbe una differenziazione territoriale nel 2021, con un +1,3% al Sud e un +2,5% nel resto del Paese. Questa differenziazione è riconducibile al carattere trasversale della crisi che, a differenza di quella del 2008/2009, ha effetti maggiori sul terziario, più presente al Sud rispetto al nord manifatturiero.
La crisi colpisce quindi un tessuto occupazionale che nel Mezzogiorno era già più debole rispetto al centro nord, e per di più contraddistinto da una più alta incidenza di lavoro autonomo e precario. In questa crisi, infatti, il taglio maggiore ha interessato i contratti a termine e, in generale, il lavoro irregolare. Viceversa, in termini di Pil nell’immediato è il Centro Nord a pagare il prezzo maggiore, con calo stimato del 9,6% nel 2020, a fronte di una riduzione dell’8,2% previsto nel Mezzogiorno. Su questi numeri – in uno scenario economico mondiale paralizzato dalla pandemia – ha inciso il differente apporto dell’export, che al Nord è pari a circa il 30% del Pil, a differenza del 10% del Sud. Non a caso la ripresa degli ordinativi industriali dopo il lockdown è stata prevalentemente trainata dal mercato interno (+42% a maggio) mentre a giugno si registra ancora un calo dei consumi (secondo Confcommercio -15,2% nell’anno).
Così appare speciosa la discussione sugli oneri a Nord e Sud nei primi sei mesi dell’anno, con il Mezzogiorno che fa il pieno dei costi del Reddito di Cittadinanza, il Settentrione che viaggia intorno ad un incremento tra il 1.900% e il 2.600% delle ore di cassa integrazione e ancora un virtuoso Sud che non supera l’800%, a riprova di come i numeri possano essere forzati per ragionamenti miopi che non tengono in alcun conto la situazione reale del Paese, del suo apparato industriale ancora troppo posizionato al Nord e di un livello di povertà più rilevante al Sud, non comprendendo che l’unica vera strada è la riduzione del gap e uno sviluppo più organico di tutto il Paese.
Da rilevare anche le differenziazioni tra i vari comparti: in particolare non può non preoccupare la situazione dell’agroalimentare, che nel 2019 si è confermato come uno dei settori trainanti dell’economia nazionale, con 200 mld di fatturato, 44,6 mld di export e oltre 1,4 mln di occupati in 1,6 ml di imprese.
Secondo un recente studio di Ambrosetti, il 56,7% delle imprese stima un calo del fatturato nel 2020, e di queste quasi la metà indica una contrazione di oltre il 20%; in questo scenario il lockdown, stando alla ricerca, potrebbe aver messo a rischio la sopravvivenza di circa il 30% delle imprese.
In questa situazione generale e in attesa delle risorse europee, molto dipenderà dalla capacità complessiva del Paese di rispondere in maniera coesa a una crisi che è ben lungi dall’essere superata e che solo grazie agli interventi pubblici viene in qualche modo contenuta, mentre nel frattempo vanno individuate le priorità degli investimenti futuri. I sussidi indispensabili stanno oggettivamente contenendo le tensioni sociali che la crisi innesca, ma si tratta, per forza di cose, di pezze per limitare i danni, senza contare che trattandosi di sforamenti di bilancio e quindi di aggravamento del debito, questi costi ricadranno negli anni futuri, nella speranza che i tassi non risalgano a livelli non sostenibili, come pure è accaduto qualche decennio addietro.
Bisogna sempre ricordare che oltre metà del Recovery Fund atteso in Italia è costituito da prestiti, sia pure a tasso basso, che comunque andranno restituiti. In questa logica appare quindi incomprensibile il rifiuto sostanzialmente ideologico dei 36 miliardi per la sanità previsti dal Mes, anche questi a tassi molto bassi (0,13% a dieci anni, con un risparmio di circa 109 milioni ogni 10 miliardi di prestito) e, a differenza del passato, senza condizionalità anche ex post, austerity o altro. Nonostante qualche sparuto negazionista, sembra che abbiamo generalmente raggiunto la consapevolezza della fortuna di ritrovarci all’interno del sistema euro in questa fase di tempesta, cosa che ci garantisce una tenuta dei tassi. Nel frattempo continuiamo a ragionare di tempi e metodi, ma nel merito si è ben lontani dall’entrare, magari recuperando, sia pure parzialmente, le analisi pomposamente affidate alla cosiddetta commissione Colao ma rapidamente accantonate in attesa di decidere (non si sa quando) se a predisporre i piani sui futuri Recovery Fund ci sarà un gruppo di lavoro a Palazzo Chigi, una commissione interministeriale, un commissario ad hoc. Sarebbe molto utile sbrigarci, visto che, di certo, dal 16 agosto sarà operativa una commissione Ue, una task force europea per coordinare gli aiuti, guidata dalla francese Celine Gauer.
Se dovessimo riflettere sulla base del passato non potremmo essere molto ottimisti, visto che non sempre siamo stati capaci di utilizzare a pieno le risorse messe a disposizione dell’Unione Europea, a differenza di altri Paesi. Per esempio solo grazie alla cosiddetta regola N+3, che consente di utilizzare i fondi entro tre anni dall’impegno a bilancio, potranno essere certificate alla Commissione europea entro la fine del 2023 i finanziamenti del Programmi operativi regionali (Por) e nazionali (Pon), coperti in buona parte dal Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) e dal Fondo sociale europeo (Fse) per il periodo 2014-2020. I programmi che hanno superato la soglia del 40% nella certificazione delle spese rispetto alla dotazione complessiva dei fondi sono cinque (si legge sul Sole 24 ore del 9 gennaio scorso) con in testa il Por Piemonte del Fondo sociale, che sfiora il 50%. Tra le cinque regioni meno sviluppate, dopo la Basilicata si piazza la Calabria, che ha un programma plurifondo (Fesr + Fse) e dunque molte più risorse da spendere: ha già certificato il 29,23%, ma ha ancora 1,68 miliardi da spendere nei prossimi tre anni. Da questo punto di vista, la regione che deve ancora spendere più di altri è la Puglia (come per la Calabria, anche in questo caso il programma è unico): 5,19 miliardi da spendere su un totale di 7,12 miliardi. Agli ultimi posti si piazzano tre programmi gestiti da ministeri: il Pon Imprese e competitività (Mise), che a fine 2019 aveva speso un quinto dei 3,06 miliardi disponibili, il Pon Inclusione (ministero del Lavoro) con il 19,11% di spesa e, ultimo, il Pon Legalità, gestito dal ministero dell’Interno, fermo al 14,7% di spesa certificata e ancora più di mezzo miliardo di spesa da realizzare.
In altre parole, dobbiamo sperare che questa volta – chissà per quale congiunzione astrale – possa andare diversamente, ma non sembra che qualcuno si stia impegnando molto nel pensare a come meglio investire risorse che, a parità di potere d’acquisto, sono superiori a quelle del piano Marshall nel dopoguerra (e che consentirono di innescare il cosiddetto boom economico degli anni ‘60). Tanti, tantissimi soldi, corrispondenti a una decina di manovre finanziarie del recente passato, con la consapevolezza che nei prossimi anni manovre di tale valore economico probabilmente non se ne potranno più fare. E’ stato calcolato in 2,5-3% del Pil aggregato del periodo 1948-1951 dell’Europa aiutata dagli Usa – Turchia compresa – le dimensioni massime del piano Marshall, che avrebbe spinto la crescita di mezzo punto percentuale all’anno. I soli sussidi del Recovery fund ammontano al 2,8% del Pil per il solo 2019 dell’Europa a 27, e al 3% circa del Pil 2020, ipotizzando una contrazione dell’attività economica dell’8%. Aggiungendo la componente prestiti, il Recovery Fund arriva al 5% del Pil 2019 dell’Unione.
Una potente arma per la sopravvivenza del continente e una grande occasione di radicale cambiamento della situazione socioeconomica di larghe aree dello Stivale, di cui forse non si è compresa la reale importanza: tutti sembrano più impegnati a mettere il cappello su questa grande opportunità che a preoccuparsi realmente di come utilizzarla al meglio. Poi ci sono le elezioni regionali, le alleanze, gli accordi di medio e piccolo cabotaggio: tante battaglie che sembrano condotte nel pantano, quasi immobili, quasi dimenticando che comunque stando fermi si perde la guerra.
Insomma poche idee ma confuse. Lo diceva Ennio Flaiano mentre più causticamente, facendo riferimento quasi a una genetica della nazione, Leo Longanesi faceva notare che “l’italiano non lavora, fatica”. Tutta colpa loro? Dei Politici? all’insegna di “Piove, governo ladro”? Certo, rispetto ad alcune questioni si può desiderare di più, ma chi se non gli imprenditori sono quelli che devono alzare la voce per tutelare interessi privati e per l’insostituibile ruolo sociale che, in una nazione con 6 milioni di aziende, svolge soprattutto il piccolo imprenditore? Se non ora quando – meglio se tutti insieme e correggendo l’inevitabile miopia propria di ogni corporazione di arti e mestieri – è il caso di fare una proposta complessiva per pianificare il futuro prossimo venturo? Ne abbiamo la possibilità; siamo percepiti – al di là di qualche pregiudizio sull’italiano medio – come produttori di eccellenza in molti campi e in tutto il mondo: chi può contare su questo vantaggio? Avremo bisogno di tradurre in nuovi punti di vista, strategie, processi, prodotti e posti di lavoro, questa fiumana di euro che deve avere l’ambizione di rendere fertili le iniziative migliori. Molte imprese italiane soffrivano di sottocapitalizzazione e di crisi di liquidità ben prima della pandemia. Migliorare la struttura di quelle che possono crescere meglio è un dovere sociale.
L’impresa, nel prossimo futuro sarà il principale garante dell’occupazione e della tenuta sociale. Le risorse per alcuni anni offriranno occupazione per le infrastrutture, la sanità, i servizi sociali, ma gli imprenditori migliori, da Squinzi a Della Valle al pizzicagnolo all’angolo, sono chiamati a caricarsi sulle spalle la responsabilità della loro funzione sociale (sì, anche questa) senza farsi distrarre dalle sirene, da facili ed effimeri colpi, ma concentrandosi su progetti a medio lungo termine.
In questo contesto, fanno riflettere le parole di Mariana Mazzucato dell’University College London, quando notando come in Italia spesso ci si divida in due schieramenti opposti, Stato contro mercato, rileva come “l’Italia ha bisogno di un modo diverso di pensare alla politica economica ed in particolare la strategia industriale. Un primo passo sarebbe quello di uscire dalla logica dei sussidi indistinti e senza condizioni, puntando su strumenti diretti (investimenti, trasferimenti, prestiti) che siano maggiormente in grado di catalizzare l’interesse del settore privato, con cui co-investire”.
Si, ma la Burocrazia? Se solo proviamo ad occuparci del potere degli uffici e dei suoi oscuri abitanti entrando nelle singole questioni non ne usciamo vivi. S’impone una rivoluzione culturale vera, nella convinzione che il minestrone fatto di prudenze, controlli e cavilli è un mattone indigeribile per il più coraggioso dei capitani d’impresa, un pastone che ha allevato nella bambagia la curiosa figura mitologica del Manager del non si può fare, un silenzioso colosso di gomma contrapposto a qualche isolato dirigente e funzionario che, nell’interpretare in maniera più lasca la normativa, diviene di volta in volta un eroe o un mostro, a seconda della fazione avvantaggiata o danneggiata.
Abbiamo poi, noi italiani, proprio per la nostra naturale vocazione di essere dei perfetti trend setter, una precisa responsabilità: l’Italia e l’Europa devono rilanciare i consumi partendo dall’economia circolare: sarà pure una moda, ma se la facciamo diventare una moda seguita a livello mondiale, così come abbiamo fatto con i nostri capi d’abbigliamento, le nostre eccellenze enogastronomiche e le nostre auto più prestigiose, magari tra mezzo secolo diventiamo famosi non solo per essere santi, poeti, navigatori (e mafiosi), ma anche per aver salvato il pianeta.
Di sicuro non possiamo permetterci una stagione dell’indecisione, dell’incertezza, all’insegna di una collaudata ma ora pericolosissima logica del rinvio. Certo ci vuole competenza e coraggio, ma le decisioni vanno assunte, bandendo demagogia e populismo. Quando se non ora?

 

PH: Lungomare di Bari, Luigi Triggiani

https://iltaccodibacco.it/puglia/guida/11196

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