CARMINA VIRI

di Fulcanelli ©

 

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Il nemico invisibile

Ora è già l’alba. Un’alba spettrale, senza i soliti rumori della città che si sveglia.

Le  strade sono vuote, i bar e i negozi chiusi, tutti reclusi in casa dal terrore del contagio, che impone i suoi ritmi a tutto il paese ormai da tre mesi. Sembrava roba di poco, “basta stare attenti”, si diceva all’inizio, e da Milano i soliti luminari dicevano “è poco più di una normale influenza!”, “Da noi non arriverà!”. Poi piano piano le cose erano cambiate, erano saliti i numeri dei contagi, erano arrivati i primi ricoveri nelle terapie intensive, i primi morti, poi decine di morti, poi centinaia, ora migliaia,  i decreti del governo di chiusura parziale, di pari passo con gli ospedali e le terapie intensive che si riempivano, soprattutto al nord, e i morti e le bare che si allineavano negli obitori degli ospedali. Poi i decreti si erano fatti via via più severi, fino alla chiusura totale, i negozi di generi alimentari chiusi a turno,  con i militari chiamati a presidiare le strade e a trasportare le bare nei cimiteri con lunghe teorie di camion camouflage. E così erano arrivati i blocchi, prima parziali, di alcuni territori, poi totali e su tutto il territorio nazionale. E poi l’Europa, fino al resto del mondo.

E cosi si cercava da allora la normalità in tutte le piccole cose della giornata, ormai riempita del lavoro da casa, chi poteva farlo, o altrimenti ci si ingegnava, con le botteghe chiuse, con piccoli lavoretti “al nero”, la vera maestria italiana. Allora la parola d’ordine era diventata “normalità”, andare avanti come se nulla fosse accaduto. “Normalità” è continuare a fare la spesa e andare in farmacia, le uniche uscite consentite.  Ma per me è “normalità” anche il sonno a fasi alterne, fino a che le prime luci del mattino non filtrano dalle persiane semi chiuse.

Ormai il sonno notturno, per me,  è una breve parentesi tra le ore del giorno e della notte. Come se la vita, giunta nella sua fase finale, o come dice Faust, “giunto sul passo estremo della più estrema età”, cercasse di allungarsi, rosicchiando tempo all’incoscienza del mondo dei sogni. Più vado avanti, e più mi cresce il desiderio di tornare nei luoghi della giovinezza, Capri, Sorrento, Ischia, luoghi ameni vissuti nell’età più amena. Non è vero che la vita va sempre avanti, come una linea retta, o almeno questo è ciò che accade nel suo senso più materiale, con riferimento ai corpi; ma l’anima no, non percorre la via in moto rettilineo, essa ad un certo punto comincia a tornare indietro, per compiere il ciclo, anzi, la circolarità del tragitto le fa percorrere continui cerchi, così che l’anima deve continuamente correggere il percorso, spingere la rotta rettilinea del corpo a coincidere con l’anima, come farebbe una nave, soprattutto in mezzo alla burrasca. Correggere la rotta durante la giornata, forse è questa la saggezza, si chiede James Hillman. Non pretendo di riuscire a correggere la rotta dell’esistenza  durante il giorno, mi basterebbe riuscire a farlo almeno una volta durante la vita, magari seguissimo le indicazioni dell’anima, invece di andare a rimorchio delle cose materiali. Ora ci mancava questa ennesima tempesta ad agitare il percorso, ci mancava il contagio a funestare e complicare gli ultimi mesi di lavoro prima della pensione, prima del riposo al Sole in un porto sicuro. Quel Sole che fa ora capolino dalla finestra del salotto, dove l’immagine dell’Isola delle Sirene, illuminata dai primi raggi, entra come in un caleidoscopio, stretta com’è tra gli spigoli dei palazzi di fronte, che danno una prospettiva profonda, come uno zoom, inquadrando il profilo di quello scoglio sospeso tra mare e cielo  e dando l’impressione di ingrandirla. A volte sembra spostarsi, perché a seconda dei giorni mi da l’impressione di essere a volte più a destra, altre volte più a sinistra, a meno che non siano i palazzi davanti a muoversi, il che potrebbe anche essere, visto che si reggono su una elastica base di tufo, come tutta la città, costruita su una roccia porosa simile al riso soffiato. E’ questo il motivo per cui nei secoli e coi terremoti fisici e sociali che spesso arrivavano all’improvviso, questa città è sempre rimasta in piedi, e sebbene a volte piegata da secoli di sventure ricorrenti, come ad esempio l’arrivo ciclico di stranieri venuti a colonizzarla, ultimi i Piemontesi, che l’avevano spogliata di tutto, non si era mai spezzata. “U’ napulitan’ se fa sicco, ma nun more mai! mi ripeto a volte quando penso alle ingiurie che nel tempo questa città ha sopportato…

E’ domenica, ma una domenica particolare, ormai non più destinata alla mia solita passeggiata per Posillipo, sul lungomare, come prima del contagio. Era una quotidianità che forse non apprezzavo, che ritenevo “normale”, ed in effetti cosa poteva togliermi quella semplice passeggiata in riva al mare, tra Mergellina e l’Ara ai Caduti, passando per Palazzo Donn’Anna? Ed ora, invece, vige il divieto di uscire se non per “comprovati motivi di urgenza e necessità”, è bastato un virus sconosciuto a sconvolgere le nostre esistenze così fragili,  così appese ad un filo.

E’ una lunga attesa, si attende da giorni il cd. “picco del contagio”, quel numero oltre il quale si presume che la triste  contabilità di malati, ricoverati e morti debba cominciare a scendere. E così si attende, nell’immobilità forzata, scandita dalle “eccezioni  della normalità”, come “andare a fare la spesa”, ma uno alla volta e con mascherine chirurgiche, per altro introvabili, “andare a lavoro”, chi ha avuto la fortuna, come me, di conservarlo anche se solo per le urgenze, “andare in farmacia”, e poco altro. L’impressione della normalità è salva, mentre attorno a noi tutto crolla in silenzio, le vite annichilite dalla necessaria distanza tra le percome, l’attesa in casa degli eventi, del “picco”, come  in una trincea si attende l’attacco del nemico, che non si sa quando arriverà. E del resto il nemico è invisibile, come i Tartari che si attendono alla Fortezza Bastiani, dove si scruta il deserto alla ricerca spasmodica di un segno del nemico. Anche noi siamo nel deserto, chiusi nelle nostre Ridotte, scrutiamo l’orizzonte dei notiziari alla ricerca dell’annuncio “Ecco il picco!”. Siamo così immersi nell’attesa. Attesa del prossimo bollettino, un numero che ci faccia capire, magari sperare, che siamo sulla china discendente, che ci dica che il peggio è passato, “siamo oltre il picco!”, per certi versi attesa dei sintomi che ci possano far capire che forse siamo stati contagiati, e così il siamo attenti al minimo colpo di tosse, o leggero prurito alla gola, o respiro corto, espandiamo i sensi per percepire il minimo segnale che viene dal nostro corpo, che riveli che siamo stati attaccati dal nemico, come il tenente Drogo di guardia sugli spalti della Fortezza.

E per passare il tempo, i sensi in allerta, mi accingo  a rimettere ordine tra le carte nel mio studiolo, se si può chiamare studiolo l’angolo del soggiorno dove c’è la libreria ad angolo con lo scrittoio, vicino la finestra. D’altra parte, da quando sono rimasto solo, due stanze e cucina vanno bene, ma lo spazio deve essere ottimizzato, ogni angolo deve avere la sua funzione, cosi il soggiorno ha un angolo studio, un angolo salotto e un angolo tinello, col tavolo da pranzo e un camino. Un terrazzino completa questo piccolo attico, e mi consente di lavorare anche all’aria aperta, in mezzo a qualche pianta di gelsomino e di glicine, senza perdere di vista il mio spicchio di Golfo. Può sembrare poco, ma va bene, mi accontento. Come ho letto da qualche parte, non ricordo più dove, la nostra vita si suddivide in quattro fasi: la prima è quella in cui impari, la seconda è quella in cui insegni, la terza è quella in cui sei nella foresta e la quarta è l’ultima, quando chiedi l’elemosina. Io ormai mi sento ormai nella fase dell’elemosina, quando bisogna accontentarsi e dipendere dagli altri. Così ormai mi basta poco per vivere, perché cerco più sensazioni immateriali che altro. Di che altro ho bisogno se davanti a me ho il Golfo e le sue isole, illuminate dal sole per 10 mesi all’anno? Anche se avessi il doppio delle stanze, o perfino un castello, starei comunque sempre davanti ad una finestra a contemplare il mare davanti, quindi a che serve tutto quello che c’è dietro le spalle?

E nella libreria, oltre ai miei libri, da anni continuo ad accumulare sentenze e carte varie, carte che puntellano una vita tra i processi come le pietre miliari punteggiano una lunga strada consolare di campagna. Oggi può essere la giornata giusta per farlo, la pensione è alle porte, mancano ormai pochi mesi, e in questi tempi di lavoro rallentato posso concedermi il lusso di riordinare. Riordinare le carte, ma mi accorgo che in fondo è tutta una scusa, in realtà devo riordinare le mie carte mentali, i miei disordini interiori. Mi sento un po’ come una nave che dopo 40 anni di traversate, sta per affrontare l’ultimo viaggio prima del disarmo,  l’ultimo rimessaggio prima dello smantellamento, e per trovare la rotta giusta, deve fare pulizia tra le carte nautiche a disposizione, tra vecchie rotte ormai desuete e nuove necessità. La radio sta mandando “A salty dog” dei Procol Harum. In effetti mi sembra di essere un po’ alla deriva, una deriva personale, ma a vedere bene ciò che accade, questa mia deriva corrisponde anche ad una deriva della società, perché solo una società alla deriva e una politica dissennata possono farsi trovare così impreparate ad una situazione di contagio generalizzato. Sembra proprio, ironia della sorte, che questo sia proprio l’ultimo viaggio, e lo sia non solo per me ma per tutti, ed è come se a tutti noi ci sia stata affidata un ultima missione, quella di tenere dritta la barra della navicella delle nostre esistenze, per superare indenni questo ennesimo Capo Horn, in mezzo alla tempesta. Che strano.  La mente mi riporta sempre a pensare ad una nave, ancora il pensare ad un vascello tra i marosi che va guidato fino al porto, fino ad un anfratto sicuro, come la mia inutile esistenza tra le carte.  E allora, cerchiamo di riprendere il controllo della nave per condurla all’ultimo porto, lì, oltre Capo Horn, oltre l’ultima tempesta.

In questi mesi difficili, man mano che intervenivano le restrizioni governative, io reagivo  togliendomi qualche piccolo spazio di libertà in più, per non risentire troppo delle privazioni, memore di due esempi che mi frullavano in testa, da una parte il Capitano del Libro rosso di Jung, e dall’altra Edmond Dantes chiuso con il solo conforto dell’abate Faria nello Chateau d’If, l’esempio di due reclusi che potevo sfruttare a mio vantaggio.

Grazie al primo, mi ero imposto di aumentare volontariamente le restrizioni, in tal modo vivevo quelle indicate dal governo come dei grandi spazi di libertà, e non mi facevo così imporre da altri ciò che restava una mia scelta personale. Sembrava all’inizio una stupidaggine illogica, ma alla fine mi stava facendo vivere con meno sofferenza la quarantena. Così, se era consentito uscire per fare la spesa tutti i giorni, io mi ero imposto di uscire una volta la settimana; se gli orari consentiti erano dalle 8 alle 20, io me li ero ristretti dalle 8 alle 14; se era consentito acquistare qualunque cibo da mangiare e da bere, io mi limitavo ad acquistare solo cibi di base, pasta riso e verdure e frutta, eliminando ad esempio l’alcool, sebbene qualche bicchierino di rhum di tanto in tanto accendesse il mio desiderio, limitando gli acquisti al cibo locale e non quello d’importazione. Grazie al secondo, mi ero imposto di dimezzare le quantità, e di cercare di non appesantirmi, visto che dovevo rinunziare alle mie passeggiate. E cercavo, oltre a depurare il fisico, e di tenerlo in forma con giri peripatetici per la casa ed il terrazzo, con serie di addominali e pettorali tra le sbarre delle inferriate del terrazzo o coi piedi bloccati sotto il sofà. Cercavo anche di depurare la mente da cattivi pensieri, cercando di scrivere e leggere cose che non avevo mai letto, oppure rileggere cose già lette in passato, ma cercando di farlo con occhi nuovi e diversi, per cogliere nella diversa disposizione d’animo, cose che gli occhi velati del passato non mi avevano consentito di cogliere. A ciò univo anche esercizi spirituali, memore del vecchio indiano di cui parla Jung, conosciuto anni prima, secondo il quale il corpo si potenzia facendo lunghe inspirazioni e trattenendo il respiro, ma anche, come Edmond Dantes, leggendo e meditando: ebbene, grazie a questi esercizi, i miei polmoni ne avevano tratto grande giovamento, e anche la mia mente restava in esercizio, e superava la condizione di recluso, sia pure nell’agio di un attico a Posillipo. E per finire, sul far della sera, aggiungevo qualche minuto di meditazione in più, cercando di recuperare la categoria del “mistero”, che la nostra società, che tutto intende spiegare e dimostrare, ha da decenni tentato di eliminare dalle nostre vite. Poi però arriva un virus sconosciuto, venuto da chissà dove, una semplice proteina fatta di DNA, che funziona con meccanismi semplici, adeguandosi ai nostri organismi, a ricordarci che le nostre esistenze sono così infime e fragili, che i nostri stili di vita, così complessi e nevrotici,  sono in realtà momentanei, sono solo prestati da un entità superiore, sia anche il caso, la Tuche. E che le nostre credenze scientifiche da super-uomini sono delle illusioni più effimere dell’immagine del Sole che sorge e tramonta in cielo: a provarlo c’erano le affermazioni di tanti pseudo-scienziati che a morbo già esploso in alcune parti del mondo, affermavano con sicumera e presunzione, che “da noi non sarebbe mai arrivato” o che “il nostro sistema sanitario è efficiente” e non ne avrebbe mai risentito.

In queste brevi meditazioni, all’inizio, invece di imprecare e maledire per quello che non potevo più fare,  al contrario, non mancavo di ringraziare Dio o chi per lui, per avermi consentito di vivere per tanto tempo, durante la mia  vita, senza risentire di gravi malattie o pesanti privazioni, soffermandomi sul fatto che ero io che mi stavo imponendo, per mia scelta libera, gran parte delle restrizioni, per un mio ordine mentale. E se proprio qualcosa faceva capolino nella mia mente tra i pensieri, qualcosa che in quel momento mi era preclusa, la proiettavo al termine della quarantena, così da avere già chiaro in mente un progetto, una gerarchia di cose da fare, che mi fosse servita da guida all’indomani, recuperata la libertà. Una di queste proiezioni, ad esempio, era un bucatino al coniglio, su un terrazzino tra i castagni, affacciato sul Castello Aragonese. E nel ringraziare Dio per avermi concesso questo privilegio tante volte, in passato, fin da quando ero un ragazzo, continuavo a ringraziarlo e ad auspicare qualora, una volta finita la quarantena, avessi potuto di nuovo tornare a sentire quegli odori di cucina tra le fronde dei castagni, sul terrazzino a picco sul mare davanti al Castello Aragonese.

Devo dire che dopo i primi giorni di spaesamento, questi piccoli accorgimenti mi avevano consentito di affrontare meglio la quarantena, perché l’abitudine può essere guidata e controllata dalla mente, e se c’è qualcosa che non possono toglierci, è qualcosa alla quale noi stessi abbiamo rinunciato volontariamente. L’unica cosa per la quale valeva la pena combattere, alla fine, era solo la libertà di autolimitarsi. Se ci privano della primavera, non stiamo a rammaricarci troppo del tempo perduto, ma usiamo il tempo per pensare a come mettere a frutto questo periodo di fermo biologico, pensiamo che comunque ci sarà l’estate a risarcirci delle privazioni. E se non ci fosse l’estate, bèh, da noi l’autunno può essere un’estate di riserva, come quando ad un insperato tepore novembrino, negli anni migliori,  dopo l’ufficio, andavamo a farci i bagni alla Tonnara, dove la luce del Sole rendeva violacei i riflessi del mare. Mentre ero immerso in questi pensieri, non potevo fare a meno di pensare anche a come eravamo arrivati ad affrontare questa emergenza, con una sanità pubblica incerottata e rabberciata da decenni di tagli della politica locale e nazionale, ospedali che chiudevano, reparti che si tagliavano, fondi che sparivano, o meglio, si spostavano, da una voce all’altra dei bilanci regionali e statali, quello che spariva e si sottraeva dalla sanità pubblica compariva, magicamente, come finanziamenti alle imprese private, con prezzi apparentemente vantaggiosi, ma a ben vedere assolutamente sconvenienti rispetto allo stesso servizio erogato dal servizio pubblico. E però senza il privato il politico di turno non avrebbe potuto intascare qualche consistente bustarella per l’assegnazione dell’appalto e del servizio, e quindi gli ultimi trent’anni aveva visto il complessivo depauperamento della sanità pubblica, con liste d’attesa lunghissime per le diagnostiche, mentre quella privata era fiorita come un ciliegio in giugno, ma non era per tutti e la migliore era ovviamente dislocata tutta a nord, con conseguenti viaggi della speranza di noi meridionali, emigranti da quando avevamo ottenuto la famosa “libertà” del Risorgimento. Erano queste le “due velocità”, che caratterizzavano il nostro paese da sempre, o meglio, da quando era stata creata questa falsa “unità”, dove una parte era il mercato coloniale dell’altra, una parte era servente ed una servita, una era ricca e una impoverita. La meditazione mi porta lontano, e mi accorgo che sto perdendo tempo in vuote elucubrazioni, devo rimettermi all’opera, se non approfitto ora nel riordinare gli scaffali, anche mentali, rischio di perdere un’occasione che chissà quando capita, mica c’è sempre la fortuna di avere una pandemia alle porte, che ti costringe a fare i conti con te stesso…

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