Massimo Corrado di Florio

“Riuscire a scrutare la propria anima, poter osservare qualcosa lì dentro, qualunque cosa, come se lo si potesse fare con una lente di ingrandimento. No, dico, è questo che occorre fare per davvero per essere sicuri, veramente sicuri, che niente, proprio nulla però, possa sfuggire al nostro controllo più esasperato? Che razza di idea ignobile è mai questa.
Si corrono e si rincorrono, miliardi di miliardi di volte, per miliardi di volte ancora, parole fatte di vento e di fumo, fumandosi quei pochi grammi di neuroni che zoppicano ed incespicano, strategie che si infrangono e si rifrangono su se stesse, si addolciscono e, subito dopo, si inaspriscono, diventando esse stesse nemiche.
Stop!
Stop!
Stop!
Fu così che mi risvegliarono. Avevo ancora in bocca (pensavo di averne) frammenti di pensieri. Che stavo facendo?
Neuroni, sì, pensavo ai neuroni, oppure alle sinapsi. Sì sì sì, centri di smistamento di cariche elettriche.
Solo qualche tempo fa indossavo un abito sdrucito e logoro, persino un po’ sporco. Non ricordavo in quale corsia dovevo andare ma, quel che è peggio, non ne ricordavo il perché. Che stava accadendo? Ero passata -quante volte l’avevo immaginato- dall’altra parte dello specchio? Altra domanda destinata a restare senza risposta. Quante domande al giorno? Centinaia, centinaia di migliaia, milioni, miliardi, centinaia di miliardi. A furia di contare per grandezze incommensurabili, avrei finito col completare un intero trattato enciclopedico fatto di numeri. Che stranezze, e che strana questa esistenza, un’esistenza in vita fatta di numeri e non più di parole. Doveva essere l’effetto di qualche farmaco. Autoprescrizione? E che vuol dire, infine? Chi me lo ha detto?
In questa dissennatezza del quotidiano -quale poi- avrei voluto raggiungere un nuovo ordine, un nuovo modo di pensare. Il pensare senza pensare, la più grande conquista, una vetta insormontabile; pensare senza pensare: una sottospecie di contraddizione in termini, eppure, proprio per questo, meravigliosamente fascinosa.
Schiacciata sul pavimento di questa stanza da letto, disordinata come la mia testa, solo così riesco a ipotizzare, con sufficiente certezza, di poter raggiungere un’estatica assenza di pensieri. Sarà vero? Sarà reale e vero? Eppure sento voci, le sento salire dal basso, non sono dentro me, non sono nella mia pancia, è una sensazione fisica, voci che galleggiano e salgono. Ho desiderato dimenticare qualcosa, una morte, lo so: la mia? Troppo facile cercare di farlo, dunque deve essere una morte diversa, staccata da me, eppure troppo vicina a me per non poterla considerare, almeno solo in parte, mia, anche mia. Dimenticare, ecco cosa è successo. Qualcuno si sta occupando di me, glielo faccio fare, mi dimentico quotidianamente anche di questo. È freddo questo pavimento ma non dispiace questo freddo, lo sento così profondamente vicino, lo accarezzo, me lo fanno fare. Sì, dimenticare e farlo con distrazione, ancora meglio. Mi sono distratta da me stessa, l’ho fatto infinite volte. Cosa dicevo un tempo? Tanti presenti uno vicino all’altro, così dicevo, sì. Ora, invece, mi resta un unico grande presente da vivere e lo faccio qui, in un presente iniziato lontano da qui, mentre aderisco fisicamente al pavimento della stanza; non credo sia mia, niente è più mio, nemmeno a me stessa appartengo: dimentica e distratta, ecco cosa sono, ecco cos’è Anna adesso. Ricordo il mio nome, una semi conquista della coscienza, mi distrarrò meglio per scordarlo del tutto. Ma le voci, queste voci che salgono, sono per me? Come fossi dentro ad un’auto, mi giungono smorzate, non completamente comprensibili, lettere, consonanti e vocali sganciate le une dalle altre, è così che si riesce a sentire un vociare quando si è seduti in una automobile coi finestrini chiusi, una macchina grande, comoda, priva di sobbalzi, col motore acceso ma silenzioso, un’auto scura, di quelle importanti, di colore blu; viaggio in una mercedes blu, ma schiacciata sul pavimento di questa camera, al buio, in ascolto. Così, ricomincio a sentire, ma soltanto delle voci: sarà il silenzio della stanza che è perfettamente in linea con la mia distrazione, un contrasto tra ciò che è ora, con ciò che non è ora, ma più in basso di qui.
Ah, mio dio, che violenza che sale. Cosa dicono? Leccherò un po’ il pavimento, mi piace farlo; come fa una bestia feroce prima di azzannare la preda, lo lecco con voluttà come se mi stessi preparando a mangiarlo e poi appoggerò l’orecchio sul pavimento inumidito dalla mia saliva; lo lecco, sì, ne assaporo il gusto così freddo. E’ buio qui, non riesco a vedere il riflesso della mia saliva, della mia bava di bestia ferita; sono sicura di non poterlo mordere, non come ho già fatto tante vite fa, prima di questa; leccare, leccare, leccare…deglutire altro che non sia la mia saliva; né un sapore, né un odore; tante vite fa, già. Mi devo distrarre ancora, poiché corro il rischio di sentire un sapore a me noto, quello della terra, del fango, il sapore di qualcosa che tracciò un segno, un solco profondo, una ferita, umida come la mia saliva, il fango melmoso e odoroso di un luogo che non ricordo, un luogo dove accadde qualcosa di terribilmente inutile. Una morte, mi sono distratta da una morte e non desidero recuperarla; mio dio, mio dio, mio dio, aiutami a leccare questa mia preda, questo mio pavimento, non aiutarmi a ricordare altra preda che non sia questo marmo, regalami l’impossibilità di ricordare, fallo per sempre, mio dio, mio dio, mio dio, aiutami a sentire solo queste voci che ogni notte vengono su a trovarmi, fammi questo regalo, non orientare altro sguardo su di me che non sia funzionale a questo, affrancami da un dolore che sento di aver già conosciuto, non guardarmi, non guardarmi, non farmi essere tua figlia; figlia, madre, nutrice, figlio, bambino; mio dio, mio dio, mio dio, aiutami a distrarmi, regalami la distrazione, una dimenticanza in cammino senza fermate, un dimenticare distratto, ancora e ancora più forte; lecco, sì, lecco…e ora,…ascolto e poi,…finalmente riposo,…scordo, ancora, in questo perenne presente fatto di buio. Batto le mani sul pavimento senza respirare, si accorgeranno di me, le voci se ne accorgeranno, chiedo loro di essere più chiare, devo sentire, devo ascoltarle, le chiamo. Batterò piano però, accostando l’intero palmo delle mani a terra, le faccio aderire sulla traccia umida della mia bava, un contatto con me stessa, con quello che di me sta lì e lì deve restare.”

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Quello che passava nel mondo di questa donna, un mondo fatto di stanze e di suoni, null’altro se non questo, senza persone e anime delle persone, finiva con lo svolgersi senza apparenti spiegazioni, quasi fosse uno spago sfilacciato e sporco sul quale si erano annodati pensieri e storie e ricami complicati da quegli stessi pensieri e da quelle stesse storie; passava così, quel tempo, nella vita di Anna, così come in quella delle voci che salivano incessantemente da altri luoghi diversi da quello in cui lei aveva deciso di acquattarsi e nascondersi. Ciò che importava era che le cose della vita fossero lontane da lei. Era come il ripetersi costante di un rito ed i riti, lo si sa bene, aiutano a disporre il proprio animo in una dimensione ordinata e disciplinata, portandoci lontano da tutto ciò che a noi appartiene, quasi affrancandoci dal dover esistere a tutti i costi, costi quel che costi; in tal modo, poiché è a noi estraneo ed anzi, proprio perché estraneo, il rito regola e nello stesso tempo protegge, aiutandoci a sorreggere e a contenere anche un ricordo diventato troppo pesante e doloroso per poter essere rievocato. Il rito, quel rito di ogni sera, catturava Anna e coinvolgeva, sia pure inconsapevolmente, le voci ed i suoni che non chiedevano altro se non di essere ascoltati. Quello stesso rito, però, incuriosiva e ridestava dal torpore del sentire un’anima secca e asciutta. Ed era proprio così che Anna, ormai tanto distante dai suoi ricordi, avvertiva l’insopprimibile necessità di ritualmente sentirsi schiacciata per tentare di cancellare sé stessa da una vita che l’aveva deprivata perfino da sé stessa; ma proprio quel rito quotidiano, come se una forza opposta alla catatonia le si contrapponesse, la spingeva verso una traccia che iniziava ad assumere toni e sapori che, fino a quegli istanti, erano stati gelosamente custoditi nel suo pensare senza più pensare. Una inazione, sebbene solo apparente, la costringeva ad agire, sia pure solo apparentemente: un rito dentro ad un rito, una cornice che conteneva un’altra cornice ed, infine, uno sfuggire ad una abitudine per sfuggire ad un non vivere ma senza che dentro quelle cornici vi fosse -non ancora- un ordito, una trama, un disegno, ovvero, come se esistesse soltanto un dipinto ovattato e privo di linee e colori, senza forme e profondità.
Di quanti riti siamo fatti ed in quanti riti entriamo ed usciamo, quante volte ignoriamo di ritrovarci lì dentro, e di quanti ancora non ne conosciamo un inizio o una fine. Così Anna era stata in un altro tempo e così aveva vissuto, richiedendo alla vita, prima ancora che a sé stessa, un ordine, un precetto che le desse una direzione, purché nascesse fuori da sé e la conducesse senza peso, indirizzandola verso un percorso non scelto ma solo accettato e, dunque, non responsabile; così, in quella stanza, nella stessa maniera, forse libera di dimenticare anche il suo nome, non conosceva, non poteva e non voleva conoscere il suo dopo, mentre il suo prima era stato cancellato. Anna ora lì, in quel luogo, lottava comunque per continuare ad eliminare ogni suo prima non permettendogli mai più, se possibile, di ritornare su per la via della memoria. Una nuova vita senza vita, ecco cos’era. Da quale vita fosse stata avvinta prima e quale vita si fosse interessata a lei, il suo presente mostrava di disinteressarsene del tutto, distraendosene esattamente come Anna desiderava fare verso sé stessa.
Ma il tempo è esso stesso un rito da cui difficilmente ci si libera, è un carceriere che governa abilmente e senza emozioni i propri detenuti richiamandoli, costantemente, alla condanna del dovere del ricordo: Anna non sarebbe potuta sfuggire né al proprio dolore, se uno ve n’era, né tantomeno alla sua attuale ed ineluttabile espiazione, poiché inserita in un tutto dal quale sarebbe risultato impossibile ed inutile andare via. E’ illusorio anche il solo soffermarsi a pensare il contrario poiché, per il sol fatto di riflettere sul contrario, in questa lunga partita a scacchi col tutto e col tempo, che di esso ne è parte ed insieme sovrano dispotico, si finisce inesorabilmente col diventare schiavi. A pochi è concesso il privilegio di divenire pedine consapevoli di un gioco naturalmente crudele, mentre ai più, ed Anna era tra questi, non resta che porgere una mano per farsi condurre. Opporre una resistenza non trasforma nessuno in eroe ma alimenta soltanto la durata della espiazione, allontanando, tragicamente, la sia pur vaga speranza di una epica quanto agognata conclusione che possa alla fine, pur soltanto in qualche misura, tramutarsi in una redenzione, la redenzione. Dunque, quale magica alchimia avrebbe potuto salvare Anna da sé? Nessuna, poiché alcuna alchimia esiste se non nel pensiero stesso di chi ci crede o fa finta di crederci. Nulla di reale, pertanto.
E’ allora nel principio delle cose che occorre cercare di scorgere un lampo, una scintilla, ed è da lì, precisamente da lì, che si deve iniziare a ripercorrere un tracciato, avventurandosi in un abbrivare senza ripensamenti, esattamente come capitava ad Anna, solo qualche tempo addietro.

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Anna era in un abbrivo e curava di farlo seduta in macchina, col motore spento, lasciando i finestrini aperti. Un grande mare davanti a lei la osservava immobile, solo come il mare può fare; quel mare così severo, perché immenso e misterioso, conteneva in sé le emozioni di quanti gli si erano già affacciati davanti. Racchiudeva, questo mare, ogni piccola stilla di pensiero, persino quelli neanche mai esternati, quelli nati e abortiti sul nascere perché troppo pericolosi, ovvero, troppo semplici; non meritevoli, sia i primi che i secondi, di essere comunicati. La complicità del mare era completa, silenziosa, sempre disponibile ad accogliere e senza mai chiedere nulla in cambio. Un’avidità senza limiti, lontana da qualunque forma di giudizio morale, un serbatoio naturale e naturalmente accessibile a tutti, senza distinzioni.
L’acqua, però, raccoglie e conserva senza mai restituire nulla, eppure da questo grandioso contenitore si è ammaliati, forse perché ci lascia intuire la sua altrettanto grandiosa memoria, la memoria di tutti, del tutto, una memoria fatta di tante memorie degli uomini andate lì ad immergersi e a farsi rapire; ma quella stessa memoria è gelosa e nient’altro racconta se non quello che immaginiamo possa dirci. Ed è in quel momento che inizia l’ipnosi dalla quale è difficile distrarsi e la nostra immaginazione ci porta verso il rapimento del mare, l’una e l’altro in accordo scellerato col nostro tacito consenso, e non v’è più un cominciare, né un termine finale che salvaguardi la nostra mente: essa è assorbita e riversata nella sterminata distesa d’acqua, dentro la memoria acquosa del mare; e così come non esistono tanti mari, ma uno solo, così esiste una sola memoria, a noi ignota, poiché non completamente svelata. Il mare conosce le nostre debolezze, così come le nostre forze, e le une come le altre -il mare lo sa bene- ineluttabilmente legate a filo doppio, tanto da indurre ogni spettatore indeciso a sciogliere il più indissolubile voto di segretezza. Il mare affascina e affabula senza mai raccontare e ci convince, col suo silenzioso e costante movimento sonoro, che è proprio nel suo non raccontare che risiede il suo fascino. E la seduzione, questa seduzione, fa scivolare, scivolare, scivolare, portandoci verso un agone senza competizione, poiché siamo già vinti dal suo affascinamento, consapevoli dell’incantamento, il suo.

Il vento, teso e umido, entrava nell’abitacolo dell’auto scompigliando i lunghi capelli castani della donna, e penetrava senza chiedere permessi, trasportando dentro di sé odori e rumori lontani.
“Il vento coccola gli odori”, pensò Anna, “e questi suoni lontani li porta con sé per regalarmeli, rendendoli soffici, senza che possano infastidirmi, mi fa ricordare che esiste qualcosa, che le cose esistono”.
Aveva preso l’abitudine di recarsi in quel luogo, un promontorio privo di vegetazione, per raccogliere i propri pensieri e darsi il tempo di riconciliare la sua memoria rispetto a tutto ciò che giornalmente doveva affrontare; lo faceva per evitare di subire i troppi danni del suo vivere quotidiano e non dovere quindi solo rammaricarsi di accettare lavori che non le erano più congeniali. Il mare la riconciliava con le sue abitudini e l’ampia solitudine di quei posti assorbiva completamente la sua mente, talvolta confondendola.
La mattina era appena iniziata e la cerimonia solitaria e giornaliera si era svolta. Quel giorno, quell’oggi, si sarebbe dovuta recare a prendere un lavoro, un altro di quelli che non le piacevano più e comunque la vita doveva continuare, con o senza mare, con o senza memoria.
“La vita continua sempre senza un con, essa si snoda senza un fine, senza alcun genere di perché”, rifletté Anna, mentre rimetteva in moto la macchina che l’avrebbe condotta verso un genere di vita annodato e inesplicabile, di quelli che inerzialmente ti conducono verso una interminabile serie di niente, una straordinaria somma di zeri, laddove perfino il domandarsi qual tipo di risultato si possa raggiungere diviene un’azione inutilmente orientata. Così Anna, si orientava verso il nuovo lavoro.
Ma, quand’è che si inizia e quand’è che vi sarà un compimento? Un inutile chiederselo, pensava Anna, almeno sino a quando esisterà una domanda, la stessa identica domanda. E riproporsela con ostinata ossessione non serve poiché sarebbe come confessare a sé stessi che esiste da qualche parte il grande contenitore delle domande che durano, di quelle che non tollerano mai una risposta: un’operazione altrettanto inutile.
Guidando la sua auto, si impose perciò di smetterla, una volta per tutte.
Fu così che si ritrovò in un’anticamera fatta di pareti perfette, ben curate, di quadri che la osservavano cupamente e di porte in noce massiccio, in una atmosfera pulita, sin troppo.
Così come si resta appesi ad un ricordo, ma solo a quel genere di ricordi che segnano dolorosamente la vita, allo stesso modo, Anna, aveva orientato la sua vita; i precedenti anni trascorsi alla ricerca di picchi, cui avevano fatto seguito le successive cadute, secondo un ordine naturale e precostituito delle cose, avevano, infine, prodotto un unico risultato: lasciarla appesa, in attesa. Ora, in quel posto, si sentiva coerentemente confortata da una medesima attesa, senza alcun tipo di spinta emozionale che non fosse quella dell’attesa stessa e sempre che la scelta di attendere potesse essere assimilata ad una emozione. Ogni volta diventava perciò un ricominciare ma, a differenza di chi con fatica è costretto dalla propria personalissima storia a iniziare un nuovo percorso, Anna riusciva a suturare, attimo per attimo, senza sfinimento apparente, i suoi vuoti, alternandoli alle cose da fare, i suoi non vuoti. La qualità o la quantità del lavoro da svolgere lasciavano dunque la donna in uno stato di perenne indifferenza. Anna aveva superato da un pezzo una perversa linea di confine, quella al di qua della quale la propensione verso qualcosa, pur nella immobilità di un’attesa, tende un animo irrequieto, lo innervosisce quasi. Né la curiosità per un nuovo incarico, avrebbe più potuto smuoverla dall’opprimente sensazione del dover essere, essendosi ormai completamente affrancata dal pensiero frenetico e ossessivo dell’essere.

Cosa basta, cosa è sufficiente, per non tradire più, ovvero per non soffrire più per il tradimento verso la propria vita? Ad Anna, da qualche anno, almeno dal momento in cui aveva partorito il figlio, bastava il suo colloquiare muto col mare, o meglio, il suo discorrere con la finta memoria che il mare fintamente pareva restituirle; niente le serviva più e niente le mancava più. Si è tristi, perciò, solo se la mancanza di qualcosa, di qualunque cosa, viene avvertita come tale; si è, invece, indifferenti quando la mancanza è degradata verso il mero ricordo della mancanza stessa, ed Anna degradava progressivamente senza neanche avere più il tempo di pensare. Il suo vivere era il suo stesso degrado, una perfetta operazione di assimilazione tra le due cose, nulla di più. Speranza, vanità, colori della speranza, solo categorie mentali che potevano arricchire l’appiattimento esistenziale della fotografa; il suo lavoro, altro non era diventato se non il semplice specchio -null’altro che questo- di questo. L’unico vero desiderio di Anna, oggi, in quel momento, e senza potersi garantire il medesimo desiderio in altri e differenti momenti, segno evidente della vacuità del desiderio medesimo, si riduceva nella altrettanto vuota speranza di poter fotografare i soggetti dei suoi reportages usando la tecnica del bianco e nero, poiché l’uso del colore spegneva inevitabilmente la sua singolare coerenza del vivere senza programmi e senza variazioni cromatiche.

Si era scelta un mestiere zeppo di libertà apparenti, soltanto apparenti. Si era costretta a dipendere da un sì o da un no e, quel che è peggio, ed oggi era già il peggio, si era infilata in una strada a senso unico fatta di <<fai questo, non fare quest’altro>>. Non ricordava, non desiderava più farlo, che qualcuno le avesse mai detto di evitare di dedicarsi alla fotografia; ricordava bene invece che le fu consigliato di non dire mai di no. Questione di mercato, fu sostenuto.
“Quando si inizia e quando si compirà qualcosa? Al momento vedo il nulla”.
Ciò la addolorava, anzi no, alimentava il suo dolore del dover eseguire solo dei comandi, delle prescrizioni. Accettava pertanto di fare un servizio fotografico su degli inutili uccelli rari di palude per ricavare qualcosa, per guadagnare un compenso, soltanto per vivere.
“E’ tutto qui? E’ spaventoso, è l’orlo dell’abisso della mediocrità, un timbrare francobolli seduta dietro ad uno sportello postale. Come sono arrivata a tutto questo? Da quale strada sono arrivata? L’orgoglio, forse. Ora qualcuno batte cassa e io pago. Quando si aprirà quella porta austera e verrò accolta dal mio agente, inizierò a pagare un altro conto, uno dopo l’altro, da un paio d’anni a questa parte. Non avrei mai dovuto fare un figlio, un altro conto che pago. Sarà vero allora che il <<quando>> dell’inizio v’è stato. Peccato sia intriso di dolore poiché faccio fatica a vivere, mi sono distratta.”
In questo ostinato riflettere, poiché non s’abbandona mai il vizio di farlo, era comunque tardi, ora si doveva entrare in scena, ancora una volta, chissà per quante volte ancora. Le veniva da pensare che il <<quando>> del compimento fosse semplicemente inesistente.

Ora, perciò, Anna guardava se stessa mentre se stessa guardava l’uomo seduto dall’altra parte della scrivania. Ancora una volta, il contenitore delle domande che durano iniziava a raccogliere domande destinate a restare senza risposta, come se insieme a quel genere di contenitore di domande ve ne fosse un altro, forse anche più angosciante, quello delle risposte che durano, delle non risposte. Cosa mai avrebbe potuto dire all’agente che le proponeva di fare un servizio fotografico in una palude popolata da uccelli, cosa poteva suggerirle la sua mente avviata verso le non risposte se non delle non risposte? Un lavoro da farsi, tutto qui; un lavoro per vivere, tutto qui.
In tal modo prese quell’incarico con la promessa di consegnare il prodotto finito entro due giorni, tre al massimo. L’organizzazione successiva non contemplava intralci di sorta, né tempi morti: ad una decisione rapida, poiché non meditata, avrebbe fatto seguito una altrettanto rapida organizzazione. Occorreva, perciò sistemare il figlio, il piccolo Luca, ed occorreva farlo senza ripensamenti.
Lucia, la sua tata, non avrebbe opposto alcun genere di resistenza. Quante persone circondavano la vita di Anna? Poche, una, dato che Luca non era da considerarsi ancora una persona, solo un bambino inerme e semplicemente affidato alle amorevoli cure di Lucia. La si sarebbe potuta scambiare per una grande fortuna, tuttavia l’animo inquieto di Anna la predisponeva verso una non tranquillità non del tutto svelata, soprattutto a se stessa. Luca era da crescere, ma Luca cresceva con Lucia, non con Anna. Il rientro a casa, la casa di Anna, la casa di Anna e Lucia, non avrebbe agevolato l’organizzazione lavorativa della donna. Una matassa esistenziale irrisolta viaggiava insieme con Anna ed ogni suo spostamento, dal più piccolo al più grande, costituiva un problema da affrontare; non vi era metodo, nessuna disciplina. La nascita di Luca e persino il concepimento del bambino si collocavano in questa dimensione indisciplinata.

Ad ogni modo, il lavoro era stato preso ed Anna aveva accantonato ogni altro inutile dettaglio riguardante il breve colloquio con l’agente. Avrebbe in seguito aggiunto, o inventato, qualche particolare una volta che fosse arrivata a casa. Aveva preso l’abitudine di inventare qualcosa quasi in preda ad un riflesso impostole dal vivere in quella casa con Lucia, come se dovesse arricchire la propria vita lavorativa di dettagli e colori che, invece, stentava a riconoscere. Ma a chi faceva un favore? A se stessa? A Lucia? Pericoloso il solo domandarselo, altrettanto pericoloso darsi delle risposte. Liquidò la faccenda concentrandosi sul nome dell’uccello da palude che avrebbe dovuto riprendere: il combattente. Con quel nome avrebbe potuto raccontare più del necessario, fingendo un entusiasmo che non le apparteneva -non più- creando un interesse ed orientandolo verso la sua interlocutrice d’elezione. La mente, però, la riportò alla organizzazione del lavoro, della casa, del figlio. Un pensiero iniziò ad attorcigliarsi su se stesso: Luca, il figlio non figlio, il bambino che cresceva con Lucia. Perché non portarlo in palude?
L’ossessione delle domande che durano la accompagnò sino a casa.

Come sempre le accadeva, aveva dimenticato le chiavi dell’appartamento in qualche angolo buio di una delle sue borse. Una vita fatta di innumerevoli angoli bui le consentiva di accantonare, in tal modo, un pensiero così semplice come quello di dover ricordare dove avesse lasciato le chiavi di casa. Anche l’ascensore, il cui tragitto l’avrebbe portata al quinto piano del suo stabile, era un angolo buio, anzi, un budello buio da attraversare in apnea. Ad ogni modo, e lo sapeva bene, c’era sempre qualcuno ad aspettarla a casa ed il fascino della delega incombeva su di lei a tal punto da catturarla e possederla sino a renderla completamente refrattaria a ciò che normalmente, invece, riesce a riempire il quotidiano di chiunque. Lucia presiedeva a tutte le funzioni del vivere quotidiano della giovane donna e la consapevolezza di questo aveva definitivamente avviato Anna verso una curiosa forma di affrancazione da tutto ciò che non fosse direttamente riconducibile al suo precisissimo esistere artistico di fotografa.
Il suono del campanello non aveva dunque stupito né lei, né tantomeno Lucia. La porta dell’appartamento si era aperta verso l’interno. Anna, entrando nel piccolo ingresso, aveva lanciato un sorriso appena accennato a Lucia, provvedendo poi a richiudere la porta, accompagnandola con delicatezza.
In casa, regnava una calma piatta, di quelle fatte di poche e precise domande e risposte, dove i saluti di entrata e quelli di commiato servivano a chiudere tra due parentesi le elementari azioni che si svolgevano lì dentro. I gesti, ripetuti macchinalmente, erano in perfetta armonia tra essi stessi e tra questi e le movenze degli ospiti fissi dell’appartamento. La calma, però, quella calma, non rassicurava gli animi inquieti che ora si confrontavano. Una congerie di questioni irrisolte si addensava sulle teste delle due donne, spingendo l’una verso l’altra e, insieme, l’una contro l’altra. Il bambino, suo malgrado, finiva con l’essere un punto d’incontro. Alla domanda di Lucia sul cosa avesse fatto Anna, faceva seguito una risposta significativamente laconica: il “niente” diventava la risposta obbligata ed esattamente la risposta obbligatoriamente da darsi a Lucia. Per contro, alla domanda di Anna su cosa fosse successo in casa durante la mattina, Lucia rispondeva con una sorta di calcolato entusiasmo, probabilmente eccessivo rispetto alla semplicità del quotidiano, ma sempre indirizzato verso la puntuale cronaca di quanto Luca avesse fatto. “Luca ha sorriso”, “Luca ha pianto”, “Luca si è divertito”, “Luca ha mangiato tanto”, “Luca, Luca, Luca”.
Lucia, una madre non-madre che riportava ad Anna, la madre, quella cronaca, espressione di un insolito rapporto materno in cui lei volontariamente si surrogava.
Ma cos’è una surroga se non l’espressione di un’arte amara dell’essere?
Di quale amarezza viveva Lucia? Di quale viveva Anna? Le due donne erano entrambe inserite in una relazione simbiotica accidentale e necessitata che non richiedeva esplicite autorizzazioni né, tantomeno, formali attribuzioni di incarichi e compiti, l’una e l’altra in perenne reciproca accettazione del fare o dell’agire, pur coscientemente consapevoli, l’una e l’altra, di una incombente mancanza: Lucia, geneticamente mancante della sua propria natura di madre, ed Anna, funzionalmente mancante di quella stessa identica natura materna. Tuttavia, questo curioso gioco ad incastro, oggi, si sarebbe colorato di altre e differenti componenti. Anna aveva pensato, sia pure non ancora deciso, che avrebbe recuperato la propria identità di madre portando il piccolo Luca con sé, in palude. L’incastro affettivo tra le due donne avrebbe così risentito di una deviazione rispetto al loro normale ed acquisito vivere quotidiano.
Fu per questo che Anna si accinse a rivelare il suo proposito a Lucia.

Si vive di aggiustamenti successivi e di compromessi e di ripensamenti, ma lo si fa per proprio conto, senza troppo avvitarsi sul pensiero altrui, egoisticamente concentrati sulle proprie mancanze e senza attendere risposte e valutazioni. Così si vive, così si ipotizza di farlo, poiché è nella ipotesi del vivere che si consuma un’intera vita, così, almeno, si presume di poterlo fare, perché si desidera ignorare quanto sia complesso esistere; si tende a scordare, ad accantonare, a svicolare continuamente, si evita, lo si crede, la fatica dello specchio, l’insopportabile fatica del riflesso di se stessi che uno specchio ci restituisce.
Fino a quando?
Ora, in quella cucina, la luce esterna si era progressivamente affievolita. Fuori iniziava a piovere, a vento. Anna seduta al tavolo, mentre Lucia finiva di preparare il pranzo, aveva incrociato le braccia sulla tovaglia appoggiando la testa sulle braccia. Guardava la finestra, osservava la luce, fuori da lì. Si concentrava sulle gocce della pioggia che avevano iniziato a colpire il vetro; seguiva il movimento dell’acqua che scorreva, di ogni singola goccia che peregrinava sulla superficie liscia. La direzione che il vento imprimeva alle piccole particelle d’acqua creava linee trasparenti sempre più fitte; parevano piccoli rigagnoli dotati di una corrente accelerata e sempre più veloce. Il rumore del vento copriva il ticchettìo prodotto dalla pioggia che batteva contro il vetro.
Anna e Lucia, come le gocce di quella pioggia, erano due affetti incrociatisi forse per caso, come due proposizioni incidentali che avevano deciso di confondersi in un rapporto di reciproca mutualità: e lì, in quel condiviso atto di scambio, mescolavano il loro sentimento. Un amore materno ed uno filiale, due generi di amori miscelatisi casualmente. Il tacere delle due donne, piuttosto che esprimere un mero silenzio, rappresentava, per contro, un vero atto di amore: un dare ed un ricevere senza pretese e senza richieste. Il tacere era un garbato e composto silenzio, un atto di rispettosa accettazione dell’una verso l’altra, senza che né Lucia, né Anna, avvertissero il bisogno di violentarsi attraverso l’imposizione di un silenzio: né l’una, né l’altra, avrebbero potuto scegliere un modo diverso per volersi bene, volersi del bene.

Si ama anche chi compostamente tace e chi tace ama, correlativamente, il tacere dell’altro. Così, le due donne. Solo una donna può apprezzare ed amare il silenzio di un’altra donna, esso stesso è un allenamento al vivere fatto di un coccolare ed un coccolarsi del tutto privo di condizioni.
In tal modo, l’atmosfera calma e rarefatta della cucina, quell’aria composta dagli odori del cibo da servire in tavola, accompagnava il tempo del pranzo, ogni pranzo così. Incombeva, però, il desiderio di Anna di riappropriarsi della propria maternità sino ad allora troppo affidata a Lucia, quella maternità delegata alla donna cinquantenne che, ora, domandava ad Anna del colloquio di lavoro con Max, l’agente della fotografa.
Poche le risposte, del resto ben misurate rispetto alla laconicità delle domande che le poneva Lucia. Come programmato, Anna fece in modo da spostare progressivamente l’attenzione verso il tipo di uccello che avrebbe dovuto fotografare, strappando un sorriso alla tata allorché le rivelò il nome del volatile: il “combattente” venne contrapposto alla lotta che avrebbe impegnato Anna, l’indomani, in palude. In questa metafora accidentale, si aprì uno spiraglio, come se il desiderio di combattere del giorno dopo avesse finalmente fornito alla giovane donna il giusto e risolutore spunto per comunicare a Lucia l’intendimento di portare il piccolo Luca a conoscere il lavoro della mamma.
Le due donne parlavano fittamente del programma messo in atto da Anna. Luca, protagonista ignaro del tutto, rideva, ora con l’una, ora con l’altra, mentre, prima l’una, poi l’altra, quasi seguendo un rito, facevano a gara per tenerlo in braccio. Infine, il bambino era stato messo a terra su di una morbida coperta azzurra piena di giocattoli.
L’amore incondizionato di Anna e Lucia, tra Anna e Lucia, quell’amore fatto di frasi taciute o di pensieri silenziosi, parve vacillare: l’opposizione di Lucia circa la decisione presa da Anna venne manifestata in maniera ferma. La fotografa annotava mentalmente il disappunto contenuto nelle parole espresse dalla tata, ma non mostrò di arretrare di un sol passo rispetto a quanto aveva programmato di fare: Luca avrebbe accompagnato la mamma in palude.
Ora, però, di nuovo scherzavano e Lucia aveva deciso di accantonare ogni pensiero che potesse in qualche misura mostrare di sé la sua propria debolezza di madre-non-madre.
La tata aveva iniziato a punzecchiare Anna con misurata ironia intorno alla vita solitaria della fotografa e gli inevitabili critici ma bonari riferimenti ai valori estetici femminili, ormai adottati da Anna, sortirono l’effetto di definitivamente rallegrare quella giornata.
Infine, il tacere, ancora una volta.
L’affetto tra le due donne, quello sviluppatosi anche grazie a quel tacere, avvolse la decisione di Anna e, forse, l’accarezzò persino. Di questo Lucia ne fu consapevole. Il suo ruolo contemplava anche questo genere di matura consapevolezza dell’accettazione, senza patimenti estremi che non fossero direttamente riconducibili al pensiero di un bambino portato fuori da quell’ambiente domestico, ma pur sempre affidato alla propria madre. La giustezza di quel ruolo di madre, quello di Anna, ricompose, ancora una volta nel silenzio, la giustezza del ruolo di Lucia: una sorta di mentore poco incline a contrapporsi all’amore che nutriva verso Anna.
L’indomani era da accettarsi, semplicemente.

***
La mattina successiva, Anna e Luca, alzatisi di buon’ora, viaggiavano verso la palude.
Aveva piovuto per tutta la notte ed il fondo stradale era ancora bagnato. Max, come al solito, era stato noioso ma efficace, rapido e preciso: le aveva parlato di uccelli rari di palude, come quelli raffigurati nel catalogo patinato che le aveva consegnato. Strani uccelli dalla tinta fulva e dalla gocciolatura nera, dal becco lungo e sottile, dal volo veloce e capaci di evoluzioni spettacolari. L’agente si era preoccupato di cerchiare con un evidenziatore giallo la preda (forse solo la sua preda) da fotografare; il “combattente”, un uccello in declino, era stato detto ad Anna il giorno prima.
“Sarà per questo che è raro, chissà…, anche per questo sarà un combattente, lotta ancora per la propria esistenza”.
Le riflessioni della fotografa erano accompagnate dai versi prodotti da Luca, che, probabilmente, emetteva quei suoni per richiamare l’attenzione della mamma che, a propria volta, guidando con una mano, accarezzava la pancia del bambino ben sistemato sul seggiolino posto sul sedile di fianco al guidatore.
Il sole illuminava la giornata e nell’auto si respirava un’aria di contentezza. Ancora pochi chilometri e sarebbero giunti a destinazione.

Si affacciarono in una grande zona d’acqua e di terra insieme, un terreno paludoso pieno di vita. Ecco come si presentava il paesaggio. Una suggestiva rappresentazione della solitudine eppure molto affascinante poiché lì si avvertiva il sussurrio della vita. Lì Anna ritrovava il denso sapore del silenzio, oggi interrotto dalla presenza giocosa del bambino. Lì, comunque, si ritrovava a dover svolgere il proprio lavoro: riprendere la vita di specie protette nel loro ambiente naturale. Gli odori delle zone acquitrinose entravano nei corpi e nelle narici di questi due ospiti privilegiati in questo mondo nascosto ai più. Anna e il piccolo Luca, si trovarono ad essere catapultati in un ambiente calmo e nello stesso tempo pulsante di vita nascosta, dove era perfino rassicurante il poter pensare di fotografare uccelli rari, quasi mimetizzandosi tra i canneti e l’erba alta, e dove era possibile mimetizzare e proteggere anche la vita -piccola- del bambino.
Scesero dalla macchina e si avventurarono alla scoperta di luoghi mai frequentati. Anna si inerpicava tra la vegetazione, col bambino nel marsupio che la guardava soddisfatto e con le borse a tracolla contenenti l’attrezzatura fotografica che le ballonzolavano sui fianchi.
Dopo una rapidissima ispezione, e scelto il luogo dove poter sistemare Luca, distese un plaid e, delicatamente, vi fece sedere il bambino, avendo poi cura di lasciar cadere sulla coperta i semplici giocattoli del piccolo.
Anna si sentiva sicura. A rassicurarla, il silenzio di quei luoghi e il respiro di Luca.
Forse, per la prima volta, la donna avvertiva il senso della libertà di essere madre, ed insieme il piacere di esserlo. La decisione di aver portato con sé Luca si rivelava essere stata quella giusta. Per la prima volta, dalla nascita del bambino, avvertiva un’emozione di profonda contentezza.
Con calma, raccolse alcuni giocattoli che Luca aveva fatto scivolare fuori dal plaid e, ridendo, glieli posò accanto ai piedi. Il bambino la ripagò con dei sorrisi mentre continuava a giocare disordinatamente, ma puntava la propria attenzione verso una automobilina rossa: aveva imparato a farla scorrere sulla coperta approfittando di una leggera pendenza del terreno, per poi andare a riprenderla gattonando freneticamente verso il giocattolo. Il gioco si ripeteva senza sosta, un rito che non poteva essere interrotto. Anna continuava ad osservarlo sorridente. L’uno e l’altro rito, il gioco ininterrotto del bambino e la cura nell’osservarlo da parte di Anna, rassicuravano entrambi.

Ci si adagia in questo, lo si fa per delle semplici, poche, ragioni e l’adagiarsi è un masticare calmo, sereno. E’ così che si desidera che il tempo possa fermarsi, perché si annusa, in questi istanti, la sobrietà dell’essere e la semplicità del vivere, la lontananza dal dover mordere la vita, piuttosto che viverla. Nell’acquietarsi si dimentica, ci si distrae di una distrazione benevola, ed ogni demone diventa tenero, suadente, ci invoglia alla distrazione con abilità, rendendoci solo apparentemente stabili, poiché consapevole della nostra fragilità, ci invita a farlo, e seguirlo è piacevole. Egli ci mostra ciò che noi vogliamo ed il nostro desiderio è appagato, quindi, anch’esso è distratto.
Il destino è il nostro demone, noi lo amiamo, Anna lo amava così come si ama chi seduce.

Mentre Anna si allontanava per raggiungere la postazione più adatta per cominciare il proprio lavoro, decise di bloccare l’immagine di Luca sorridente con quattro o cinque scatti, intervallati dalle risa e dai gesti del bambino.
Ora, in silenzio, con un orecchio proteso verso il luogo dove Luca giocava sulla coperta di lana, era pronta ad iniziare.
La concentrazione fu subito massima, non era facile fotografare questi uccelli. Due aironi erano in procinto di librarsi in volo e lo fecero prendendo una decisa rincorsa sbilenca, come se fossero stati dei piccoli idrovolanti, di quelli che perdono colpi al decollo; piccoli spruzzi di quell’acqua opaca vennero proiettati in aria e il silenzio di quei luoghi si interruppe all’improvviso mentre Anna faceva partire l’otturatore a raffica con dei gesti meccanici, rapidi, automatici. Il volo era iniziato e, immediatamente dopo, immortalato.
Un leggero, curioso colpo di vento impose ad Anna di volgere lo sguardo verso il bambino; nonostante fosse ben nascosta tra la vegetazione riuscì a scorgerlo e lui scorse lei. I due sguardi si incrociarono in un breve, quanto intenso sorriso, di quelli veri, spontanei. Una ritrovata serenità. Il lavoro poteva continuare.
Qualcuno aveva suggerito ad Anna di munirsi di certi fischietti da richiamo perché, lì in quelle paludi, in questa primavera non ancora calda, alcuni uccelli vivevano la stagione degli accoppiamenti. Un po’ bloccata nei movimenti, con le macchine fotografiche appese al collo, si spostò e procedette verso una piccola depressione del terreno; il fango le si stringeva attorno agli scarponi e lo sfrigolìo dell’acqua melmosa sembrava ricordarle di muoversi con cautela. La mota la ammoniva e la controllava. Iniziò a camminare, tenendosi bassa, in silenzio, con lieve affanno, e col piccolo strumento per il richiamo tra le labbra ben serrato tra i denti. Non ebbe più il tempo di voltarsi ancora una volta per controllare il piccolo Luca.
Portatasi al centro della depressione, iniziò a “corteggiare” quei curiosi uccelli acquatici nascosti. I due acuti e prolungati suoni prodotti dal richiamo sortirono l’effetto sperato: vi fu una risposta. L’imbroglio, la finzione di quella caccia stava per raggiungere il suo culmine. Anna si acquattò e con la mano libera raccolse un sasso per lanciarlo poco lontano da lei, proprio lì in mezzo a quell’erba secca, ammatassata e impenetrabile allo sguardo. Lì, c’era la sua preda, lo sapeva, lo intuiva. Il lancio fu maldestro ma ugualmente efficace: due uccelli dalla livrea maculata spiccarono un volo rapido e nervoso verso Anna che, pronta a scattare, li inquadrò nel mirino. Al volo veloce, forse troppo, perché improvviso ed inaspettato, si accompagnò una mitragliata di fotogrammi. Aveva ripreso l’intera scena ma la torsione del busto la costrinse ad assumere una posizione innaturale e, così, per non cadere, fu costretta a spostare rapidamente il piede d’appoggio e riacquistare un nuovo baricentro; calpestò delle canne secche ed il rumore fu stranamente assordante. Altri uccelli spaventati presero il volo. Altre foto, altra rapidità e tutto si mosse troppo velocemente. La palude mostrava la vita, la sua, quella non più nascosta.

Il lavoro si era rivelato proficuo, forse non del tutto terminato, ma adesso occorreva ritornare indietro e riguadagnare una posizione che le consentisse di controllare il piccolo Luca. Di nuovo la contentezza di poterlo rivedere e riabbracciare si impossessò di Anna.
Quanto tempo era passato? Solo attimi. Desiderava condividere col figlio anche la soddisfazione per il lavoro ben fatto, l’una e l’altra cosa insieme. Iniziò, pertanto, e a passi veloci, a percorrere a ritroso la strada verso il luogo dove aveva lasciato il bambino. La fanghiglia la rallentava e l’attrezzatura fotografica non la agevolava. Raggiunse una sommità del terreno e osservò il punto dove avrebbe dovuto trovarsi Luca. La vegetazione le impediva di scorgere bene, ma riconosceva comunque la coperta, una macchia di colore diversa rispetto a quei luoghi. Non sentiva, però, la voce del piccolo. Si affrettò ancora, imprimendo un passo più deciso e cominciò a chiamarlo: le piaceva sentire la sua voce carica di contentezza mentre pronunciava il nome del bambino; senza rendersene conto, non ottenendo alcuna risposta, i suoi passi diventarono più veloci. Incespicò una, due volte, continuando a tenere la testa alta, senza guardare il terreno. Puntava lo sguardo verso il plaid. La tensione le montò dentro con una spinta lenta ma violenta, improvvisa, senza preavviso.
Il plaid non ospitava più Luca.
Raggiunse finalmente il punto dove aveva steso la coperta che recava ancora i segni della presenza del bambino e lo sguardo di Anna corse ai pochi giocattoli lasciati lì: anch’essi sembravano essersi spostati, allontanati. La coperta era vuota, quello spazio paludoso era vuoto, la testa di Anna era vuota. Si levò di dosso tutta l’attrezzatura e la lasciò cadere a terra.
Compiva queste operazioni mentre con gli occhi sezionava le immediate vicinanze.
La tensione iniziò a trasformarsi in angoscia e l’angoscia in disperazione, la voce di Anna urlava il nome del bambino, e quella disperazione mutò in terrore allorché, come un animale alla ricerca del proprio cucciolo, si mosse disordinatamente in tutte le direzioni, ripercorrendo troppe volte le stesse strade appena battute e ripercorrendole ancora e ancora, avanti e poi indietro e poi ancora a destra, dappertutto, con la voce strozzata che continuava ad urlare il nome del piccolo, senza poter annusare alcuna traccia e sentire solo quel silenzio e nient’altro. Grida inutili, grida rabbiose e inutili. Anna aveva, però, fermato un’immagine: uno dei giocattoli era troppo lontano dal plaid. Ritornò lì,…lo osservò, era l’automobilina rossa con cui giocava Luca poco prima. Strisciò tra le canne e l’afferrò, non poté fare a meno di guardare oltre e quell’oltre le rimandò la visione di una piccola e nera pozza d’acqua ed un piccolo corpo che vi galleggiava, la faccia era affondata nella melma.

Due vite finite, d’un colpo.
L’una, definitivamente accasciatasi, senza più respiro, in un’acqua senza più memoria, senza più nulla da restituire, nemmeno delle immagini illusorie di una memoria inesistente, non più esistente; l’altra, definitivamente sospesa in una vita senza più vita, dove il sapore del rimorso morde senza ritegno, senza pudore. L’urlo prolungato e muto del dolore, di quelli che ti fanno masticare la terra, come Anna faceva, veniva lasciato sprofondare nel fango, lacerando e ricomponendo, in un balletto senza fine, poiché ossessivo, ultimi istanti di vita.
Il prima ed il dopo e ancora il prima ed il dopo, così è la morte improvvisa, così è la morte che coglie senza avvertimenti, così è la vita che ti raccoglie senza preavviso, quando ti preleva da una morte, quella altrui, e ti sbatte a terra e ti percuote. Così Anna, così la morte del bambino, così la vita di Anna prima e adesso. E se la mancanza, quella mancanza, avesse mai potuto tradursi in forma solida, nessuno avrebbe mai potuto trafiggerla. Una mancanza allo stato solido, quella morte.
Il fango le ricopriva la bocca, mentre piangeva senza lacrime e mentre strisciava, sbavando furore cieco, riempiendosi le narici di acqua e di melma.
Il destino, supremo regolatore delle distrazioni umane, prende ciò che non ci aspettiamo prenda. In questo prendere, nessun rapporto di scambio, mai.

La ritrovarono così, muta, con gli occhi sbarrati piantati nella terra. L’ambulanza, senza sirena, si muoveva nel traffico verso una destinazione ormai inutile. Lucia, in silenzio, sedeva accanto alla barella. La salma di Luca era coperta da un lenzuolo bianco.

***
Talvolta, sono gli avverbi che ci mancano.
Si pensa ad un “ancora”, o ad un “sempre” , e non si pensa mai ad infilarli in qualche sacca nascosta della nostra vita; possiamo perfino ipotizzare che un avverbio sciocco come “quando”, o un altro come “dove”, possano riempire certe giornate o intere sequenze di giornate, e lo si fa per noia, per apprensione verso qualcosa che non arriva mai.
Quel che adesso mancava nella vita di Anna, quello che sarebbe mancato per sempre, era, invece, un avverbio primario, semmai possano esistere degli avverbi primari, uno di quelli senza il quale niente ha più un senso.
Ad Anna era venuto a mancare l’avverbio “fondatamente”. Quali erano, infatti, le ragioni, i motivi -fondanti- che, a partire dalla morte di Luca, l’avrebbero indotta a camminare in avanti? La morte di Luca era diventata la sua stessa morte, ed una morte non contempla ripensamenti; in questo fine-vita non vi è più alcuna possibilità di ripensare ad una vita ed il ricordo stesso di una vita interrotta è più penoso della morte stessa.
Cosa “fondatamente” avrebbe potuto sorreggere Anna? Nulla, e “ancora” nulla, per “sempre”; e fino a “quando” e fin “dove”?

L’ambulanza trasportava corpi e non sembrava un’ambulanza, era piuttosto un carro funebre col suo carico di morti, senza corteo.
I “dove” e i “quando” galleggiavano dentro la testa di Anna e dentro quella di Lucia e ognuno dei due avverbi trovava il proprio contraltare nei “sempre” e negli “ancora”; questi avverbi, che si rincorrevano senza ordine nei cervelli delle due donne, erano diventati, essi stessi, tutti e quattro, le domande e le risposte. Quell’ambulanza, quel carro funebre, era il contenitore delle domande che durano e, nello stesso tempo, la perversa urna delle risposte durevoli, le non-risposte.
“Fondatamente” era l’unico avverbio non più utilizzabile; esso era stato strappato dalla mente di Anna, così come dal suo senso materno era stato allontanato il termine relazionale del senso stesso: Luca.

Il portantino che sedeva al fianco di Lucia aveva biascicato una sola inutile parola.
Quel “mi dispiace”, appena mormorato tra i denti, aveva avuto solo l’effetto di rendere ancora più tangibile il profondo mutismo che ammantava la scena.
Lucia osservava Anna che, a sua volta, orientava il suo sguardo nel nulla. La traccia di una lacrima silenziosa solcava il volto della tata.
L’arrivo in ospedale fu accompagnato da una lentezza insopportabile. Furono espletate assai rapidamente le formalità del caso. Alle poche sintetiche domande del poliziotto di turno Anna rispondeva a monosillabi, Lucia l’aiutava a ricordare. La bocca di Anna era ancora impastata di fango. Aveva morso la terra della palude, senza nemmeno più urlare. La fecero accomodare in bagno. Sembrava un burattino senza vita. Lucia l’aiutò a lavarsi ma capì presto che avrebbe dovuto provvedere a tanto senza attendersi alcun tipo di collaborazione da parte della donna.
Al medico incaricato di procedere all’esame autoptico fu domandato se si sarebbe potuto evitare quell’ultimo drammatico scempio sul corpo del bambino, ma la risposta negativa del sanitario dissuase Lucia dall’insistere oltre.
Luca era morto, ora Lucia avrebbe dovuto preoccuparsi di Anna, avrebbe dovuto cercare di farle risalire una china.
Anna era sprofondata all’inferno.
Le due donne furono accompagnate in una stanza e ad Anna, distesa su un lettino, fu praticata un’iniezione per via endovenosa. Rassicurarono Lucia dicendole che si trattava solo di un calmante. A fine giornata avrebbero potuto far rientro a casa.
Le cose non andarono esattamente così.
Verso sera, la catatonia di Anna indusse i medici del reparto a trattenerla lì.
“Solo per qualche altro accertamento” fu detto a Lucia che insisteva per portarla via.
Anna restò nella stessa identica posizione, non muoveva un muscolo. A notte fonda, a malincuore, Lucia abbandonò l’ospedale, ma solo dopo aver passato qualche ora su di una sedia vicino al letto dove giaceva Anna.

Dal giorno successivo al ricovero, iniziò un nuovo rito: dopo qualche giorno Anna venne dimessa, ma subito dopo ricoverata ancora. Quasi a settimane alterne, usciva ed entrava dalla clinica.
In questo andare e venire, in questa ritualità ossessiva, si compiva il nuovo assetto di vita, sia per l’una che per l’altra donna.
Lucia annotava mentalmente i singoli passaggi e fotografava tutti quei camici bianchi che si era abituata ad incontrare. I rientri a casa, i suoi e quelli di Anna, non le restituivano se non attese, attese cariche di ansia, attese in attesa di rivedere quei lunghi corridoi, quelle stanze riempite di dolore. Il corteggio dei camici bianchi scandiva le ore in ospedale. Il reparto era assimilabile ad una clinica psichiatrica, sebbene non fosse propriamente un luogo per malati di mente.
Lì, si aiutava a dimenticare, cercando di regalare agli ospiti un destino distorto, non del tutto uguale a quello reale, imponendo loro una sorta di autoprescrizione, una specie di novello decalogo del vivere. Si tenevano a freno le emozioni, sia quelle troppo imperiosamente devastanti che rischiavano di far saltare schemi, sia i comportamenti raffreddati o da raffreddare completamente. In questa cella frigorifera delle emozioni ognuno era ospite: lo erano i medici, lo erano i pazienti e, inevitabilmente, avevano imparato ad esserlo anche i visitatori dei pazienti.
Lucia si sorprese ad assimilare questo ambiente, fatto di sensazioni decelerate, riconducendolo ad un gioco, come quello che faceva a scuola, quarant’anni prima, quando la maestra consentiva a lei e alle sue compagne di giocare al “gioco del silenzio”. Anche qui si giocava al silenzio ed era un giocare intriso di pazienza, dove nessuna azione poteva assumere alcun significato che non fosse quello linearmente legato al gioco stesso, dove una minima sbavatura doveva essere immediatamente corretta, irregimentata.
Anche così la mente umana partorisce perversioni, proprio così la mente umana innesta pensieri su pensieri, e i pensieri non comunicati e ripetuti a se stessi diventano ossessioni; in questo ossessivo ripetersi del pensare si finisce col cedere alla tentazione di non doversi mai più misurare -mai più- con nessun altro. Così Lucia amplificava la propria abitudine ad accudire Anna, soprattutto ora che le era stato sottratto Luca.
Anna finì, ancora una volta, con l’assecondarla, ed il rito dell’andare e venire, quell’uscire di casa per rientrare in clinica, e ancora quel rientrare in casa, diedero a Lucia una nuova ragione di vita.
La surroga diventò sempre più esclusiva e a quella maternità geneticamente sottrattale si aggiunse quella funzionale: a Lucia, la madre-non-madre, fu regalato nuovamente un ruolo.
Passarono così diversi mesi e, poco alla volta, strappando e mordendo la vita stessa, Anna fu rimessa in piedi.
Ricominciò a lavorare, ma con molta fatica.
Lucia, anche lei svuotata dall’assenza di Luca, e nonostante questo, era ancora lì, con lei.
La stagione estiva aveva definitivamente ceduto il posto a quella autunnale e questa, a propria volta, si avviava verso un inverno mite.
Anna aveva provveduto a tagliarsi i capelli, ma la sua decisione era stata dettata più da una necessità che non da una vera e propria scelta: nei lunghi giorni di ricovero ospedaliero, cui si erano alternati periodi di riposo a casa, aveva iniziato a provare un certo fastidio nel portarli come un tempo e aveva, perciò, preferito tagliarli cortissimi.
Aveva cambiato luogo di lavoro e si era trasferita in una zona periferica della città, ben lontana dal clamore del traffico rumoroso. Aveva modificato molte delle sue abitudini e non si recava più di fronte al mare come amava fare qualche mese addietro. L’acqua, l’immensità dell’acqua, conteneva, forse, una memoria troppo grande, addirittura incontrollabile, e la routine di queste nuove giornate la affrancava dal dover ripercorrere, sia pure per brevissimi istanti, momenti di dolore.
Lucia si muoveva a proprio agio in questa ritrovata serenità o, per lo meno, così mostrava di fare. Ancora una volta, nella vita di Anna e di Lucia, il regolare svolgersi del tempo tranquillizzava quel tempo. Per ogni giorno che passava, per ogni rientro in casa, come se tra le due donne fosse stato stipulato un tacito accordo, a quel loro antico tacere, si aggiungeva un nuovo ritrovato affetto.

***
In una sera come tante altre, forse solo lievemente diversa dalle altre per via dell’ora tarda, Anna stava lasciando il suo nuovo studio.
Sentì i passi della donna delle pulizie che trascinava svogliatamente un carrello. Decise di chiudere la porta della sua stanza e si allontanò salutando a malapena l’inserviente che sopraggiungeva in quel momento.
Salì in macchina e si accese una sigaretta, avviò il motore e, meccanicamente, imboccò la strada di quella desolata periferia che l’avrebbe ricondotta a casa. Una pioggia sottilissima iniziò a percuotere il parabrezza e, mentre la strada si bagnava rapidamente, Anna azionò il tergicristallo. Non aveva mai notato come il viale che percorreva ogni sera attraversava anche una zona di campagna abbastanza desolata, priva di alberi. Lungo i bordi crescevano arbusti spontanei.
La donna osservava la pioggia attraverso la scia di luce che i fari della macchina proiettavano sull’asfalto, e la sicurezza nella guida la autorizzò a guardare alcune foto che aveva lasciato cadere sul sedile di fianco quando era entrata in auto.
Anna aveva iniziato, sia pure inconsapevolmente, ad accelerare.
Un lampo, un’immagine, qualcosa che attraversava la strada, la pioggia che impediva di scorgere per bene quella cosa che restava lì, ferma, abbagliata dai fari. Il suolo sdrucciolevole e la eccessiva velocità dell’auto le impedirono di frenare adeguatamente e per tempo; la macchina iniziò a pattinare e l’impatto con quella cosa fu inevitabile. Due o tre testa coda, con le foto che svolazzavano da tutte le parti. L’auto, infine, si fermò.
Uscì dall’abitacolo col cuore che batteva a mille, come impazzito, e raggiunse il luogo dell’impatto: a terra c’era una lepre ancora agonizzante immersa in una pozza di sangue che muoveva una zampa posteriore a scatti, come se cercasse di rimettersi in piedi; in realtà, si trattava solo di un movimento meccanico, ripetitivo, in attesa della morte, un’altra morte.
Anna si abbassò guardando a stento la povera bestia che faceva rapidamente i conti con la propria agonia. La pioggia già lavava e portava via da lì la macchia rossa che, velocemente, si spandeva a terra, mentre dal corpo ormai fermo dell’animale saliva del vapore acqueo; l’odore dei peli bagnati, misto a quello della paura, invase l’aria circostante. Anna toccò il sangue e, senza un lamento, vomitò.

Il riposo da sé, quello che acquieta l’anima, non giunge mai ad una conclusione definita e certa se non prima di averlo pazientemente ricercato e, ancora e ancora prima, presagito, preconizzato addirittura. L’elargizione di un premio, pur quando si è stati costretti a sopportare castighi immeritati, e nessun castigo è meritato, non è prevista in questa vita e ciò che appare essere tale -il premio- è soltanto l’espressione di un’illusione, a noi tanto cara, che noi stessi, forse inconsapevolmente, agogniamo.
Così Anna, ora, in ginocchio e davanti alla bestia imbrattata di sangue e morta, mentre la pioggia la bagnava dappertutto, ripiombava nel senso di vuoto che l’aveva pervasa durante tutti i mesi appena trascorsi, vomitando -ora- quello che di sé s’era illusa di aver riacquistato: il suo proprio riposo.
Ancora una volta, quello stesso destino che l’aveva imprigionata in una responsabilità colpevole, quel medesimo destino che aveva regolato con supremo cinismo le distrazioni del suo animo, regalandole dolore, quel terribile dolore, la richiamava all’ordine ricordandole, attraverso la morte dell’animale, che nulla -ancora- si era compiuto.

Il destino è lineare come la stessa vita cui esso appartiene. Era dunque questo il senso di questa nuova morte? Un mero richiamo all’ordine?
Anna parve interpretarlo così.
Un animo debole non può che cogliere segni deboli, insignificanti per i più. Un animo debole è ostinatamente pronto a farlo, e così fu per Anna.
Si era allontanata dal luogo dell’incidente, abbandonando la macchina esattamente nel punto dove s’era fermata, col motore e i fari accesi. Aveva iniziato a correre, dapprima sulla strada, poi, nell’erba bagnata, infradiciata dalla pioggia che non aveva smesso di cadere. Anna si bagnava di quell’acqua senza memoria, senza curarsi di ricordare nulla. Un semplice evento rievocativo sprigionava una forza incontrollabile, così rigorosamente possente, da indurla a dimenticare, nuovamente dimenticare. La morte dell’animale diventava, in tal modo, un debole segno in una serie di tanti possibili segni.
Si inzuppò sino all’inverosimile e cadde più volte nel terreno, ad ogni caduta seguiva un rialzarsi, e gli intervalli tra le cadute e la corsa si accorciarono progressivamente. Il corpo e i vestiti avevano assunto un colore uniforme: fango sgocciolante dappertutto. Infine, si accasciò esausta.
Anna si stupì, per un attimo, soltanto per un attimo, a pensare al limite tra la lucidità e la follia e, in quell’ultima frazione di secondo, ripensò alla distrazione.

La ritrovarono, l’indomani, distesa a terra, faccia al cielo e con gli occhi sbarrati. Lucia aveva allertato il medico che, a propria volta, si era generosamente offerto di accompagnarla in questa spedizione di ricognizione.
Lucia abbracciò Anna, aiutandola a sollevarsi da terra. La fece entrare in macchina, il cui motore aveva continuato a girare al minimo per tutta la notte e quella poca benzina che restava consentì loro, seguite dall’auto del dottore, di fare rientro a casa. Durante il viaggio di ritorno le uniche parole pronunciate furono quelle scambiate, al cellulare, tra Lucia ed il medico.
La linearità di quel curioso destino non era del tutto chiara a Lucia né, tantomeno, ad Anna, oramai definitivamente abbandonatasi ad una incontrollata stasi del vivere.
Il medico decise di salire in casa e, mentre Lucia provvedeva a lavare Anna curandole le abrasioni ed i graffi che la giovane donna si era procurata durante la notte, si accomodò in cucina. Attese, con calma, che Lucia avesse terminato di sistemare Anna nella sua camera. Dopo una breve consultazione, spinto anche dall’insistenza di Lucia, il medico cedette alle richieste della donna: si concordò, perciò, di non ricoverare Anna. Lucia accompagnò il dottore alla porta, lo ringraziò e gli promise che avrebbe accudito giornalmente Anna.

******************
In questa vita si continuava a morire, a procurare morti.
In questa vita, Anna, non riusciva più ad alimentarsi da sola.
La sorpresa, come sempre si è soliti pensare, accade per caso, capita, semplicemente capita. Ed è da questo capitare accidentale che ci si difende: così, Anna, aveva cercato di difendere la propria integrità, sia pure alimentata da uno stato di voluta incoscienza del suo esistere, poiché l’essere era una questione accantonata da tempo, esattamente da quel tempo che aveva iniziato inesorabilmente a fluire dalla morte del bambino. L’animo indebolito, per quanto decisamente proiettato verso la raccolta di segnali esterni deboli, purtuttavia viene assalito da un moto di sorpresa ogni qual volta viene costretto a partecipare attivamente allo svolgersi della vita. L’incidente con la lepre, la uccisione non voluta, mero evento evocativo, aveva determinato in Anna un ritorno all’interno di un destino che lei stessa leggeva come predeterminato. Una perfetta equazione tra gli istanti prima e quelli dopo una morte, poco importando che l’una, piuttosto che l’altra, avessero mostrato interesse verso un bambino o verso un animale; l’unico tratto in comune, l’unico degno di potere essere analizzato dalla donna, era sempre lo stesso: Anna faceva i conti con la propria distrazione e soltanto il suo orgoglio le aveva impedito di soffermarsi troppo sulla apparente distanza relazionale tra l’uno e l’altro evento. Si continuava a morire e si continuava a produrre morti.
La sorpresa cagionava e produceva pause, interruzioni, stati di sospensione. In questo sospendersi la vita stessa si piegava su se stessa e pretendeva coerenza, una coerenza diametralmente opposta a quella che normalmente accompagna la vita medesima. Anna si lasciava morire e lo faceva senza sforzi, poiché ostinatamente indirizzata verso un’unica direzione possibile: la negazione della propria vita.
Lucia, non più semplice spettatrice di queste continue inazioni, accompagnava Anna in questo nuovo e, nello stesso tempo, antico percorso con un obiettivo ben preciso in mente: avrebbe seguito la propria ritrovata non-figlia non permettendole e non permettendo a sé stessa, non questa volta almeno, di distaccarsi dal mondo; Lucia si auto-investiva di un compito arduo, molto ben conscia di dover intraprendere una lotta il cui epilogo, al momento, altro non era se non una lineare, quanto semplice, attività di mantenimento in vita di un’altra persona. Ma, l’altra persona, aveva ricominciato a perdere, così mostrava di fare, il proprio baricentro esistenziale, sbilanciata, com’era, tra un corpo da punire ed un’anima da mettere a riposo. E, in un caso, come nell’altro, vi era da provvedere al nutrimento.

Le ore che adesso Lucia passava in quella casa erano scandite da una serie ripetuta e costante di operazioni assai semplici: rimettere ordine, quel poco di ordine che Anna, in quello stato, richiedeva, preparare da mangiare, discorrere in qualche maniera con la giovane donna sempre più silenziosa. Ma un nuovo rito si era affacciato in questo procedere lento e costante. Lucia aveva iniziato a nutrire Anna, la imboccava. Ogni nuovo giorno un rito.
La ripetizione, tuttavia, non disegna differenze ed è destinata ad alimentare, invece, un nulla fatto di niente. La vera differenza avrebbe potuto riguardare Lucia ed Anna soltanto fino a qualche tempo fa, quando ognuna delle due donne viveva differenti esistenze e diverse funzioni; oggi, non più. Le differenze tra le cose e tra le persone, in questo mondo fatto di persone e cose, segnano una crescita, mentre invece ciò che uccide la crescita, qualunque essa sia, è l’indistinta posizione tra le une e le altre e, ancora, tra le une con le altre. Anna e Lucia si erano perfettamente amalgamate in una funzione che non consentiva loro più alcun tracciato vitale.
Fu forse per questa ragione che Anna, oramai disordinatamente adagiatasi sul niente, con l’inconsapevole consenso di Lucia, si appropriò della propria anima imponendole una reclusione senza termine e senza scadenza, imprigionando il proprio corpo e volontariamente confinandolo in una camera, la sua camera da letto, quasi del tutto priva di luce. Ed era così che adesso Anna passava il suo tempo, mentre Lucia entrava nel tempo di Anna e, senza rendersene conto, prolungava quel medesimo tempo fatto di anime e corpi reclusi. Lo prolungava con le mille attenzioni che dedicava alla giovane donna, con i troppi silenzi che sopportava, con le innumerevoli andate e venute, col cibo che le preparava, con i gesti ripetuti di ogni giorno quando le dava da mangiare, e persino con le troppe domande mai poste poiché fermate sulla soglia del solo pensiero.
Chi fosse tra le due ad alimentare l’altra, chi tra le due compisse gesti più meccanici dell’altra, non era più questione che l’una o l’altra potessero seriamente apprezzare, perché sia l’una che l’altra avevano aderito ad un patto non scritto che prevedeva, come unico scopo, quello di compattare, per sempre, l’una con l’altra.
Anna e Lucia, a loro modo, asserivano entrambe qualcosa. “Io non esisto più”, pareva voler dire la prima, “Io esisto di più”, sembrava volerle fare eco la seconda. Paradossalmente, allo stesso modo, avrebbero potuto porsi domande che le avrebbero condotte nella identica posizione assertiva, e dunque alcun pezzo di questo mosaico immoto si sarebbe mai mischiato e scomposto tanto da ridisegnare qualcosa di totalmente diverso, almeno non così tanto da quello che era. “Perché io non esisto più?”, avrebbe potuto chiedersi Anna, “Perché io esisto di più?”, avrebbe potuto rispondere Lucia.
In realtà nessuna delle due desiderava se non quello che accadeva, cioè, alla fine dei conti, non desideravano niente altro e lo stesso senso del desiderio era un vero e proprio non senso. Qui, il dolore di quel che era accaduto era perfino privo di misura e non necessitava di essere misurato. Le inazioni si sommavano alle inazioni producendo falsi risultati, esattamente come falsi erano i programmi riabilitativi di Lucia nei riguardi di Anna. Un rapporto nevrotico si era dunque impadronito di quella casa, l’appartamento di Anna. Lucia l’abbandonava solo a sera tardi e solo quando era convinta che Anna, distesa sul letto all’interno della sua camera, quella che Lucia aveva ribattezzato la stanza delle penombre, avesse chiuso gli occhi per dormire. Il sonno di Anna veniva salutato dalla tata come un gesto di tenero commiato.
Questo andamento ordinato aveva però finito con il destare alcuni commenti presso gli altri abitanti del palazzo e, nonostante i prevedibili sforzi di Lucia, sempre silenziosa ma garbata nei riguardi dei condomini, più di una persona aveva decretato la malattia mentale di Anna. La giovane donna era diventata in tal modo la “matta del palazzo” e ad una matta si dedicano distratti pensieri di commiserazione che si traducono in inevitabili sguardi di falsa comprensione. Lucia sopportava quegli sguardi e quel dialogo muto che avvertiva ad ogni incontro sulle scale o quando stava per entrare nel portone del palazzo.
La decisione di definitivamente chiudersi al mondo esterno era stata presa anche a seguito dello sfortunato incontro tra Lucia e l’agente di Anna. Max, infatti, non aveva manifestato alcun genere di interessamento verso la sfortunata serie di avvenimenti che avevano annientato la vita di Anna ed anzi, quasi a volersi difendere dietro ad uno scudo fatto di cinismo, aveva invitato Lucia a non farsi mai più vedere lì per chiedergli cose che lui non sapeva gestire. La comprensione umana, quella vera, quella che di solito viene elemosinata quando si vive affacciati ad un baratro, non viene quasi mai regalata e l’elemosina della stessa comprensione procura in chi deve prodursi in un’offerta un senso di repulsione. Lucia non aveva reagito duramente ma aveva abbandonato lo studio dell’agente provando un sentimento per lei nuovo, sconosciuto. In quel momento, ma anche adesso che rientrava a passo svelto verso l’abitazione di Anna, avrebbe ucciso Max. Si stupì di se stessa ma continuò a coltivare quella emozione immaginando di dover eseguire una vendetta per salvare Anna. In questo attorcigliarsi pensieroso assunse la decisione di sbarrare il passo al mondo esterno, quello che con lei e con Anna non c’entrava più e la decisione fu favorita anche dal non doversi confrontare con Anna, né le avrebbe mai comunicato del suo incontro con l’agente. Si guardava le scarpe mentre camminava e si fermò ancora a pensare al senso di rabbia che aveva provato nei riguardi di quell’uomo. Avvertiva dentro di sé un profondo senso di ingiustizia. La rabbia, che aveva saputo controllare, era scattata nel momento in cui Max aveva mosso una serie infinita di accuse nei confronti di Anna: il bambino era morto a causa della leggerezza della donna che mai avrebbe dovuto portare Luca in palude; inoltre, l’agente aveva provato ad insinuare nella testa di Lucia un gravissimo atto di accusa: in fondo Anna non era mai stata la mamma di quel bambino e l’attuale stato in cui versava era solo da imputarsi ad un senso di profonda inutilità che nulla aveva a che fare con la perdita stessa. Parole durissime e sciocche, troppo dure.
Adesso Lucia osservava la sua immagine riflessa in una vetrina. Anche se l’inverno era insolitamente mite, aveva ugualmente deciso di indossare un cappotto. Non era contenta di quella donna cinquantenne che la guardava dal vetro. Ingrassata, con gli occhi velati da una stanchezza eccessiva, si scopriva invecchiata anzitempo. I suoi abiti erano logori, come logora era la sua anima. Decisamente l’incontro con Max non era servito a nulla: né ad Anna, né, tantomeno, a lei. Un altro pensiero le attraversò la mente, come se un meccanismo di difesa dovesse necessariamente tenere testa a quella immagine riflessa, un pensiero semplice, di quelli che aiutano a sopravvivere poiché riempiono: era arrivato il giorno in cui doveva telefonare al medico per relazionargli sull’andamento della malattia di Anna. Assunse la decisione di farlo subito. Una brevissima telefonata, mentre stava per raggiungere il portone servì a tranquillizzare il dottore, sebbene lui non potesse intuire, dalla sola voce di Lucia, le molte bugie raccontate sull’effettivo stato di salute della giovane paziente. Lucia curò di non dir nulla circa l’assoluto immobilismo mentale dal quale Anna mostrava di non voler emergere.
Aveva lasciato Anna che ancora dormiva. Di solito la mattina di Anna trascorreva tra una dormita e l’altra. Lucia imputava tale comportamento alla sola depressione che invadeva ogni azione della donna.
Un fugace incontro nelle scale del palazzo con l’inquilino del piano di sotto, un uomo rude, molto silenzioso, che viveva con l’unico figlio, tale Andrea, chiuse quella prima parte della giornata nel mondo esterno.
Prima di chiudersi la porta alle spalle, Lucia avvertì provenire dal di sotto una voce da adolescente che protestava contro qualcosa. Imputò la cosa ad una banale lite tra padre e figlio. Pensò a quanto sarebbe stato bello poter sentire la voce di Luca e lo immaginò adolescente come quell’Andrea.
L’appartamento, come sempre, era silenzioso.
Anna era in piedi nella cucina, appoggiata allo stipite della porta, e fumava lentamente una sigaretta. Era seminuda ed indossava una vestaglia leggera. Lucia le guardò i piedi. Aveva una sola calza di lana. Guardò meglio la donna e notò che le braccia recavano vari segni. Le domandò cosa fosse accaduto ma conosceva già la risposta: aveva sorpreso altre volte Anna mentre si graffiava furiosamente il corpo in preda a quelle che Lucia poteva solo definire crisi. Le si avvicinò e la prese per mano. Anche così si compiva un rito: le avrebbe curato quelle ferite e poi, dopo aver preparato da mangiare, l’avrebbe imboccata. Forse la gente aveva ragione a pensare ad Anna come ad una matta. Lucia, però, non si fece tormentare dal quel pensiero cattivo. Riportò Anna in camera e le chiese di attendere fino a quando non avesse terminato di cucinare, poi, si sarebbe dedicata a lei. Anna la guardò con espressione serena e parve persino annuire.
La giornata passò abbastanza velocemente.
Lucia non raccontò, come s’era ripromessa di fare, né dell’incontro con Max, né della telefonata al medico. Sopportava il peso di quei segreti senza dimostrare alcuna sofferenza, ma vanamente sperando di poterli raccontare ad Anna. Un altro giorno stava per concludersi ed un’altra notte avrebbe accolto Anna. La metamorfosi del niente aveva assunto toni di sicurezza estrema e, come ogni sera, era destinata a tranquillizzare Lucia che lasciava quell’appartamento nello stesso identico silenzio della mattina. Anna si era addormentata. Così sembrò a Lucia.

***

“Che odore ha questa notte?un odore ed un sapore molto simile a questo pavimento che amo leccare, sì amo leccarlo e berlo e sentirne il fresco sulla pelle, anche questa mia pelle lacerata, di questo corpo che mi imprigiona e che lo ha fatto senza che io lo autorizzassi. Lo punisco, mi piace punirlo, poiché così ascolto meglio la mia anima che desidera parlarmi; ma è una lingua a me sconosciuta, non la riconosco più, né più la ricordo. Mio dio, mio dio, mio dio…sento ancora le voci, cosa dicono, cosa? Voci che salgono e che chiedono di essere ascoltate, come quelle che sentivo in un posto che non riesco a ricordare. Ricordo il bianco, io stessa vestita di bianco, corridoi lunghissimi, gente vestita di bianco che parlava in silenzio e quelle voci che dicevano qualcosa ma non desideravano essere ascoltate. Queste sì, queste lo desiderano, lo so. Ah mio dio, la mia bava è calda è memoria che scorre via. Una memoria che non voglio, eppure così violenta, mi bussa da dentro, bussano anche queste urla, queste voci. E sono violente, come la mia memoria che non voglio. Una voce, una persona, urla, un pianto. No, non piangere, non piangere! Mio dio, mio dio, mio dio, aiutami a leccare questa mia preda, questo mio pavimento, non aiutarmi a ricordare altra preda che non sia questo marmo, regalami l’impossibilità di ricordare, fallo per sempre, mio dio, mio dio, mio dio, aiutami a sentire solo queste voci che ogni notte vengono su a trovarmi, fammi questo regalo, non orientare altro sguardo su di me che non sia funzionale a questo, affrancami da un dolore che sento di aver già conosciuto, non guardarmi, non guardarmi, non farmi essere tua figlia; figlia, madre, nutrice, figlio, bambino; mio dio, mio dio, mio dio, aiutami a distrarmi, regalami la distrazione, una dimenticanza in cammino senza fermate, un dimenticare distratto, ancora e ancora più forte; lecco, sì, lecco…e ora,…ascolto e poi,…finalmente riposo,…scordo, ancora, in questo perenne presente fatto di buio. Batto le mani sul pavimento senza respirare, si accorgeranno di me, le voci se ne accorgeranno, chiedo loro di essere più chiare, devo sentire, devo ascoltarle, le chiamo. Batterò piano però, accostando l’intero palmo delle mani a terra, le faccio aderire sulla traccia umida della mia bava, un contatto con me stessa, con quello che di me sta lì e lì deve restare. E’ la voce di un bambino, no, non può essere, ma il pianto, quello sì, è di un bambino, un pianto acuto, stridulo. Cos’è stato? Non parlano più, c’è silenzio, adesso c’è il silenzio..”

***

Anna passava le notti ad ascoltare e ascoltava i silenzi in attesa che i silenzi stessi venissero rotti dalle voci. Le pause erano più frequenti dei suoni, ma poco importava, poiché lei aveva imparato ad aspettare. Nascondeva dentro sé il segreto di queste voci che venivano a trovarla ed ogni notte insonne era abitata dalle voci che salivano dal pavimento della sua camera.
Quella notte, però, i silenzi erano stati più lunghi del solito ed anzi dopo un ultimo urlo, poi diventato pianto, non avvenne più nulla. Le voci s’erano spente, ma non acquietate. Ora si sentiva un flebile respiro, ed Anna, con l’orecchio ancora schiacciato sul pavimento, avvertiva un suono diverso da quelli di tutte le altre notti. Si alzò da terra e seguì quel suono, quel respiro lento ma cupo. Il suono proveniva dalla porta. Raggiunse l’ingresso e rimase immobile. Sentiva benissimo, là fuori c’era qualcuno. Accostò l’orecchio alla porta trattenendo il fiato. Ancora quel respiro.
<<Apri per favore, apri, lo so che stai là>>
Era una delle voci che ascoltava ogni notte, era la voce che aveva pianto, e anche stavolta parlava piano, senza tono, era solo un sussurrìo.
Decise che non avrebbe parlato, sebbene avesse maturato l’insolita curiosità di conoscere quanto accadeva oltre quella casa. Si limitò, pertanto, a tenere l’orecchio premuto sul legno della porta. Sudava, era fortemente emozionata e, a stento, tratteneva il proprio affanno.
Pareva che la voce continuasse a parlare ma Anna non riusciva a percepirne le parole.
Comunque decise di non aprire. La voce, là fuori, tacque.
“In fondo, siamo come le formiche. Ci si avvicina al <diverso>, a colui che soffre, non per rassicurarlo o consolarlo, ma soltanto per rassicurarci e consolarci e capire quanta diversità dal <diverso> ci divida…ancora e capire se tenerlo con noi, o se, invece, definitivamente allontanarlo da noi, poiché pericoloso, per noi, troppo diverso, con altri odori e altra chimica, non più quella della colonia. Siamo come le formiche che si avvicinano a quella ferita, non più utile alla colonia, non più in grado di farsi riconoscere, e come le formiche strisciamo, curiosi, frenetici, solo per rassicurarci, pur odiandoci nella nostra esistenza tutta uguale”.
Così Anna pensava di sé e così pensava del suo passato lontano, scomparso e non più rintracciabile.
Essere stata una formica, una delle tante formiche, tutte uguali, il pensiero di essere stata una fra quelle, oggi la affrancava e, nello stesso tempo, la tormentava, come quella voce che adesso era scomparsa. Probabilmente “la voce” era un’altra formica, capitata lì per rassicurare se stessa e non certo per consolare lei, la matta del palazzo. Un pensiero che, però, la induceva a riflettere, abbandonando, da ora, da quel momento, il suo essere morta.
Ritornò in camera, nutrendo la speranza di poter sentire le voci del piano di sotto. Una linea sottilissima di un confine incerto si stava disegnando nella mente di Anna. Per la prima volta, dopo mesi trascorsi nel nulla, veniva invasa da un’attesa, sebbene si trattasse di un’attesa solo appena disegnata, come uno schizzo appena tracciato su di un foglio di carta.
Tenne ben stretta al cuore la sua proiezione del domani e si lasciò cadere sul letto. Per quella notte dismise la sua abitudine di strisciare sul pavimento. L’attesa, la sua attesa del giorno dopo, erompeva con disordine nei suoi riti notturni iniziando a scardinarne il ritmo. Ora, una nuova melodia, sia pure soltanto accennata, entrava invasivamente nella piatta orchestrazione della donna.

Ci si abbandona al nuovo, ma unicamente quando il tempo del nuovo è arrivato. In questo rincorrersi, il tempo ed il nuovo paiono non incontrarsi mai, si sfuggono -quasi- animati da una volontà a loro stessi estranea; eppure, poiché il destino decide anche di questi appuntamenti, il destino di Anna aveva stabilito che l’uno e l’altro dovessero incrociarsi senza più sbavature. In questo universo fatto di formiche, come pensava Anna, anche lo scorrere del tempo segnava l’ineluttabile, una forza cui siamo destinati a non poterci sottrarre. Alcuno sforzo può infatti aiutarci a deviare da un percorso già tracciato. Quello di Anna, segnato dal dolore, adesso iniziava a colorarsi d’altro. Anche lei, in cuor suo, quel cuore all’interno del quale nulla era più da tenere stretto, quel cuore fatto di pavimenti da leccare o verso cui strisciare, quel cuore fatto di mezze verità neppure raccontate a Lucia, intuiva quanto stesse incominciando ad accadere. La novità della voce fuori dalla porta del suo appartamento la incuriosiva. E quanto potesse provare repulsione verso la curiosità medesima non era più affare da analizzare. La curiosità era il mezzo necessario per uscire. Uscire, sì, cercare almeno di farlo. Scappare anche unicamente attraverso l’ascolto delle voci che urlavano lì sotto.
Decise, pertanto di non parlarne a Lucia. D’altro canto, non avrebbe compiuto alcuno sforzo. La facilità di quei riti, il suo e quello di Lucia, la naturalezza attraverso cui il loro comportamento si snodava in quella casa, avrebbe agevolato il tutto.
Il mattino seguente Lucia provvide, come al solito, a rimettere ordine nell’appartamento. Certo, lo si sarebbe potuto definire un ben strano ordine. Ciò che di disordinato vi era lì era rappresentato solo dal pensiero delle due donne: quello di Anna, lo era di sicuro. Il pensiero di Lucia era invece concentrato su quello di Anna che, però, nulla lasciava trapelare di sé. In questo reciproco accettarsi scorse la giornata, intervallata da una telefonata di Lucia al medico: gli chiedeva un consiglio su come cercare di entrare nella testa di Anna per cercare un minimo dialogo. Un segno di lieve cedimento da parte di Lucia che però venne lasciato scivolar via anche grazie alla laconica risposta del dottore che liquidò il tutto con la più tipica delle frasi. “il tempo risolverà le cose”.

Il tempo, già. Ognuna di loro aveva e possedeva un proprio tempo. E il tempo di una non coincideva con quello dell’altra. Nella finzione di un rapporto, persino nella finzione di esso, nessun tempo è simile ad un altro. Ma, poiché si è abituati a rappresentare la propria realtà, commisurandola a quella degli altri solo in funzione della nostra, ci si affida ad un concetto di tempo universale. Un errore che siamo destinati a pagare proporzionalmente a ciò che siamo disposti a credere, meglio, alla quantità di rappresentazioni che ci appartengono. Così Lucia, commisurava il proprio tempo -quello dell’attesa- a quello di Anna, passando attraverso il filtro della propria attesa e non mai da quello di Anna.

Anna attendeva la notte e questo era il suo tempo. Il percorso della sua espiazione per la perdita del figlio era giunto al suo proprio culmine, esso coincideva con l’ascolto delle voci. Così, arrivò anche un’altra notte.
“Sei un frocio di merda…”
Questa volta le voci erano chiarissime. Anna, appiattita sul pavimento ascoltava.
La voce così chiara apparteneva ad un uomo. L’altra, quella più giovane, non si sentiva, non ancora.
“Perché non vai via da qui..”
Sempre lo stesso timbro di voce. Anna era concentratissima.
“No…non farmi male…non urlare..”
Stavolta aveva parlato l’altra voce, ed era quella di un ragazzo. Un tono leggermente stridulo. Le voci non erano più confuse. I rumori là sotto erano intensi, ben scanditi. Si sentivano volare sedie, o forse erano mobili che venivano spostati. Un’energia enorme, di quelle che covano per molto tempo sotto la cenere, si stava scatenando senza sosta.
Anna iniziò a tremare.
Poi, improvvisamente, più nulla.
La pausa durò molto, forse troppo. Il silenzio era diventato pesante. Anna decise di alzarsi da terra e si recò automaticamente verso la porta, poiché sapeva che lì avrebbe trovato una delle due voci.
Come la prima volta, con molta cautela, accostò l’orecchio alla porta. Sentiva distintamente un respiro, un pianto sommesso, silenzioso. Era il pianto di un bambino. La voce piangeva trattenendo il pianto e Anna poteva immaginare l’immane sforzo che la voce compiva nel respirare a fatica, tra un singulto ed un altro. Le salirono le lacrime agli occhi poiché immaginò il viso di un ragazzino impaurito e pieno di dolore.
“Apri,…per favore…”
Anna piangeva assieme a quella voce spaventata e braccata. Fu un attimo. Girò la maniglia e arretrò di qualche passo. Le luci in casa erano tutte spente. Fuori sul ballatoio era il buio.
Anna si infilò una mano in bocca per non urlare. Era spaventata da quel tempo -nuovo- che le cadeva addosso, senza ritegno, furtivo, improvviso.
La voce entrò in casa tirando su col naso.
La donna capì che si trattava di Andrea, il ragazzino che viveva col padre nell’appartamento sotto al suo.
Andrea, che faceva la sua comparsa come un ladro nella vita di Anna, un novello mercurio impertinente, si chiuse la porta alle spalle. Erano in piedi, uno di fronte all’altra, senza dire una parola. Si studiavano.
Lui si mostrò meno impaurito di quanto apparisse e si recò in cucina dimostrando di conoscere l’ubicazione precisa delle stanze dell’appartamento. Forse, si muoveva istintivamente. Anna lo lasciò fare ma non lo perse d’occhio. Lui aprì il frigo e prese del cibo. Iniziò a mangiare senza dire una parola. Anna continuava ad osservarlo.
“Tu sei la matta, vero?..”
Anna lo guardò incuriosita e si limitò a fare un cenno con la testa, come a voler rispondere di sì a quella che non era una domanda ma, inevitabilmente, un’affermazione energica. Le venne da sorridere.
Il ragazzo continuava a mangiare e si guardava attorno.
Anna entrò in cucina e decise di sedersi.
“Prima o poi…lo lascio quello stronzo…”
Il riferimento era al padre di Andrea e Anna si stupì ancora nel rispondergli di sì.
Osservava quel ragazzo, poco più che un adolescente, e riusciva a scorgerne i tratti del volto nella semioscurità della stanza. Lui continuava a parlare gesticolando e riempiendosi la bocca con tutto ciò che aveva trovato nel frigo. Parlava della musica che ascoltava, dei suoi amici, quelli che non piacevano al padre. Non parlava mai della madre, un ricordo rimosso, forse, o mai esistito. Aveva quell’irruenza tipica dei quindicenni. Anna ne restava come ipnotizzata e, nello stesso tempo, divertita, lo lasciava fare, lo lasciava parlare, gli rispondeva a cenni.
“Non mi sembri una matta, però..”
Anna sorrise.
Andrea finì di ingozzarsi e, senza dire una parola, si diresse verso la porta. Sgusciò via dall’appartamento come un ladro, in silenzio ma le fece capire che sarebbe tornato presto a trovarla. Anna non ne rimase sorpresa, quasi se lo augurava.
Rimase sola a pensare, il suo animo era alleggerito, così lo sentiva. Assecondò quella sensazione facendola penetrare ben bene dentro di sé e, per la prima volta dopo un enorme lasso di tempo trascorso nel niente, si addormentò nel suo letto. In un sonno senza sogni si lasciò completamente andare ad un riposo.

********

“Il tempo del nuovo” penetra più facilmente dentro un corpo che è privo di qualunque difesa, e lo fa senza chiedere permessi, entra e basta. Nessuna ribellione, d’altro canto, servirebbe alla bisogna, e poiché il tempo del nuovo non tollera le ribellioni, conosce e sa bene dove entrare, non ha bisogno di lottare, il suo campo di battaglia è completamente aperto.
In Anna si poteva entrare senza offrirle alcuna possibilità di riflessione. Il destino le aveva portato Andrea ed Andrea le rubava il tempo proponendole, però, un altro tempo ancora, fatto di novità a lei sconosciute, sino a quel momento.
Anna lo osservava sempre. Lo scrutava quando era da lei e quando era in strada a parlare con qualche amico. Si affacciava alla finestra della sua camera e si faceva rapire dal vociare di quei ragazzi. Immaginava il loro parlare e si faceva aiutare dal loro frenetico gesticolare. Quasi ogni sera Andrea veniva a trovarla e Anna lo ascoltava. Pian piano il ragazzo cominciò a farla mangiare, sia pure imboccandola. Non le faceva domande e, pur nella sua irruenza giovanile, mostrava di conservare una riservatezza che nemmeno Lucia, pur estremamente rispettosa del silenzio di Anna, riusciva a fare del tutto.

Nelle notti successive le voci, quelle voci che avevano ridestato in lei una insolita forma di curiosità, non si erano più sentite. Evidentemente le visite notturne di Andrea servivano al ragazzo per smussare un po’ gli angoli del suo difficile rapporto col padre.
Il curioso rapporto fatto di silenzi e di ascolti durava da qualche tempo. Anna e Andrea erano entrati in una suggestiva forma di intimità.
Il tempo del nuovo si dimensionava sempre più in una sorta di tempo della espiazione, così pensava Anna. La sua espiazione era fatta di cose senza programma, Andrea era senza programmi, lei lo era. Espiava senza programmi, pagando solo il prezzo della non conoscenza del poi, non curandosi affatto del dopo e del prima; viveva il presente per quello che era. Andrea, però curiosamente, riusciva a scuoterla. Il novello Mercurio, come amava pensare di lui Anna, le rubava le sue attenzioni e le forniva messaggi, indicazioni, senza mai forzarla. Mercurio possedeva la scaltra e fascinosa abilità -inconsapevole, poiché innata- del ladro. Anna ne era compiaciuta. Espiare a questo modo, sebbene in un vuoto purgatorio esistenziale, le appariva insolito, persino impossibile. Tuttavia, non era guardinga, non era attenta, semplicemente si fidava di Andrea, si affidava a Mercurio e si lasciava condurre.

Sorprendersi a contare le ore di un’intera giornata è un sorprendersi con poco, comporta del tempo da impiegare e quel tempo non fluisce nella stessa maniera di chi, invece, questi conti non li fa, o non può farli.
Piccoli segnali anche questi.
Anna contava il tempo durante le ore del giorno, avendo invertito l’ordine biologico naturale della vita, e attendeva la notte.
Il singolare incontro con la voce giovanile del piano di sotto, e la successiva conoscenza con Andrea, l’avevano ricondotta verso un meccanismo vitale, ancorché solo accennato, piuttosto insolito. Le apparenti sensazioni di movimento che gli incontri notturni col ragazzo le restituivano, sembravano dovessero condurla in un nuovo capitolo narrativo. Di certo, se fino a quel momento Anna si era sottratta a qualunque azione, ora, per contro, si lasciava trasportare in un solco garbato e gradevole. Aveva accettato, senza un motivato perché, che quel Mercurio segaligno e logorroico la prendesse per mano e ciò era accaduto poiché Andrea possedeva l’abilità innata di essere invasivo pur senza mai superare il limite della riservatezza.
Lui parlava di sé e accettava i silenzi di Anna che, a sua volta, semplicemente, l’ascoltava.

***

La vita di Anna si stava progressivamente riempiendo di segni cui lei attribuiva i più vari significati senza comunque cercare di fornire loro un ordine complessivo. I segni galleggiavano nella sua mente ma Anna non era ancora in grado di collocarli in un mosaico di senso compiuto e, probabilmente, il mosaico non esisteva, non ancora.
L’espiazione per una vita passata prima attraverso l’inazione, poi, penetrata nel terribile dolore della perdita del figlio – un dolore reso ancora più acuto dal rimorso della sua precedente non-vita -, assumeva un solo sapore: il possedere una consapevolezza istantanea di segnali che si affacciavano nella sua vita, ma non avere ancora un metodo che le consentisse di capirli nella loro interezza. Per il momento, perciò, Anna continuava a non badarci più di tanto e, d’altronde, non poteva che scegliere di procedere così, poiché nessuno le aveva insegnato il “come” fare.

Quella notte aspettava l’arrivo di Andrea con una carica di attesa più intensa rispetto alle volte precedenti. Il ragazzo, però, non salì da lei. Anna riuscì a scorgerlo per strada e le parve di vederlo mentre baciava un suo amico che era venuto a prenderlo. Poi, a bordo di un motorino, i due si allontanarono. Anna catturò quelle immagini senza caricarle di colori ed emozioni, come se le avesse realmente fotografate.
Passeggiò pigramente per la casa, trascinando i piedi nudi sul pavimento, entrò per un attimo in cucina per osservare il frigorifero che sarebbe rimasto chiuso, poi, rientrò in camera sua. Nel silenzio, si distese sul letto ben sapendo che nessuna voce avrebbe attraversato la sua stanza. Si addormentò mentre ancora guardava il soffitto bianco della camera.
Quella notte, Anna, sognò.

Il mare, l’acqua, la memoria dell’acqua, tornarono nel sogno di Anna. I ricordi che aveva preordinatamente provato a cancellare rientravano prepotentemente nella sua testa senza bussare a nessuna porta.
Il sonno di Anna era nervoso, agitato, ed era un dormire sudato nonostante il freddo della stagione.
Guardava sé stessa ma riusciva, nello stesso istante, ad entrare nel suo corpo, come se in questa dimensione onirica riuscisse a duplicarsi.
Vedeva un bambino, né troppo piccolo, né troppo grande, e il bambino le parlava, era lì per rivelarle un segreto; lei lo capiva a tratti e sapeva di potersi fidare di lui. Passeggiavano assieme in uno stagno con pochissima vegetazione attorno. Il ragazzo-bambino teneva con sé una coperta ed era sorridente mentre continuava a parlarle. Il paesaggio attorno cambiava di continuo ed ora camminavano su di una strada di campagna, l’ambiente circostante respirava in silenzio ed era diventato buio. Il suo giovane accompagnatore le indicò qualcosa allungando una mano per meglio mostrarle cosa fosse. Aveva smesso di sorridere.
Per terra, sulla brecciolina bianca, c’era il corpo di un cane che li guardava, mentre continuava ad annusare l’aria, ma il cane era morto. Dal ciglio oscuro fece la sua comparsa un uomo in divisa. Era armato. Il nuovo arrivato aggredì il ragazzo. Anna intervenne con cautela per cercare di calmare l’uomo che, invece, la colpì con un ceffone. Iniziò a piovere e l’acqua lavò via tutte le immagini, come se un solvente fosse scolato provvidenzialmente su quel disegno scuro e ne stesse rimescolando le linee. I colori si trasformarono in strisce sino a scomparire del tutto. Anna iniziò a piangere. Il ragazzo era diventato un bambino che, ora, in piedi davanti a lei, le sorrideva ancora. In mano aveva un giocattolo di plastica. Anna lo prese in braccio, l’annusò e, nel sogno riconobbe un odore. Il pianto della donna divenne più morbido, più lento e sommesso. Un senso materno l’aveva catturata ed invasa. Il bambino, ridiventato ragazzo, la baciò su di una guancia. Lo sentì sussurrare “andiamo via” e sentì sé stessa rispondergli con voce flebile “portami via”.

Si svegliò completamente bagnata di sudore in un letto disfatto, avvolta nelle lenzuola e con i pugni serrati.
Guardò l’orologio poggiato sul comodino e lesse l’ora: erano ancora le sei del mattino e Lucia sarebbe arrivata tra un paio d’ore. Anna decise di restare a letto e richiuse gli occhi nel tentativo di riacchiappare quello strano sogno, ma riuscì solo a focalizzare il proprio pensiero intorno all’idea delle testimonianze della vita, non sorprendendosi affatto del suo rimuginare sulla esistenza di un dio delle testimonianze, di quelli che stanno lì a scrivere libri destinati a non essere mai letti se non dopo la morte dei destinatari di quegli scritti. Continuava a sognare, ma era in un altro sogno.
“Forse, son proprio la matta del palazzo..”.
Si risvegliò ancora per riaddormentarsi un attimo dopo, con in testa l’idea del dio delle testimonianze e col pensiero di non voler più appartenere a quella colonia di insetti cui, di fatto, era appartenuta. Aveva, però, bisogno di conoscere un ordine, uno nuovo, un ordine diverso.
Più che un insetto, si sentiva un serpente costretta, suo malgrado, a cambiare continuamente pelle. La cosa, tuttavia, la rassicurò, coccolandola nel sonno appena recuperato.

Lucia entrò nel silenzio dell’appartamento e iniziò a muoversi con grande cautela per evitare di svegliare Anna. Sbrigò velocemente le faccende domestiche quotidiane, rimettendo ordine qua e là, secondo un proprio personalissimo ordine mentale, ben convinta del fatto che Anna non si sarebbe neppure accorta del suo passaggio in quella casa.
Trascorsero un paio d’ore, quindi, dopo aver preparato qualcosa da mangiare e averla riposta nel frigo, uscì per fare un po’ di spesa.

Anna si svegliò, forse a causa del rumore della porta che Lucia si era tirata alle spalle. Attraversò con misurata lentezza la sua camera e si diresse in cucina per sorseggiare del caffè. Osservò con attenzione una macchia allungata che si era formata sul vetro della finestra. Era una macchia di condensa. Le ricordò la forma di un serpente. Si ricordò del sogno e lo ripercorse mentalmente all’indietro fermandone alcuni momenti.
Il suo umore si fece cupo e desiderò fortemente un cambiamento. Ripensò ad Andrea, a Mercurio. Raggiunse la stanza da bagno con ancora in mano la tazzina del caffè e, dopo averla poggiata sul bordo del lavandino, iniziò a lavarsi i denti. Alzò lo sguardo e guardò la propria faccia riflessa nello specchio. Resto lì, sospesa, ferma, quasi trafitta, con la schiuma del dentifricio che le scolava da un angolo della bocca; gli occhi spenti, privi di espressione, neanche attoniti, semplicemente vitrei.
Cominciò a pensare ai legami, a quelli chimici, a quelli fisici, emozionali, pensò ad ogni genere di legame, a quelli che uniscono un seme alla propria radice o a quelli che collegano le molecole e, ancora, ai legami tra le persone, a quelli che tornano come se fossero stati già scritti o riscritti, come se qualcuno li avesse già segnati per noi, ripensò agli errori, ai legami che si ripetono, perché errori che si ripetono. Pensò a sé stessa e ai suoi legami, a quelli dimenticati o fatti dimenticare, a quelli nati per essere dimenticati, pensò a Max il suo agente; pensò a Lucia, la sua solerte madre-non-madre, un altro legame diventato spigoloso poiché troppo silenzioso, intriso di cose, troppe cose, non dette. Desiderò ancora un cambiamento e pensò ancora a sé stessa, infine, a Luca.
Lo specchio, adesso, le restituiva un volto rigato di lacrime. Del muco le scendeva dalle narici. Passò il dorso della mano sul naso e si ripulì alla meglio, compiendo un gesto che aveva fatto mille volte da bambina. Pensò ancora a sé stessa e, ancora, ad Andrea.
Uscì lentamente da quella specie di incubo ad occhi aperti, un incubo privo di sussulti, un sogno dolce ma drammaticamente vero, uno di quelli che si insinua dentro come se fosse un serpente. Ancora una volta ripenso a sé stessa e si rivide serpente, costretta a cambiare pelle per sopravvivere, per crescere e per lasciare in quel secco simulacro di sé l’impronta di sé e della propria memoria.
Ritornò in cucina per bere dell’acqua ma, subito dopo, avvertì la necessità di vomitare. Lo fece, sbavando nel lavello. Stordita, rientrò nella sua camera da letto per osservare la vita là fuori, oltre la finestra. In strada non c’era nessuno. Appoggiò la fronte sul vetro della finestra sperando di poter vedere Andrea. Stette lì qualche minuto, poi, colta da una forma di impazienza, si diresse nuovamente in bagno. Si denudò completamente, entrò nella vasca da bagno e si accovacciò. Orinò e guardò lo scorrere della sua urina che veniva catturata dal chiusino di scolo. Pianse ancora, conservando la sensazione di dover abbandonare quella vita, di volerlo fare.
Il tempo del cambiamento, il tempo del nuovo, l’aveva pervasa completamente. La sua anima era pronta. Così, riteneva Anna. Ma, adesso, viaggiava in un’ampolla fatta di “se” e di “ma” cui si aggiungevano i “poi”, i “perché”. In questo spazio di particelle, ove ogni particella aveva un suo spazio ed uno spazio le divideva, si facevano strada anche i “poiché”, avverbi pericolosi che preannunciavano una spiegazione, senza che, peraltro, spiegazioni ve ne fossero, ovvero, se esistenti, già tutte impegnate in altre spiegazioni. Un avvitarsi suadente e seducente al tempo stesso, ecco di cosa si trattava, un rigirarsi su sé stessa come se Anna fosse diventata una trottola, un giocattolo la cui spinta inerziale non dovesse mai terminare. Dunque, Anna piangeva del suo essere una sciocca stupida trottola. La consapevolezza di tanto, però, le servì per indurla ad imprimere una controspinta a quel movimento di rotazione senza fine. La trottola, perciò, parve arrestarsi. Anna smise di piangere. Solo un animo ben allenato al dolore esce da un suicidio per non entrarne in un altro e in un altro ancora, e ancora, e ancora, come se questa catena di suicidi la si possa accostare a quelle file lunghissime e apparentemente interminabili di formiche. Anna usciva dal suo suicidio permanente per definitivamente abbandonare quel nido, quella colonia di insetti tutti uguali; da qui, forse, iniziava un suo percorso che l’avrebbe condotta lontano dal suo limbo composto di nulla. In questo purgatorio, ogni presenza umana era una monade.

Fu scossa dal rumore assordante di una motocicletta che si stava fermando per strada. Desiderò con forza di rivedere Andrea. Corse verso la finestra della sua stanza e vide il ragazzo, il suo visitatore notturno, che si accomiatava da un amico. I due, si baciarono per salutarsi.
Anna sorrise tra sé e sperò, in cuor suo, che Mercurio volesse raggiungerla.
Il suono del telefono la riportò alla realtà: Lucia la informava che non sarebbe rientrata e perciò si sarebbero riviste l’indomani mattina.
“Troverai qualcosa in frigo, sempre che tu abbia voglia di mangiare qualcosa…”.
Anna accennò ad un sì e chiuse la telefonata.
Non avrebbe toccato cibo, neanche quella sera.

In questa girandola di poche qualità, di quelle che bruciano lo spirito inaridendolo, Anna continuava a muoversi nelle periferie dell’anima per evitare di essere sfiancata ed uccisa dal nucleo pericoloso della propria anima. Anche il suo apparente muoversi per casa seguiva lo stesso andamento. Lei, in realtà, camminava sulle circonferenze più esterne di cerchi concentrici, come quelli che si formano in uno stagno quando si lascia cadere una pietra nell’acqua morta e limacciosa di certi specchi paludosi.
Le piccole scosse che, negli ultimi giorni, aveva cominciato ad avvertire, forse a subire, ma comunque a ricercare insistentemente, scambiandoli o volendoli scambiare per segnali di rinnovamento, la condussero infine a prendere una decisione. Quel pomeriggio, approfittando dell’assenza annunciata di Lucia e, soprattutto, delle sue possibili e conseguenti domande, Anna sarebbe uscita di casa. Avrebbe fatto quindi due passi nel freddo della città addobbata a festa per il periodo natalizio.

Aprì l’armadio e scelse dei pantaloni pesanti. Indossò un maglione di lana e calzò degli anfibi. Si infilò un cappotto lungo, prendendolo dall’appendiabiti dell’ingresso e uscì. Controllò nelle tasche prima di chiudersi la porta alle spalle e si assicurò che le chiavi di casa stessero lì dentro. Decise di non usare l’ascensore e, scendendo per le scale, scrutò solo per un momento la porta di ingresso dell’appartamento dove viveva Andrea. Anche in quella casa regnava il silenzio. Continuò a scendere e raggiunse il garage. Notò che Lucia non aveva preso la sua auto. Uscì per strada dalla rampa di accesso del seminterrato. Respirò profondamente col naso e rimase ferma ad osservare la poca gente che, a quell’ora del pomeriggio, gironzolava in strada.
E fu la sua prima uscita dopo mesi di volontaria segregazione.
Anna venne assalita dal rumore e dal vociare delle persone, sensazioni dimenticate e nuove poiché seppellite nei suoi ricordi. Camminava piano e, inizialmente, cominciò quasi senza rendersene conto a contare i propri passi, così come altrettanto inconsciamente evitava le linee di divisione tra una mattonella e l’altra del marciapiede, ripetendo in tal modo un gioco che amava fare quando era bambina.
Con una mano infilata nell’ampia tasca del cappotto scuro giochicchiava con le chiavi di casa facendosele passare da un dito all’altro, producendo, così, un tintinnìo metallico ritmato, perfettamente a tempo col proprio passo. Passeggiava senza meta, si mimetizzava o, almeno, così sperava di poter fare. Tutti quei mesi di silenzio erano stati, per lei, anni.
Proporzionalmente ognuno conta, a modo suo, senza farsi condizionare dal tempo di tutti gli altri, quello oggettivo, e sempre che un tempo oggettivo esista. Ed il tempo degli avvenimenti è esso stesso un tempo singolarmente e necessariamente diverso rispetto agli altri, poco importando se poi, in effetti, lo scorrere delle lancette di un qualunque orologio si muova sempre e costantemente nella stessa direzione e sempre e costantemente con lo stesso ritmo. E così, v’è il tempo che non passa mai e quello che passa troppo velocemente; eppure, entrambi i tempi, quello lento e quello rapido, hanno seguito la stessa identica melodia di un qualunque cronometro. In fin dei conti, l’unico vero tempo che conta -suggestive espressioni temporali anch’esse- è quello che affidiamo al nostro pensare, al pensare della nostra anima. Il resto, ciò che rimane, tutto ciò che rimane fuori dal “sé”, scandisce elementari funzioni di vita che regolano unicamente una vita biologica fatta dai gesti del mangiare o del bere o da deiezioni corporali liberatorie che richiedono ancora altri gesti del mangiare e del bere. E tutto questo nulla ha a che vedere con la misura, con il conto di ciò che è stato e di ciò che sarà. Persino il vivere presente, l’attuale, è privo di misura, poiché la misura stessa è pur sempre fatta di un prima e di un dopo relativi.
Anna, non aveva più cercato né un prima, né un dopo e il suo presente era perciò privo di misura, perché la misura stessa esiste solo e se la si può comparare con grandezze ad essa affini. Il tempo di Anna era stato dunque lunghissimo, secondo una misurazione ben comune ai più, quel tipo di misurazione che la gente che le passava accanto dimostrava di ben conoscere.
Un improvviso scroscio di pioggia costrinse Anna a rifugiarsi nel primo negozio che le capitò a tiro. Si guardò attorno e scoprì di essere entrata in un magazzino di frutta e verdura. Fu attratta da tutte quelle forme colorate che stavano ferme, ben disposte ad essere guardate e ben illuminate. I frutti esposti nelle loro cassette parevano tanti soldati in alta uniforme pronti ad essere sacrificati e contenti di farlo. Si impossessò di una mela gialla e se la nascose in tasca senza preoccuparsi di essere vista dal padrone di quel negozio che profumava di dolce. Uscì frettolosamente da lì, provando solo un vago senso di vergogna, con in testa l’idea di voler addentare il frutto appena rubato. Quel gesto assolutamente privo di senso l’aveva però resa euforica. Ora, camminava con un passo più spedito passando vicino ai muri dei palazzi per cercare un minimo riparo dalla pioggia che continuava a bagnare la città. La pioggia, d’improvviso, come se si fosse trattato di un acquazzone estivo, parve diminuire progressivamente.
Entrò in un androne di un palazzo al cui interno si affacciavano le vetrine di due negozi e guardò la propria immagine riflessa nei vetri lucidi e pulitissimi. Si trovò davanti ad una Anna orribile, mascherata da barbone. Sorrise di sé, e lo fece dentro di sé. Prese la mela dalla tasca, la osservò ancora un attimo prima di avvicinarsela alla bocca. Poi, senza volerla più mordere, leccò la superficie liscia del frutto, annusandone la buccia lucida. Non riusciva a morderla e temeva, anzi, di essere assalita da un conato di vomito. Nascose nuovamente la mela in una tasca del cappotto e ricominciò a camminare per strada. Non pioveva più e l’aria profumava di acqua. Raggiunse un piccolo giardinetto nei pressi di una fontana e decise di sedersi su di una panchina anche se era già occupata da due ragazzi. Un ragazzo ed una ragazza, che si divertivano a completare un gioco enigmistico. Anna ascoltava distrattamente la voce della ragazza che leggeva al suo amico le definizioni cui abbinare le risposte nel tentativo di farsi aiutare nella risoluzione di quel gioco.
“..E’ il bastoncino che si scambiano gli atleti durante una staffetta…”
Nessuno dei due era in grado di fornire la risposta corretta.
Anna, meccanicamente, pronunciò la soluzione nel suo cervello. “..testimone…, testimone,…testimone…” ma preferì non dire nulla a quei due che, stanchi di non riuscire a chiudere l’enigma, dirottarono la loro attenzione su altro. Probabilmente dovevano terminare i loro acquisti natalizi. Poco dopo, infatti, lasciarono la panchina e si allontanarono mischiandosi tra la gente che, nel frattempo, iniziava a riempire le strade.
Anna li vide scomparire.
“Testimone”, disse ad alta voce. Sorrise ancora.
Lasciò anche lei la panchina, ma prima di rialzarsi notò per terra un chiodo, uno di quelli grandi e robusti, un tipo di chiodo che viene usato dagli operai nei canteri edili. Lo raccolse e se lo rigirò tra il pollice e l’indice. Si ricordò di una vecchia storia che le avevano raccontato quando era poco più che un’adolescente. Trovare un chiodo significava dover incontrare un uomo, quello della vita. Così le dissero.
Non ricordava di averne mai trovato uno prima d’ora, non era successo nemmeno quando aveva incontrato il padre di Luca.
Con quei ricordi nella testa, si alzò da lì.
Camminando, entrava nelle pozze d’acqua senza preoccuparsi di inzuppare gli anfibi che, ad ogni modo, reggevano bene. Aveva ancora il chiodo in mano. Si fermò e lo fece cadere, piano, in una pozza più grossa delle altre, quasi inginocchiandosi sull’asfalto. Si divertì a vedere il metallo che affondava nell’acqua e che, ora, dal fondo, le mandava deboli messaggi di rifrazione. Un numero interminabile di cerchi concentrici si era formato in quell’acqua scura. Interruppe quel disegno in movimento toccando con un dito quelle evanescenti forme geometriche.
Il pomeriggio era diventato sera e il suo presente si era svolto senza soluzione di continuo, tra un’inezia ed un’altra. Desiderava fare rientro a casa. Avvertiva una curiosa sensazione, come se quel presente non dovesse mai terminare.
Si avviò, serena, verso il suo quartiere, ma non percorse la stessa strada che aveva scelto all’andata. Si infilò, infatti, in un dedalo di stradine e di viottoli del centro storico, calcolando che sarebbe rientrata in casa impiegando un minor tempo rispetto a prima.
Erano trascorsi molti anni dall’ultima volta che era passata da lì e tuttavia non ebbe difficoltà a riconoscere alcuni dei posti che aveva avuto modo di frequentare quando, ancora studentessa, si era intrattenuta con i suoi amici nelle trattorie o nei bistrot che ancora adesso si affacciavano su quelle strade. Camminava in un tipico quartiere studentesco dove si poteva mangiare velocemente qualcosa senza spendere troppo.
Anna era insolitamente incuriosita da tutto ciò che la circondava. La sua serenità cedette pian piano il posto all’euforia. La frenetica amarezza di qualche mese fa, quel tipo di amarezza impaziente che le aveva corroso le viscere, poi, con lentezza sostituita da un’amarezza solida, immobile, rassegnata e impenetrabile, sembrava essersi dissolta. La linearità di quel percorso emozionale, solo ora verificabile poiché solo adesso riconoscibile, e la sorpresa con cui accoglieva quel nuovo stato mentale, la portarono a riflettere, non tanto sull’immediatezza del suo cambiamento, tuttora in atto, quanto piuttosto sull’improvviso ed inaspettato mutamento che, comunque, stava subendo passivamente, lasciandosene attraversare. Non si ribellava, si lasciava condurre da una forza lieve che lievemente mostrava di sostenerla. Coerentemente a quanto aveva già deciso da un pezzo, non avrebbe reso nota la faccenda a nessuno; stabilì, pertanto, di conservare, con scrupolosa gelosia, le sue rinate emozioni, almeno quel brandello larvale di emozioni che provava. Ancora una volta, dunque, Lucia sarebbe stata tenuta lontano da questo. Lucia era estranea al cambiamento stesso. Andrea, invece, lui sì, sarebbe diventato il testimone privilegiato del suo nuovo assetto.
“Mercurio ne sarà contento…”
Anna sorrideva senza più nasconderlo e senza più nascondersi.
La temperatura si era ulteriormente abbassata nonostante la eccezionale mitezza del clima di quell’inverno e Anna avvertiva un freddo più pungente rispetto a quando era uscita di casa. Attribuì la cosa alla definitiva scomparsa di quel poco sole che, subito dopo l’acquazzone, aveva illuminato per un po’ la città. Anche la percezione della temperatura, che aveva il sapore del nuovo, fu salutata dalla donna con una punta di eccitata euforia. Tutto stava accadendo molto rapidamente.
Le parve di ritrovarsi di fronte ad una quantità interminabile di nuove mete; erano traguardi che si spostavano di continuo e che riusciva a raggiungere senza fatica alcuna, senza dover poi mostrare a nessuno i risultati di queste continue ed elementari rinascite.
Piccole cose, piccoli segnali.
La donna sembrava si muovesse all’interno di una specie di curva parabolica ascendente il cui disegno era rappresentato, al momento, soltanto da un’infinita serie di punti, uno vicino all’altro, ma ognuno collegato all’altro. Non avrebbe dovuto fare altro che unire i punti, camminandoci sopra, segnando, passo dopo passo, una linea, immaginando un ordine progressivo in cui avventurarsi.
La si sarebbe potuta definire una visione perfettamente geometrica della vita, priva di variabili significative o di deviazioni improvvise. Il disegno era piacevolmente lineare, così come lineare era la disposizione delle insegne luminose che si trovavano su quella via. Un flusso placido, una corrente lenta di un fiume in cui navigare senza affanno.
Anna aveva rallentato il passo. Il rientro a casa avrebbe richiesto più tempo del previsto. Le era venuta voglia di fumare. Controllò nelle tasche del cappotto per verificare se vi fossero dei soldi dimenticati lì da chissà quanto tempo. Fallito il primo tentativo, la ricerca si spostò nelle tasche dei pantaloni ed ebbe migliore fortuna. Entrò in una tabaccheria ed acquistò delle sigarette, ma non quelle leggere che fumava di solito. Voleva fumare qualcosa di più forte. Aveva dimenticato di comprare un accendino o dei cerini e chiese perciò ad un ragazzo che le passava accanto di darle da accendere. Aspirò profondamente il fumo ed ebbe immediatamente un giramento di testa. Tossì, ma non se ne preoccupò più di tanto ed ,anzi, assaporò il gusto piacevolmente dolciastro di quel tipo di sigaretta. Continuò a fumare rimanendo al centro della strada frequentata solo da biciclette e motorini. Si guardava attorno con una mano in tasca mentre con l’altra reggeva la sigaretta, avvicinandosela frequentemente alle labbra. Fumava velocemente, come se volesse recuperare del tempo, come fosse un detenuto nella sua ora d’aria.
Andava bene così, così le piaceva.
Domandò che ore fossero ad una coppia di ragazze sorridenti. Non aveva fame; come sempre la soglia dell’appetito era assai elevata, quasi inesistente. Era dimagrita considerevolmente in quel periodo di volontaria prigionia passata nel suo appartamento. Aveva chiesto l’ora solo per potersi regolare sul tempo che le rimaneva prima del rientro a casa. Tra il continuare a gironzolare senza meta e l’eventuale incontro notturno con Andrea, per il momento, preferiva stare lì, tra le gente. Qualcosa, ad ogni modo, le suggeriva che avrebbe rivisto il ragazzo. Era una giornata strana. Anna percepiva questa stranezza.
Riconobbe l’insegna di un bistrot. Nulla pareva essere mutato rispetto ad un tempo e fu assalita dalla voglia di entrare in quel locale. Così fece. Si accomodò ad un tavolo vicinissimo all’entrata, forse per assicurarsi un’immediata via di fuga. Si sentiva comunque come una bestia assai guardinga.
I presenti chiacchieravano e ridevano. Ordinò un bicchiere di birra. Anna, unica persona sola ad un tavolo, sezionava con lo sguardo sia l’ambiente, sia la gente vociante. Il proprietario del posto era sempre lo stesso di una volta, solo molto più invecchiato; aveva mantenuto, però, la stessa identica aria furba e fintamente distaccata di un tempo. Come allora, aveva la faccia di una lucertola, di un rettile: dal suo volto triangolare, oggi completamente segnato dalle rughe, spiccavano due occhi ancora vivi e brillanti, scurissimi, come se fossero privi di pupille. Pareva uno di quei tipi che non sono stati abituati a fare sconti a nessuno; cordiale quanto basta per invogliare chiunque passasse da lì a consumare qualcosa, ma, nello stesso tempo, dotato di una fredda e determinata fermezza nel non concedere credito a nessuno. I lunghi anni passati a mescere bevande alla popolazione studentesca che si era avvicendata nel corso del tempo, lo avevano allenato ad essere quello che dimostrava di essere: un commerciante privo di qualunque genere di proiezione che non fosse direttamente ricollegabile alla vendita.
Anna si ricordò di come, insieme con i suoi amici, si era divertita a far cadere delle monete in terra allorché dovevano pagare il conto delle consumazioni e di come il padrone del bistrot seguiva, con lo sguardo, il cameriere addetto al tavolo. Evidentemente il rumore metallico delle monete esercitava su di lui un fascino particolare. Si domandavano spesso come facesse a percepire un rumore così lieve, se rapportato al brusìo incessante del locale, e di come quell’uomo riuscisse a capire il luogo preciso in cui le monete erano cadute. Lei ed i suoi amici scommettevano ogni volta sulle capacità uditive di quel tipo; prima o poi, così si ripromettevano, lo avrebbero messo alla prova facendo cadere a terra una banconota. L’esperimento, tuttavia, vista la scarsezza economica dell’epoca, non venne mai messo in atto.
Ora, Anna, lo rivedeva lì, seduto sempre al solito posto dietro ad un registratore di cassa nuovo di zecca. Lo paragonò ad una tenutaria di una casa chiusa, uno di quei bordelli di cui le aveva tanto raccontato suo nonno. Chissà perché, anche in famiglia, così come in seguito sul lavoro, l’avevano sempre trattata come un maschio.
Anna si stupì di tutti quei ricordi che le venivano su senza apparente collegamento fra loro, ma li lasciò ugualmente galleggiare davanti a sé senza troppe emozioni.
Anche la birra che aveva ordinato, galleggiava, ormai calda, nel bicchiere davanti a lei. Anna non l’aveva minimamente toccata. L’aveva pagata, così rassicurando sia il cameriere, sia il proprietario del locale, ma in realtà, aveva pagato il suo posto al tavolo.
Nonostante i divieti, in quel luogo si poteva fumare ed Anna, senza chiedere permessi, si accese un’altra sigaretta approfittando dell’accendino che le era stato offerto da alcuni ragazzi seduti al tavolo vicino al suo.
Avvertiva una sensazione di protezione e ne ricavava uno stato di benessere.
Lucia non stava bene. I cambiamenti la spaventavano. Non riusciva a gestirli. Era per questo che aveva deciso di seguire Anna non appena l’aveva scorta seduta su quella panchina.
L’iniziale stupore per essersela ritrovata fuori da casa, era stato vinto da una forma di rabbia. Si era sentita beffata. Questo cambiamento non aveva potuto prevederlo, non le erano stati forniti indizi di sorta che potessero aiutarla a presagire quello che, incredula, aveva invece dovuto constatare. Il disagio provato per quella scoperta l’aveva completamente spiazzata.
Il pedinare Anna, l’ultima cosa cui avrebbe potuto pensare, si era rivelato essere l’unico modo per vincere la sua forma di smarrimento, quasi una sorta di sfiducia verso di lei. Perché Anna non l’aveva informata di quella iniziativa? Da quanto tempo usciva di casa e perché non comunicarglielo?
Adattarsi ad un cambiamento non era una faccenda semplice da affrontare, né lo era mai stato per lei. La curiosità aveva quindi quasi costretto Lucia a seguire Anna.
Cosa faceva Anna seduta su quella panchina e cosa aveva detto quando quei due ragazzi si erano allontanati?
Ora Lucia era ferma, sull’altro lato della strada, di fronte all’entrata del bistrot dove Anna era entrata da circa un’ora. Si nascondeva dietro una colonna ed aspettava. La rabbia, la curiosità non la abbandonavano.
Anna uscì dal locale e, senza guardarsi attorno riprese a camminare. Lucia si schiacciò contro la pietra del suo improvvisato riparo temendo di poter essere vista. La seguì mantenendosi ad una certa distanza. Anna non si voltava e percorreva la strada come se stesse passeggiando, con un passo cadenzato e leggero. L’ora trascorsa nel bistrot era stato un tempo troppo lungo per la condizione di Anna. Ciò indusse Lucia a ritenere che Anna aveva sicuramente consumato qualcosa. La sua irritazione si accentuò, tuttavia non ebbe il coraggio di affrontarla e considerò che sarebbe stato meglio parlarle l’indomani. Migliaia di pensieri si affacciarono nella mente di Lucia, non riusciva a darsi pace per quel gesto misterioso compiuto da Anna, e valutò persino che, forse, si trattava di un’abitudine sfuggita al suo controllo, cosa che la innervosiva anche di più. Perché recitare quella parte con lei e soprattutto perché non dirle quanto -chissà da quando- le stava accadendo. Il dottore le aveva detto che il tempo avrebbe risolto ogni cosa, ma mai avrebbe potuto immaginare che il tempo avrebbe condotto Anna ad allontanarsi da lei.
Era questo che era accaduto e che stava accadendo: Anna era lontana da lei.
In questo momento era animata da riflessioni cupe, si affidava al ricordo di ciò che era stato e, soprattutto, al pensiero di quanto aveva ritenuto di poter far vivere ad Anna. Si era dunque lasciata trasportare da un falso -rinnovato- entusiasmo, esclusivamente funzionale alla vita di chi necessitava della sua presenza e della sua continua assistenza. Lucia si era concentrata, di certo ossessivamente, su di un unico obiettivo. Ciò che non le aveva garantito, ne aveva la consapevolezza adesso, alcuna possibilità di evasione positiva dalla scoperta appena fatta. Aveva fatalmente sbagliato ed il fato, se un fato poteva dirsi esistente, la ripagava punendola con la delusione che provava. Si sentiva inserita in un circuito del sospetto, della non fiducia, costretta, ora e chissà per quanto tempo ancora, a rielaborare un nuovo pensiero di vita, sia per Anna che per sé stessa. Avrebbe dovuto, d’ora in poi, e prima di definitivamente adattarsi a questo imprevisto cambiamento, rileggere in altro modo il tempo già trascorso, quel tempo durante il quale si era convinta di trasportare Anna verso il superamento della vita catatonica in cui la donna si era rinchiusa. Ma la reclusa, in questo tempo, era lei. Evidentemente, quel tempo, era stato impiegato, a sua insaputa -questo era chiaro-, in maniera completamente differente da come aveva orgogliosamente ritenuto che fosse utilizzabile.
La rabbia verso di sé era più poderosa e penetrante di quella che provava per Anna. Si era incamminata in un percorso necessario, quello del proprio perdono, utile per affrancarsi dal disperato stupore da cui era stata ferocemente assalita. Aveva commesso un errore nato da una forma di super valutazione delle proprie capacità. La rabbia, l’ira quindi, esattamente come quella che aveva già nutrito nei riguardi di Max, sia pure per motivazioni del tutto diverse da quelle attuali, era comunque altrettanto difficile da tenere a bada, precisamente come lo era quel clima di “nuovo” che le piombava addosso senza che nessuno le avesse chiesto un parere preventivo in merito. La tenerezza con cui, sino a pochi istanti prima, aveva pensato ad Anna, pareva essere svanita, dissolta. Lucia si rendeva penosamente conto che le emozioni e i sentimenti delle persone verso le persone viaggiavano su binari fragilissimi, ed il tragitto segnato da quegli stessi binari non era mai certo, non lo era mai stato; nessun percorso avrebbe mai garantito una destinazione sicura ed il caso, l’accidente sempre in agguato, distruggeva senza ritegno ciò che di più solido si era indotta a ritenere esistente. E questo, la annientava più di una morte, persino più vigorosamente di una morte.
Anche Lucia, dunque, si era distratta e la certezza del “prima” -il suo “prima”- aveva effettuato una brusca virata, trascendendo in incertezza dell’ “adesso”, per proiettare, infine, raggi bui sul dopo -il suo “dopo”-.
Aveva freddo e batteva i denti. La semplicissima considerazione di non sentirsi più insostituibile acuiva la sensazione del freddo. Vi era, per lei, un tradimento da affrontare. Così, pensava.
Vide che Anna entrava nel portone del palazzo e constatò che le luci della tromba delle scale si erano accese: evidentemente stava per rientrare nell’appartamento.
Restò ancora per qualche istante giù in strada, giusto per assicurarsi che Anna non sarebbe più uscita per quella sera, poi, lanciò un’occhiata alla finestra della camera da letto. Le parve di intravedere un’ombra.
Si allontanò definitivamente da lì, ma prima di andarsene notò che il ragazzo che abitava di sotto stava rincasando accompagnato da un amico. I due si infilarono nel portone, dopo aver parcheggiato il motorino con cui erano arrivati.
Lucia si sentiva triste, delusa e priva di motivazioni, anzi, si sentiva usata. Anna le doveva qualche spiegazione, forse, più d’una.

***

La notte curava di stemperare gli ultimi rumori giù in strada.
Anna si muoveva in casa scalza.
Non appena vi aveva messo piede, aveva disordinatamente lasciato cadere il cappotto per terra. Entrata nella sua camera si era denudata del tutto ed aveva poi indossato una vecchia camicia da notte. Desiderò farsi un bagno caldo.
Si avvicinò alla finestra rimanendone lontana di qualche passo, giusto per accorgersi che Andrea, insieme ad un suo amico, stava facendo rientro proprio in quel momento. Ne fu contenta.
Si diresse in bagno e fece scorrere l’acqua calda nella vasca. Seduta sul bordo, riversò dei sali profumati sul fondo e si divertì ad osservarli mentre si scioglievano a contatto con l’acqua. Un vapore profumato si spandeva nell’aria.
Era la prima volta, dal giorno dell’incidente con l’animale, che si sarebbe lavata da sola.
Lasciò che la vasca si riempisse quasi fino all’orlo, si tolse la camicia da notte, appoggiandola ad una sedia, ed entrò nell’acqua. Si inginocchiò lentamente per poi sedersi ed infine distese le gambe. Il tepore la avvolse completamente. Sentiva l’acqua che le copriva pian piano la pelle, avvertiva quasi la linea di confine tra l’acqua e l’aria, e si lasciò solleticare da quella sensazione piacevole, curando di non far increspare la superficie. Ascoltò il gocciolìo del liquido che ancora scendeva dai rubinetti e si immerse ancora di più: una parte della faccia, fin sino alla bocca, era sotto il pelo dell’acqua. Respirava dal naso.
Rimase così per qualche minuto assaporando il silenzio e il calore sul suo corpo, poi, desiderò immergersi completamente. Trattenne il respiro e affondò piano, tenendo gli occhi aperti. L’acqua sopra di lei era perfettamente immobile. Vedeva la luce che proveniva dall’alto; il silenzio divenne ancora più corposo, quasi solido. Si abbandonò completamente e toccò con la nuca il fondo della vasca. Sapeva di poter resistere a lungo là sotto. Fece uscire un po’ d’aria dalla bocca e osservò le bollicine che salivano verso la superficie. Con le mani, si accarezzava il corpo. Le sembrò, per un attimo, di poter restare in attesa della sua morte, pacatamente, senza scossoni. Poi, d’improvviso, un pensiero la colse impreparata. Immaginò l’acqua che entrava nei suoi polmoni e ripensò, con una crudezza spietata, all’acqua che era entrata nel corpo del figlio. Venne assalita da un pungente senso di colpa. Iniziò ad annaspare, non riusciva più a trattenere il fiato e si accorse che il torace produceva movimenti inconsulti e incontrollabili. Il suo pensiero si imbrigliò in un ricordo che non le apparteneva: Anna non aveva assistito alla morte del piccolo Luca, lo aveva rinvenuto in quella pozza già morto, immobile, non aveva potuto far nulla per salvarlo. Dovette risalire in superficie per prendere fiato. L’acqua nella vasca si muoveva ad onde regolari che avevano finito col farla debordare.
Con una specie di singhiozzo strozzato agguantò tutta l’aria di cui era capace e tossì sputando e muovendosi senza controllo. Guardò alla sua destra e vide che il pavimento del bagno si era completamente allagato. Riacquistò una parvenza di controllo e attese che il respiro ritornasse ad essere più regolare. Decise quindi che sarebbe stato meglio uscire da lì. Prese un accappatoio e se lo infilò. Incurante di camminare sul bagnato, lasciò la stanza da bagno e raggiunse la sua camera. Finì di asciugarsi e si distese sul letto. Si accese una sigaretta e si mise in ascolto. Sperò che le voci la raggiungessero al più presto e comunque prima di abbandonarsi al sonno. Si sentiva stanca, avvertiva la necessità di dormire. Fumava ad occhi chiusi gustandosi ogni boccata, ma aveva dimenticato di prendere un posacenere e lasciava perciò che la cenere cadesse in terra. Si stava finalmente rilassando e cercava di dimenticare quell’incubo a occhi aperti appena vissuto. L’acqua, ancora una volta, le aveva restituito una memoria scomoda che, però, provvedeva a rimuovere, sperando di poterla cancellare.
Ancora il silenzio. Eppure aveva visto Andrea entrare nel portone con un amico. Non si udiva neanche la musica che il ragazzo, di solito, faceva suonare ad un volume apprezzabilmente elevato per quelle ore notturne.
La sigaretta era terminata e Anna la fece cadere sul pavimento lasciando che il braccio sinistro le penzolasse fuori dal bordo del letto.
Passò dalla veglia al sonno senza accorgersene.

***

Tutto ebbe inizio nel pieno del sonno di Anna.
Un sommesso brusio si gonfiava con lentezza e si sollevava nell’aria producendo un suono particolare, come se si fosse trattato di uno sciame d’api intorno ad un alveare. Le parole sommate alle parole, assecondavano un ritmo diatonico senza pause. Suoni grevi che si univano a quelli più acuti. Più voci insieme che si mescolavano in un crescendo che preludeva a qualcosa di più possente. Nessun intervallo sonoro, alcun genere di pausa. Le voci salivano seguendo una successione costante, in crescita, descrivendo una sorta di immaginaria scala cromatica senza soluzione di continuo, un’onda impetuosa che montava poco alla volta, fino a filtrare attraverso le pareti dell’appartamento di Andrea e penetrare in quello di Anna. Le voci, che ignoravano il sonno della donna, se lo andarono a prendere, disturbandolo, scuotendolo. Infine un suono più forte di tutti gli altri.
“..Basta così!..”. La voce, quella più greve delle altre, aggredì ogni ulteriore barriera, frantumando l’aria immota.
Anna si svegliò di botto. Non ebbe nemmeno il tempo di domandarsi cosa stesse accadendo. Lei, in fondo, era lì per aspettare. Tuttavia la speranza di incontrare le voci, e poi Andrea, che di quelle voci era parte, si scontrò con una sensazione di timore. L’urlo appena sentito, di cui aveva nebbiosamente percepito solo le ultime sillabe, era però differente da tutti gli altri uditi le volte precedenti. Si percepiva un’ira più grezza, primitiva, priva di controllo.
Anna scese dal letto e, compiendo un gesto a lei ben noto, si distese a terra appoggiando l’orecchio sul pavimento. A differenza di quello che era accaduto durante le altre notti, non sentiva più suoni precisi: permaneva nell’aria solo quest’onda sonora e costante. Le voci erano più indistinte ed indistingui-bili del solito. Cercava, senza riuscirci, di percepire quella di Andrea. All’improvviso scese un silenzio incoerente rispetto a ciò che stava accadendo, cui fece immediatamente seguito una voce nuova. Era quella di un ragazzo, ma non era Andrea che aveva parlato.
“..Andiamo via da qui…”.
Di nuovo il silenzio. Poi, una porta che sbatteva e, in rapida successione, un intenso trepestio sulle scale; infine, il rumore del portone che veniva chiuso con forza.
Anna si tolse da quella posizione, riprese l’accappatoio che aveva lasciato sul letto e si affacciò alla finestra. Vide l’amico di Andrea che, a passo svelto, raggiungeva il motorino lasciato prima giù in strada. Mentre si dirigeva verso l’ingresso del suo appartamento, sentì il brontolio della marmitta del motore. Il ragazzo che solo poche ore fa era salito con Andrea se ne stava andando via.
Anna aprì la porta con calma, senza far rumore. Andrea era lì, sul pianerottolo. Entrò senza dire una parola. Aveva il fiato corto e quasi ghignava. La porta restò semiaperta.
“..L’ho fottuto, ha creduto che sia andato via con quell’altro…”.
Si sbagliava.
D’improvviso si sentì sbattere la porta del piano di sotto. Entrambi si girarono verso l’entrata ma senza compiere alcun gesto. Qualche secondo dopo, la porta, solo socchiusa, venne completamente spalancata dalla spallata di un uomo corpulento.
In casa di Anna, adesso, c’era un intruso.
Il padre di Andrea, completamente sudato, con una camicia che gli pendeva fuori dai pantaloni, li guardava con uno sguardo cieco e rabbioso. Respirava come una bestia. Così lo percepiva Anna che, per tutto il tempo, era rimasta ferma, impietrita. Andrea si era avvicinato a lei e guardava il padre con aria di sfida. Lui lo ricambiava emettendo una specie di rantolo; sembrava parlasse ma non si capiva quello che diceva. Era in un evidente stato di alterazione. Anna non poté fare a meno di notare che l’uomo aveva qualcosa nella mano destra: una pistola tenuta ben stretta tra le dita, veniva infatti agitata freneticamente nell’aria, accompagnando, con movimenti spezzettati, le frasi confuse che uscivano dalla sua bocca. Pareva sputasse ad ogni parola. Una rabbia incontrollabile trasudava da questo animale cattivo pronto a colpire; e stava lì, nella casa di Anna.
Un passo, due, ora l’uomo fronteggiava il ragazzo, pur mantenendosi ad una certa distanza da lui.
Andrea non parlava. Il suo respiro si era fatto più intenso. Aveva paura. Anna, stretta nel suo accappatoio, con le mani serrate sul petto che stritolavano il tessuto di spugna, ne avvertiva distintamente l’odore.
Stava accadendo tutto troppo in fretta, succedeva qualcosa che non riusciva a capire, la cosa le appariva persino inutile.

In questo atipico e suggestivo fermo-immagine, chi tra quelle tre anime era la meno giustificabile? Chi, tra le tre, avrebbe potuto definirsi più irragionevole?
Anna, che con la sua radicata indolenza non offendeva se non sé medesima, impedendo a chiunque di penetrare nei suoi luoghi mentali e fisici? Andrea, che, grazie alla sua naturale incoscienza adolescenziale, pretendeva di essere semplicemente accettato per quello che era, senza consentirsi o consentire alcuna forma di mediazione? Il padre di Andrea, che, investito di un ruolo non biologico ma solamente sociale, affermava la sua propria autorità attraverso un percorso comunicativo anassertivo?
La scena, e più ancora le emozioni che la avviluppavano, sottolineandone l’intensità, erano decisamente complesse. Verosimilmente nessun giudice avrebbe potuto condannare una di quelle anime. I tre, accidentalmente riuniti in un medesimo spazio e in uno stesso tempo, sicuramente incrociatisi in virtù di un meccanismo del tutto casuale, evidenziavano, ciascuno per proprio conto, una manifesta onestà comportamentale. Ognuno di loro poteva trovare cause e ragioni giustificative senza timore di essere smentito. Un preciso meccanismo regolava il loro agire, mostrando, nello stesso momento, sia le cause, sia gli effetti delle loro azioni. Ciascuna delle tre figure, affacciatesi in questo scenario dominato dal caos, disordinato proprio perché composto dalla somma di tre grandezze emotive disaggregate, tendeva quindi a conservare, con pernicioso attaccamento, il proprio individuale stato. Tre zattere allo sbando in un mare oceano ospite di sbandati.

La furia cieca non prevede parole, e quelle che riescono a saltare il fosso di una normale riservatezza umorale, quello fatto di vergogna e timore assieme, erano destinate inevitabilmente a non essere ascoltate, né da chi frettolosamente le acconciava assieme, rimestandole, prima di lanciarle, in una zona di confine tra il cervello e la bocca, né da chi ne è il naturale destinatario di esse.
In fondo, né l’uno -l’allocutore pressato dal desiderio insopprimibile di profferire parole rabbiose-, né l’altro -l’interlocutore invaso dalla aggressione verbale-, erano disposti a spendere il tempo e lo spazio in cui le parole del cieco furore navigavano, affollando scompostamente quel luogo di cui esse stesse diventavano rapidamente padrone incontrastate.
Forse, una piccolissima particella di coscienza consapevole, una parvenza di ragionevolezza, aveva, sia pure per un attimo, illuminato le tre anime alla deriva, facendole restare immobili. Poi, la natura istintuale e bestiale di una di esse, probabilmente la più debole in quel momento, ma proprio perciò non condannabile, esattamente come non condannabili erano le altre due solo perché ancora irrigidite nel loro immobilismo, prese il sopravvento.

Non il dolore e nemmeno la paura del dolore indussero Anna a compiere uno scarto improvviso rispetto a quanto la feroce situazione in atto potesse far presupporre. Curiosamente, la donna, iniziò ad osservare il tutto con un occhio distaccato. Si astrasse completamente da lì, orientando la propria mente, prima ancora che lo sguardo, in un universo -inesistente- fatto di vuoto. Riusciva, cioè, a guardare quanto la circondava come se si stesse librando in volo, galleggiando sopra le teste delle persone. Riusciva a vedere sé stessa e gli altri lontano da sé, senza tuttavia perdere la vera cognizione del reale. Un cuore indurito dal dolore, il suo cuore, le veniva in soccorso. O, probabilmente, una nuova acquisita valutazione della irrilevanza delle cose; in questo contesto asettico, un contesto soltanto filtrato e voluto così da lei, ma per ciò stesso più reale di quello che le si dipanava davanti, riusciva meglio a leggere gli sguardi di Andrea e di suo padre, sottraendo, mano a mano, ogni residua carica emotiva che potesse minimamente coinvolgerla e facendola quindi entrare in un universo fatto di analisi serrate e velocissime: il da farsi veniva da sé, quasi percorrendo una via già tracciata i cui segnali erano già stati riconosciuti. Anna si muoveva più velocemente di quanto avesse mai potuto immaginare e lo faceva senza aspettarsi né gratificazioni eteronome, né, tantomeno, autonome: soffermarsi a raccattare prove di autostima che, al momento, non avrebbe nemmeno potuto cogliere, diventava un atto totalmente inutile. Lei era un perfetto automa, così sentiva di essere. Assisteva dunque ad uno spettacolo del quale, pur essendone coprotagonista, conservava -così pensava- il ruolo primario di spettatrice.
“…Il pensiero crea…, il vissuto si colora di qualcosa solo se il pensiero ha prima creato,…e qui non v’è un pensiero,… solo azioni”.
Le montò questa riflessione, anch’essa del tutto nuova ed eccezionale per lei. Ne fu quasi compiaciuta e la tenne ben stretta nella sua riscoperta anima lucida, fin troppo lucida, forse.

Accadeva però che le tre figure, pur nelle loro evidentissime diversità, finissero per muoversi all’unisono, conquistando una posizione spaziale e temporale unitaria, come se fossero diventate un organismo unico e complesso, a sua volta composto da organismi individuali e simbiotici nello stesso tempo. Ciascuna di esse influenzava le altre: un imperfetto meccanismo proteso verso una rottura programmata il cui punto critico sarebbe dipeso, alla fine, dalla forza di resistenza di una soltanto fra esse. Ciò che donava loro una parvenza di stabilità era rappresentato dal mantenimento di quello stato di equilibrata tensione.
Fu così che Anna prese per un braccio Andrea, tirandoselo a sé, mentre l’uomo, avanzando ora troppo rapidamente, fece presagire che quel punto di rottura annunciato si stava pericolosamente per realizzare. Si assisteva, dunque, ad una specie di danza cadenzata da un ritmo assurdamente lento.
Andrea, un po’ perché tirato da Anna, un po’ per una naturale forma di difesa nei riguardi del padre che manifestava la più che evidente intenzione di percuoterlo, arretrò di diversi passi rispetto alla posizione originaria; così facendo, spinse indietro la donna fino alla porta del bagno che si affacciava sul piccolo e breve corridoio dell’appartamento. Anna ebbe appena il tempo di percepire, attraverso la pianta dei piedi ignudi, una sensazione di bagnato: tutti e tre si erano fermati sul velo di acqua che, dal bagno, aveva invaso il corridoio. In quell’istante il padre di Andrea sferrò, senza ulteriori preavvisi, il primo colpo all’indirizzo del ragazzo cercando di colpirlo sul volto. L’uomo aveva usato la mano libera, quella con cui non teneva la pistola, probabilmente per mollargli un ceffone. Andrea, tuttavia, riuscì a schivarlo, sebbene non completamente, e la mano nodosa del padre si abbatté con notevole forza sulla clavicola del figlio. Non avendo centrato il bersaglio, il contraccolpo che ne ricavò, lo fece sbilanciare all’indietro. L’acqua sul pavimento fece il resto e l’uomo si ritrovò, privo di equilibrio, a compiere una goffa piroetta che lo fece accasciare in ginocchio. Ansimando e sputando bestemmie stava quindi provando a rialzarsi. La pistola gli era scivolata via.
L’arma, dopo aver terminato la sua corsa roteante, come se si fosse trattato di una trottola impazzita, si era fermata ai piedi di Anna. La donna, mantenendo un assetto totalmente lucido, freddo e distaccato, pur nella frenesia del momento, quasi rispondendo ad un riflesso non comandato da alcun genere di pulsione emotiva, mollò il braccio di Andrea, e si abbassò. Raccolse la pistola afferrandola per la canna. L’uomo, ancora ginocchioni, volse a quel punto lo sguardo verso di lei e, con una specie di ghigno beffardo e volgare, la invitò, con spavalderia, a colpirlo. Anna si soffermò, solo per un brevissimo lasso di tempo, a guardargli i denti, non gli occhi, né il volto nella sua interezza, ma soltanto i denti. Andrea, nel frattempo, si era messo al fianco della donna, sia pure arretrando di una spanna rispetto a lei. Il padre del ragazzo ora inveiva contro Anna. Con voce bassissima, quasi emettendo un soffio acido, la chiamava “la matta del palazzo”; pareva essersi messo a ridere, i suoi denti continuavano a ridere, e si era quasi rialzato del tutto.
Anna, senza calcolarne gli effetti, compì un passo lungo verso quell’uomo. Pensava tra sé che la situazione era sufficientemente folle e persino incoerente rispetto alle probabili cause che l’avevano determinata. Avvertiva un disagio misto ad un fastidio per la improvvisa invasione del suo territorio. Decise che avrebbe difeso esclusivamente sé stessa, la sua propria intimità, i suoi silenzi ora disturbati dalla violenza inusitata dell’uomo. Tenendo ben stretta la canna della pistola, calò un colpo violentissimo sulla faccia di quell’intruso, senza minimamente curarsi di prendere alcuna mira: il bersaglio offriva diversi punti di impatto. Il calcio dell’arma si abbatté sul labbro della bestia cattiva. Un piccolo fiotto di sangue, misto alla pelle lacerata, volò via da quella faccia piena di denti. Nessun lamento. La donna, per nulla intimidita, assestò un altro colpo e poi un altro e un altro ancora. Martellava il volto del padre di Andrea senza un ritmo ordinato, colpiva a casaccio, mentre la mano che reggeva l’arma si imbrattava di sangue e di bava. Il viso dell’aggressore, ora aggredito, era una orribile maschera. Anna non sentiva più nulla. Si era persino inginocchiata per meglio portare a termine l’opera appena iniziata. Era come se stesse maciullando uno scarafaggio, un topo. L’uomo era svenuto e respirava rumorosamente. I colpi inferti da Anna non trovavano pace. La donna continuava a percuotere, senza rabbia, con folle metodo distruttivo. Il calcio della pistola scivolava adesso sul sangue e terminava la sua corsa, ora sul naso, ora sul pavimento del corridoio. I rumori prodotti da quel martellio erano ora soffici, ora sordi.
“Basta così Anna,….per favore,….andiamo via…”
La voce di Andrea ebbe l’effetto di calmare improvvisamente la donna.
“Portami via…”, pensò Anna, pur senza dirlo.
Mercurio-Andrea, la sollevò da terra, con delicatezza. Il ragazzo respirava come se avesse appena finito una corsa, eppure, per tutto il tempo, era stato lì, impietrito, diviso a metà tra la voglia di colpire lui stesso suo padre, e la voglia, inespressa, di provare pietà per quell’uomo violento che giaceva abbattuto, sconfitto e rantolante per terra.
Il silenzio si era nuovamente impossessato di quegli ambienti ed un curiosissimo effetto premiale si impossessò dell’anima di Anna. Si sentiva soddisfatta, non provava alcun senso di colpa, si era liberata dall’invasore, aveva compiuto una lotta e l’aveva condotta senza nutrire emozioni. “La matta del palazzo” si abbandonava al proprio soddisfacimento tirando un appena percettibile respiro di sollievo. Andrea la guardava allibito ma, in cuor suo, condivideva con lei, in qualche misura, un senso di soddisfazione mal celata. Era la fine di una battaglia. Ora, occorreva pensare ad altro ma Anna non pensava a nulla. Probabilmente una fuga avrebbe garantito ad entrambi una lieve e momentanea forma di impunità per quello che era accaduto. Il pensiero di Andrea, così rifletteva il ragazzo, doveva diventare il pensiero di Anna. Occorreva coinvolgerla. Di certo, il padre di Andrea non li avrebbe mandati assolti.
I gesti, persino quelli più insulsi o innocui, producono altri gesti. In un matematico rapporto di causa ad effetto, le azioni messe in atto nell’appartamento di Anna, poiché non completamente insulse, se non per le ragioni che le avevano determinate, dovevano necessariamente produrre altre azioni. E l’immobilismo di Anna non poteva certamente impedire ad Andrea di muoversi, coerentemente alla sua indole adolescenziale, in una qualche direzione che non fosse poi quella di abbandonare la scena. Nessun programma avrebbe potuto accompagnare quelle due anime ancora di più alla deriva. Occorreva affidarsi dunque all’istinto.
“Il pensiero crea,…il pensiero crea…, il pensiero crea…”. Anna ripeteva ossessivamente questa specie di litania senza badare troppo a fornire spiegazioni al ragazzo che cercava di scuoterla da questo torpore. Lui la prese per mano, allontanandosi dal corridoio ed entrando nella camera da letto della donna.
“Vestiti!”, pareva volerle suggerire, mentre rovistava tra i cassetti e dentro l’armadio, cercando di recuperare qualcosa, buttando il tutto sul letto, senza ordine.
“Anna, dobbiamo scappare, non lo capisci?”.
Anna si ridestò da quel singolare sogno che l’aveva presa e, senza rispondergli indossò i pantaloni ed il maglione del pomeriggio. Andrea agguantò un borsone e vi cacciò dentro tutta la roba che aveva trovato. Si spostarono, mano nella mano, verso la porta di casa scavalcando il corpo ansimante del padre. L’uomo era ancora vivo. Anna raccolse meccanicamente dal pavimento il cappotto e si fece condurre dal ragazzo giù per le scale. La porta della sua casa venne chiusa senza rumore. Scesero di un piano e lei restò fuori dall’appartamento di Andrea che, dopo un attimo, la raggiunse con in mano una sacca. Giunsero a piedi fino al seminterrato. Andrea chiese ad Anna se potevano prendere la sua auto. La donna fece un cenno affermativo con la testa e, senza parlare, gli mostrò le chiavi che prelevò da una delle tasche del cappotto.
“Non abbiamo soldi…”. La voce del ragazzo era nervosa ma tradiva una certa lucidità, come se avesse studiato quel piano di fuga da moltissimo tempo. In realtà, improvvisava. Anna gli offrì le chiavi dell’appartamento e lo informò sul dove avrebbe potuto trovare del denaro. Andrea le prese senza dire una parola e si scapicollò nuovamente su per le scale salendole tre alla volta. Dopo qualche minuto era di nuovo giù. La donna stava già al posto di guida, col motore acceso. Erano pronti a partire.
La fuga poteva dirsi iniziata.

***

Si compiva un viaggio in quella macchina.
Andrea, dacché erano partiti, aveva riacquistato ben presto la sua antica abitudine di parlare a raffica, senza interruzioni. Era preso in un vortice di considerazioni e di programmi, talvolta calandosi nella parte del cronista per rimarcare tutto quanto era loro accaduto negli ultimissimi minuti. Lo faceva, a modo suo, sottolineando, curando di ritornare indietro nel racconto, mimando alcuni gesti, quelli compiuti da lui e quelli compiuti da Anna, a tratti entusiasmandosi e a tratti abbassando il tono della voce per rimarcare la gravità delle singole scene che gli riaffioravano nella mente. Pareva essere appena uscito da uno spettacolo cinematografico, piuttosto che da una situazione reale che, pur nella sua assurdità, mostrava inequivocabili segni di una certa importanza. Più che parlare, perciò, svolgeva un racconto ridondante.
In quel bozzolo di metallo e plastica, quella macchina già spettatrice di prim’ordine di altri e altrettanto drammatici spettacoli, Anna guidava in silenzio. Come già aveva fatto in precedenza allorché il ragazzo la andava a trovare a casa, semplicemente lo ascoltava senza porgli domande. D’altro canto, stavolta, non vi era nemmeno la necessità di farlo. Piuttosto era Andrea che, attraverso il suo parlare, pareva volesse interessarla e condurla in una lettura appassionata degli avvenimenti.
Tra una cronaca ed un’altra, tra la descrizione di un colpo ed un altro, tra la esposizione di un fotogramma ed un altro, riusciva, ogni tanto, ad inserire qualcosa di sensato. Il ragazzo si preoccupava del dopo, cercava di dar corpo ad una qualche organizzazione. Tuttavia il silenzio di Anna, che lui interpretò come dovuto ad una sorta di reazione emotiva da parte della donna, lo indusse a prendere in mano la situazione, diventando in qualche maniera il navigatore di quella spedizione notturna senza meta, autoproclamandosi così nocchiere a capo della fuga. Il ruolo lo reggeva benissimo e Anna, abituata da Lucia ad essere guidata, lo assecondò senza neanche battere ciglio.
L’auto si dirigeva a velocità costante verso l’estrema periferia della città e da lì, imboccata una strada a scorrimento veloce, verso il nulla.
Tra qualche ora avrebbe albeggiato.

In quel sottofondo ciarliero di Andrea, Anna aveva svuotato completamente la testa. Lo aveva fatto per meglio pensare a sé.
Provò, dunque, a tracciare una linea.
Così facendo, dimenticando del tutto gli avvenimenti più recenti, iniziò volontariamente e consapevolmente a calarsi in un tombino, un pozzo scuro. Era tranquilla, e principiò questa salita al contrario con animo sereno.
La strada, un lungo rettilineo privo di traffico, la favoriva. Andrea pareva essersi calmato, forse dormiva, e comunque non parlava più a raffica.
La normalità della sua vita, questo era il nodo del suo pensare. Una normalità dalla quale le era stata sottratta proprio la normalità. Si apprestava a rievocare con lo spirito di chi, ammalatosi definitivamente di un carcinoma incurabile, accettava semplicemente e senza più affanni le cose accadute.
La morte del figlio era l’accadimento che aveva spinto l’acceleratore della sottrazione dalla normalità, la sua, come quella di chiunque altro si fosse trovato al suo posto. Non si trattava di mera accettazione del fatto, poiché una morte, quella in particolare, non si sarebbe mai potuta atteggiare ad una mera e fredda analisi dell’episodio. E poi, non si trattava nemmeno di un episodio, non lo si poteva trattare in quel modo. Soltanto l’idea di poterlo rileggere come tale era sufficientemente distonica rispetto alla sostanza e profondità del dolore che le era stato inferto. E questo dolore, Anna, se lo portava dentro, pur senza cullarlo o sublimarlo. D’altra parte, come poteva sublimarlo? Quali strumenti avrebbe dovuto adoperare per farlo? E perché poi? Certo, le cose accadono, per lo più, senza perché, o senza modalità dei perché medesimi, ma bastava proprio e solo questo per affievolire quella pena che le aveva squarciato il petto e poi glielo aveva ricucito malamente in un’operazione di sutura malfatta, di quelle che lasciano una cicatrice sporgente ed orrida a vedersi.
Anna muoveva lentamente il capo, a destra e a sinistra, e si rispondeva con un no deciso ma misurato. Il dialogo con sé stessa le veniva su sciolto e lo affrontava con un garbo così delicato da farla apparire persino troppo distaccata rispetto al suo stesso pensare. Ma non si stupiva di questo e probabilmente non si stupiva di nulla.
Nemmeno la passeggiata pomeridiana di qualche ora addietro era stata capace di sorprenderla.
Si ricuciva addosso, ma suo malgrado, una nuova normalità, come se potessero esistere più normalità a disposizione di chi vive una vita, una sola vita. Il vero era che una sola linea retta, quasi come la strada che stava percorrendo in quel momento, in questo frangente come in quelli già passati, prevedeva una ed una sola normalità. Nessuna seconda vita, né a lei, né a nessun altro, le poteva essere concessa. In questa drammatica linearità del suo percorso, probabilmente solo più sfortunato rispetto ad altri, doveva fare i conti con il suo dolore. Questa era l’unica realtà con cui giocarsi una partita, la sua. Quale senso di libertà, dunque, era da riconquistare, considerato che nessuna libertà le era stata mai regalata? Quale partita da giocare, se non quella già giocata e persa?
Un piccolo insignificante pensiero, però, sembrò farsi spazio in questo budello oscuro in cui aveva deciso di passeggiare senza tormento. Giunse alla conclusione che il suo rinunciare alla vita, senza morire o morirne, ma vivendola deprivandola di ogni genere di tensione, potesse e dovesse essere la sua unica e vera libertà. Né si interrogava sulla apparenza di questa libertà, poiché sarebbe stato sommamente incoerente con quanto, di fatto, si era trovata a fare.
La rabbia era un sentimento ormai non più conosciuto, né conoscibile, uno stato dell’anima definitivamente seppellito da qualche parte, privo di qualunque coordinata che potesse agevolarla in un’attività di improbabile dissotterramento. Neanche la violenza esplosale tra le mani, allorché aveva deciso di difendere la sua privatezza contro il padre di Andrea poteva essere ricondotta ad una reazione rabbiosa. Aveva, quasi naturalmente, difeso sé stessa e, in via indiretta, il ragazzo ma senza farsi dominare da una forza istintuale furiosa. Aveva solo eliminato un problema. L’accanimento in cui s’era prodotta era da ricondursi semmai ad un metodo, una ripetizione costante di gesti ed azioni privi di pensiero e men che mai di pensiero cattivo. Non provava, perciò, né rimorso, né sensi di colpa. Quell’uomo, che probabilmente giaceva ancora svenuto a casa sua, era stato solo un problema da risolvere. Né lo condannava, né lo biasimava, lo aveva allontanato da sé.
Andrea, però, era un’altra faccenda, un’altra cosa del tutto differente rispetto al resto. Il ragazzo era Mercurio il ladro, Mercurio il messaggero. Anna preferiva, anche adesso che lo osservava dormire, considerarlo così. L’unico capace di averla fatta sorridere con la sua spavalda e grezza spontaneità, e senza che le avesse chiesto di farlo.
Nella linearità dolorosa della vita di Anna, in questa terrificante linearità, Andrea non rappresentava una violenza, ma semmai un inganno seducente. Né la sua presenza in casa, nelle “fughe” notturne di lui, che poi si erano rivelate essere state momenti di allontanamento dalla normalità sonnolenta di lei, sin troppo controllata da Lucia, aveva mai costituito o rappresentato una minaccia. L’inganno cui si sottoponeva con leggerezza, la consapevolezza di ciò la induceva comunque a farsi guidare da questo inconsapevole manipolatore di anime. Amava sentirsi manipolata, ma amava quella maniera e non un’altra. Non vi era mai stata un’ossessione o una maniacalità ripetitiva. Quelle che erano state per giorni soltanto delle voci provenienti dal basso si erano ricongiunte ad un corpo, quello di Andrea, ad una voce sola, quella del ragazzo. Anna aveva pertanto volontariamente accettato di subire una sorta di ipnosi pur non facendosi rapire del tutto ma assecondando Andrea e, in tal modo, assecondando anche sé stessa.
Lucia, l’amore che provava per quella donna, non era in discussione, così come non si discute di un amore filiale, e lo si accetta semplicemente per quello che è e per quello che dà. Anche i segreti, gli ultimi nascondimenti ingenui che aveva inteso opporre a Lucia, non potevano farsi rientrare in alcun genere di relazione conflittuale con la tata, poiché conflitto non vi era, né vi era mai stato.
In fin dei conti non poteva neppure dirsi che adesso, in quella macchina, si perpetrava una fuga. Non aveva da fuggire da nessuno, tantomeno da un uomo semi svenuto nel suo ingresso. Da sé stessa non fuggiva da un pezzo, non vi era ragione alcuna per farlo, e portava sé stessa, la sua corporeità e solo quella, in una diversa dimensione di spazio e di tempo, di certo diversa da quella di prima, ma non dissimile da ciò che era e continuava ad essere nella sua più intima essenza. Nessun cambiamento era in atto. Si trattava, perciò, soltanto di un procedere in avanti. Le domande e le risposte duravano esattamente come prima in un perfetto rapporto geometrico di equivalenza. Le domande e le risposte, anche se già formulate e rese, ovvero, pur se mai formulate e mai rese, erano matematicamente sovrapponibili tra loro ed equivalenti a quanto era stato il prima e a quanto sarebbe stato il dopo.
Un torpore non richiesto, né voluto, svolgeva il suo proprio compito metodico sull’anima di Anna nella totale assenza di repliche o scossoni. Così andava bene. Così funzionava quel tempo e così aveva funzionato il suo immenso dolore. Un dolore che aveva terminato le proprie energie distruttive e che ora consolidava una posizione di quiete.
Le rimaneva, comunque, una sensazione di vuoto incolmabile. Ricordò una frase che le ripeteva Lucia quando sfaccendava per casa e in particolar modo quando preparava qualcosa di buono in cucina: “..coprire e lasciare riposare…” .
In fondo, proprio così, gli uomini e le donne di questa terra per lo più agivano verso le proprie ansie e le proprie emozioni, talvolta coprendole, illudendosi di lasciarle sedimentare da qualche parte, per poi successivamente abbandonarle; infine, per cercare di allontanarsi da esse per tentare di riposare da sé stessi. Si chiese, Anna, se quell’apparente riposo dal sé potesse mai essere premiale ovvero se, alla lunga, dovesse essere destinato a scatenare i peggiori demoni dell’animo umano. Considerò, senza ansia, che si potesse nascere già ammalati e dunque regolati da una sorta di timer. O prima, o dopo, si sarebbe perciò innescato per tutti un inevitabile caos esistenziale.
“Coprire e lasciare riposare…” .
Si rese conto di essere incorsa in una momentanea scivolata nel tunnel dei pensieri palindromi, di quelli il cui inizio coincideva con la fine stessa e viceversa.
Si accese un’altra sigaretta, abbassò un po’ il finestrino e soffiò il fumo fuori dall’auto. Un refolo di vento le scompose i capelli che le stavano ricrescendo. Andrea, al suo fianco, sonnecchiava ancora.
Il pozzo nero in cui era discesa non sembrava essere poi così spaventoso e la discesa stessa altro non era stata se non un’esplorazione, un sopralluogo.

Il cielo di quella mattina era grigio ma ugualmente luminoso e a lei parve di ritrovarsi in un paesaggio illuminato artificialmente da delle lampade al neon. Scorse, più avanti, una stazione di servizio e istintivamente sollevò, di poco, il piede dall’acceleratore. L’aria fredda che era entrata in macchina, ma forse anche l’improvviso cambio della costante melodia del brontolìo del motore dovuto alla impercettibile decelerazione, ebbero l’effetto di far aprire gli occhi al ragazzo.
Andrea si sollevò sul sedile e, mettendo a fuoco le immagini che gli si paravano davanti, le chiese di fermarsi: aveva fame, voleva far colazione.
Anna, come al solito, non aveva appetito e non avrebbe mangiato nulla. Un caffè sarebbe andato benissimo ugualmente.
Mercurio aveva ripreso a parlare. Desiderava comprare dei giornali per leggere le cronache locali: immaginava di dovervi trovare qualche notizia che potesse riguardarli. La donna lo lasciava fare senza mostrare, poiché effettivamente inesistente, alcuna forma di accondiscendenza. Andrea viveva una qualche emozione dal sapore eroico, tipico per la sua età, una neanche tanto celata storia epica nella quale sapeva vestire benissimo i panni del liberatore caduto dal cielo, impegnato, adesso, in un’opera di salvifica evoluzione. Si caricava, con enorme entusiasmo, di responsabilità organizzative semplici ed elementari. Convinse, pertanto, Anna a scendere dall’auto suggerendole, col garbo suadente di cui era naturalmente dotato, di prendere almeno un caffè. Non insistette più di tanto sulla proposta di farle mangiare qualcosa. Ad ogni modo, a suo modo, si prendeva cura di lei.
Il bar, all’interno della stazione di servizio, era semi vuoto, fatta eccezione per un paio di avventori, probabilmente camionisti di passaggio.
Andrea e Anna presero posto ad un tavolo vicino al bancone e lui curò di comandare le ordinazioni al sonnolento barista. Acquistò due o tre giornali e, prima ancora di avventarsi sui croissants, iniziò a sfogliare velocemente le pagine. Era evidentemente animato dalla convinzione che avrebbe trovato qualcosa che li riguardasse.
Anna si era accesa, nel frattempo, un’altra sigaretta e aspettava di bere il suo caffè.
“…Niente, per fortuna non c’è niente…”.
Il tono di voce usato da Andrea, più che esprimere sollievo, tradiva una evidentissima delusione.
Anna sorrise mentalmente mentre iniziava a sorseggiare la sua bevanda bollente.
I due uomini uscirono dal bar.
Il giovane barman, da dietro al bancone, mollemente appoggiato sui gomiti, guardava il ragazzo e la donna con occhi spenti, privi di curiosità.

***

Tutto il mondo continuava a girare esattamente nella stessa maniera di sempre, coi suoi ritmi, le sue interruzioni, i suoi precisissimi meccanismi ed i suoi incastri. Una mirabolante giostra all’interno della quale si consumavano gioie e disgrazie, ripartite in egual misura, talvolta col prevalere delle prime, talaltra delle seconde, ma entrambe in un sempiterno e magistrale rapporto di equilibrio matematico che, alla fine, non lasciava spazio alcuno per risultati che non fossero meno che proporzionali. Un luna park delle emozioni, un tiro a segno delle anime, la riffa delle occasioni perdute, l’elegia del gioco e della scommessa. Ciò che non combaciava finiva, o prima o poi, per combaciare alla perfezione.
Anche Anna ed Andrea sarebbero stati ricatturati da questo gioco ad incastri e, volenti o nolenti -per lo più inconsapevolmente nolenti-, si sarebbero riadattati nel puzzle cui, in vita, ci si ritrova sempre e comunque. Una volta ancora era proprio la distanza dall’incastro, o meglio il non averlo raggiunto per essersene accidentalmente sottratti alla cattura, che agevolava l’incastro medesimo e, insieme, la sua indiscutibile forza attrattiva. Nessun colpo di scena, insomma, sarebbe servito alla bisogna: l’inizio e la fine di una storia, qualunque essa fosse, raccontata o vissuta, e di qualunque colore essa fosse stata arricchita, si sarebbero dipanati e svolti indipendentemente da qualunque intervento teso a modificarne il principio, ovvero, il termine finale. Sfuggire o, peggio, fuggire, diventava così una mera e divertente modalità narrativa della stessa identica storia, in una parola, del loro destino.
In questa miscela solo apparentemente confusa e priva di punti di certezza, essi erano insieme soggetti attivi e passivi di un unico disegno. La linearità di esso era persino fin troppo evidente. Una storia normale, fatta di tante altre normalità che si intersecava alla perfezione con tutte le altre normalità.
La pietas di cui il destino è capace è solo una parvenza di generosità verso chi, come Anna aveva provato a fare, cerca di tracciare una linea. E una morte e una vita, quelle di Anna, o una vita, quella di Andrea, al di là delle singolarità loro proprie, altro non erano se non la morte e la vita. Al più, ma non in quel momento, era loro concesso di potersi illudere, sia pure per mezzo di personali e quasi insondabili moti dell’animo -il loro-, di percorrere una strada credendola diversa da tutte le altre possibili strade. In realtà, un’illusione serviva solo per sopravvivere (Anna era immersa nella sopravvivenza), oppure per eroicamente vivere (Andrea cavalcava l’idea epica della sua onnipotenza adolescenziale).
La fine-corsa, la fermata oltre la quale non si torna indietro, era ad ogni modo, e per entrambi, ancora ben lontana. La storia non era finita.
Il barman dallo sguardo fisso e distratto era coerente, prima che con sé stesso, soprattutto con loro due: l’ignorare il recentissimo passato di quel ragazzo e di quella donna costituiva, perciò, una mera modalità di accettazione dell’altro e, ove mai fosse stato possibile conoscere quel passato, sarebbe cambiata soltanto la modalità di percepire un presente. Uno sguardo distratto così vive.
Il dolore, la tristezza, il rancore, la malinconia, non potevano che appartenersi ai singoli individualmente considerati e, dunque, sarebbe stata una ben vana idea (che il buon senso comune definirebbe solidarietà) sostenere che la conoscenza dell’animo altrui produce comprensione. Il vero motore immobile del mondo era la curiosità, quella strana cosa che spinge a sommare i piccoli passi di ogni giorno per dimenticare, da un lato, la parziale somma stessa, e , dall’altro, l’ineluttabile arrivo della fine-corsa.
Una sorta di coerenza olistica, sebbene non propriamente cosciente, aveva finito, perciò, con l’inserire Anna e Andrea in quel posto.
Il vero delirio, come frequentemente accade, è ritenere di potersi misurare, anche con l’impiego del più nobile tra gli ingegni, con ciò che di ingegnoso ha ben poco.
Andrea e Anna, così come il ragazzo del bar, o Lucia, o il padre di Andrea, e persino gli uccelli di palude oggetto di quella appassionata caccia fotografica, tutti loro, tutti assieme, e ancora tutti gli altri, persone già apparse con ruoli comprimari, e cose o persone da incontrare, tutto il mondo, girava esattamente come sempre, da sempre, un po’ divertendosi, un po’ annoiandosi, un po’ qui, un po’ lì, come se fosse impegnato a nutrire pollame, spargendo becchime a casaccio, ovvero, accordando premi e regalìe di vario genere, ma sempre secondo il gesto della elargizione di un nutrimento per polli: chi avesse voluto, avrebbe potuto gonfiarsene la pancia ma senza mai sapere se quel mais appena beccato avrebbe avuto un sapore amaro, oppure dolcissimo. Il caso, come unica strada tracciata nel caos. Una vita, una morte, una vita, una morte, da una vita, una morte, da una vita, verso una morte. E dentro, tra una vita e una morte, una certa quantità di becchime, tra tante altre vite e tante altre morti.
Anna, forse, possedeva questo genere di consapevolezza, l’aveva probabilmente appreso, o, per lo meno, mostrava di averne approfondito una consapevolezza. Da qui, l’inutilità (una inutilità profonda) di qualunque sentimento di amore o di odio, di rabbia o di calma, e solo il ricordo di essi. Da lì, l’inutilità (una inutilità profonda) verso l’uso del becchime, il suo rifiuto del cibo, del piacere o del dispiacere che esso avrebbe potuto darle.
Anna, dunque, smagriva per la sua raggiunta coscienza del vivere.

Andrea, che ancora masticava rumorosamente i suoi cornetti, osservò il volto magro e scavato di Anna. Da par suo, senza chiedere permessi, avvicinò alla bocca della donna un pezzo del suo pasto mattutino. Anna, non rifiutando il gesto del ragazzo, si fece imboccare, nutrire.
Pagato il modesto conto di quella frugale colazione, i due abbandonarono il bar. Salirono in macchina e, senza tracciare ancora un programma, si rimisero in viaggio.
La città era sempre più lontana.

***

Non si poteva certo dire che Lucia avesse passato una notte di tutto riposo. Troppi pensieri le avevano affollato la testa per tutto il tempo; dacché aveva scoperto Anna gironzolare per strada, era stata assalita da una forma di inquietudine.
Le prime luci del mattino erano state salutate con un vago senso di liberazione in considerazione del programma che aveva predisposto. Lucia, ora, doveva solo cercare di parlare con franchezza, limitandosi a formulare poche ma incisive domande, curando di non superare la soglia oltre la quale Anna avrebbe sicuramente opposto una silenziosa resistenza. D’altro canto, non poteva nemmeno permettersi il lusso di muoverle alcun genere di rimprovero. Non poteva assolutamente rischiare di innescare inutili e viziosi meccanismi conflittuali.
Era già sufficientemente duro continuare a condurre un’esistenza molto ben impregnata di silenzi, ancorché amorevoli, ma che comunque non le avevano lasciato -non ancora- la possibilità di abbracciare l’animo triste di Anna, così lacerato dal dolore. In seguito, così pensava, ne avrebbe volentieri parlato col medico, quantomeno per cercare delle semplici parole di conforto e, magari, per tentare di recuperare una traccia entro cui potersi muovere con una maggiore serenità. Non avrebbe dovuto tenere un comportamento nei riguardi di Anna, ma avrebbe dovuto mostrare, semmai, e senza veli, un sentimento, il suo, quello profondo, stabile, solido, vero che l’aveva sostenuta da sempre. Probabilmente avrebbe potuto assumere un atteggiamento, una lieve sfumatura diversa dal suo modo “normale” di agganciare le ben ridotte manifestazioni interiori di Anna, ma nulla di più. Successivamente, così annotava mentalmente mentre raggiungeva l’appartamento, avrebbe discusso dell’altro, e forse più grave, problema: Anna rifiutava il cibo e provvedere a questo era diventata una priorità da non più trascurare. Il medico, come al solito, le aveva suggerito un ricovero presso una struttura specializzata ma, né lei, né Anna, erano state in grado di approfondire la cosa. Molto semplicemente, fingevano di accantonarla.
I cambiamenti, soprattutto quelli improvvisi ed inaspettati, come quelli che lei aveva appena vissuto, spingevano Lucia verso la ricerca di ogni possibile soluzione per riportare le cose, così sperava, verso uno status quo ante. Si abbandonava al ricordo del prima, trascurando l’adesso, dimenticandosi che un dopo, comunque, era già in marcia.
Purtuttavia, era pervicacemente attaccata ad una sua propria idea, ed il percorso che la separava dalla casa di Anna servì per sovralimentarla.
“Dove c’è un principio, deve esserci anche una fine…”.
Il pensiero di dover ad ogni costo chiedere spiegazioni ad Anna, le spiegazioni che riguardavano una vita segreta -così pensava-, quasi la rinfrancava; avvertiva, perciò, un odore di completamento, una sorta di chiusura di un circuito lasciato aperto. Si rifugiava in un ordine, il suo, quello stesso che le aveva consentito di riorganizzare la vita spezzata all’interno di una famiglia, anch’essa spezzata ma, tutto sommato, ricompattata e ricompostasi -così pensava-.

Raggiunse la sua destinazione e aprì la porta dell’appartamento usando la copia delle chiavi in suo possesso.
Non si rese conto, non immediatamente, che il silenzio dell’appartamento era ancora più possente degli altri giorni. Una massa solida, fatta di nulla, la accolse. Lei, vi si immerse senza difese e senza consapevolmente capire di esserci andata a sbattere contro.
A passo svelto si spinse sino alla camera da letto di Anna. Si affacciò sulla soglia della porta e poi indietreggiò sino al bagno. Acqua e disordine, e ancora acqua e oggetti a posto ma come se fossero stati mossi senza che però fossero lontani dal loro posto originario. Lo scenario le si presentava confuso. Avvertiva la presenza di una traccia, qualcosa che era passato da lì senza lasciare -apparentemente- tracce. L’ordine cui era abituata aveva ceduto il posto a qualcosa d’altro, non identificabile. Anche l’odore dell’appartamento era diverso.
Non aveva chiuso la porta di casa.
Ritornò sui suoi passi e, volgendo le spalle al piccolo ingresso, osservò distrattamente il ballatoio. Si rese conto di non essere sola. Scorse qualcuno seduto sulle scale. Una figura rannicchiata, con la testa incassata nelle spalle, che muoveva ritmicamente, ma lentamente, il petto. La respirazione era regolare ma accelerata. Pareva un enorme sacco afflosciato su se stesso. La semioscurità non le consentiva di capire bene chi fosse. Lucia, non senza timore, percorse qualche passo verso quello che si rivelò essere un uomo piuttosto corpulento. Non lo riconobbe subito, lo aveva incontrato solo qualche volta e, quando era accaduto, si era limitata a salutarlo con brevi, misurati cenni.
Il padre di Andrea volse lo sguardo in direzione di Lucia solo quando la donna si era ritrovata a pochissimi passi da lui. Il volto dell’uomo era sfigurato e imbrattato di sangue. Salutò Lucia con una specie di rantolo che pareva somigliare ad un grugnito.
La scena era sufficientemente insolita e, nello stesso tempo, abbondantemente suggestiva se non altro per l’intensità delle sensazioni che da essa sgorgavano.
La voce dell’uomo interruppe il silenzio e quella coltre pesante, fatta di domande curiose inespresse che la faccenda inesorabilmente suggeriva, si infranse.
<<Mi aiuti, per favore…>>
Non sapendo bene cosa fare, Lucia si accostò all’uomo e, per vederlo meglio, scese un paio di gradini.
Respirava in modo curioso, pareva una di quelle bestie feroci che si riparano all’ombra di qualche albero nelle giornate più calde, col fiato che esce attraverso i denti e non solo dalle labbra, un chiudersi ed aprirsi, quasi affannato, come dopo una lunga corsa. In quell’uomo, esattamente come in una di quelle bestie, si notavano i denti. E le labbra che si gonfiavano e si sgonfiavano, senza che venissero usate le narici per respirare. Poteva dirsi persino buffo, sebbene la intensa gravità di quei momenti non autorizzasse Lucia a formulare simili pensieri. Forse, la donna, nel pensare questo, si difendeva. Non aveva paura, però.
<<Si tratta di Anna..?>>
Le venne da porre quella domanda, una di quelle che nascono senza troppi filtri, per poi, però subito accorgersi della inutilità della domanda stessa. Cosa e perché chiedere qualcosa se già si conosce una risposta? E a chi, poi? Percepì immediatamente il sentimento di quell’uomo, la sua non-voglia di raccontare di qualcuno (Anna) ed invece la necessità di parlare di qualcun altro (Andrea). Si reputò una sciocca per la stupidità della sua richiesta. Scese altri due gradini per cercare di guardare meglio in volto quella figura semi rattrappita ed immersa in una specie di guazzo emozionale. Le presentazioni erano state fatte, non vi era da aggiungere altro, come se entrambi dovessero disporsi al dialogo (l’uno) e all’ascolto (l’altra).
<<..Non credevo dovesse finire in questo modo..>>
L’incipit del padre di Andrea era stato tracciato. L’uomo pronunciò quelle semplici parole cercando di rialzarsi dalla sua posizione e, un po’ aiutato da Lucia, quasi le chiese di fargli strada. Entrarono nell’appartamento di Anna e raggiunsero la cucina. Qui, seduti uno di fronte all’altra, si osservarono in silenzio, nel silenzio della casa.

****

Anna continuava a guidare senza meta.
Andrea iniziò a parlare e, stavolta, aveva perso il tono concitato delle ultime ore. Sembrava più rilassato.
<<..Non avrei mai pensato che potesse accadere così..>>

*****

Lucia ascoltava l’uomo senza nome dal volto segnato, non chiese nulla, non domandava nient’altro, aspettava che lui dicesse qualcosa, poiché qualcosa le avrebbe detto. Al momento, le bastava perfino quella curiosa forma di silenzio.
Il padre del ragazzo, tra un gemito ed un sospiro affannato, non raccontò di sé e nemmeno di quello che era accaduto. Si limitò a riacciuffare il mutismo che incombeva in quell’ambiente dandogli coerentemente un suo proprio respiro, assecondandolo, parlando con calma, lentamente, misurando le parole.
Aveva scelto di non scegliere quale vita condurre con Andrea e se l’era vista semplicemente scorrere addosso aspettando che le cose cambiassero. Quasi tutti fanno così e, quasi tutti, restano fatalmente delusi da un cambiamento che non arriva mai. Le cose della vita si modificano con una lentezza impressionante e ci si aspetta sempre che un avvenimento improvviso possa garantirci il nuovo. Così adesso sosteneva l’uomo. Così ora lo ascoltava Lucia senza alcun imbarazzo come se fosse del tutto naturale che le venisse raccontata una storia, purché fosse una storia e purché attraverso essa lei potesse specchiarcisi e vedervi -specchiata- Anna, la sua Anna.
Volere del bene a qualcuno, questo asseriva lui, è un affare tremendamente difficile e, di solito, lo si fa a metà. Si vuole bene a metà perfino ad un figlio quando non si riesce ad accettarlo per quello che è o per quello che è diventato. La non accettazione di una diversità, una qualunque, impone la scelta del voler bene a metà, ecco l’errore, e, correlativamente, la lotta dell’altro -Andrea- nel farsi accettare per quell’altra metà rifiutata. Una lotta senza vincitori, né vinti, una battaglia quasi giornaliera dove i pensieri dell’uno mai si mescolano nei pensieri dell’altro perché, con devastanti contrapposizioni, si continua a vivere in una specie di trincea. Nessun silenzio potrà mai essere sufficiente a far tollerare le reciproche diversità dell’uno e dell’altro, dell’uno contro l’altro. Un figlio ed un padre, due monadi contrapposte per sempre e senza alcuna possibilità di incontro. In tal modo, progressivamente ripieni di una consapevolezza accantonata, si deraglia seguendo un moto lento, ma inesorabile. Qui, in questa trincea, nessuno perdonerà mai nessuno e ciò che accade, ciò che succede, è proprio il cambiamento inaspettato. Esso, però, diventa la vincita ad una lotteria rovesciata: un premio al contrario.
<<..Anna..è con Andrea, vero?>>
Lucia non aspettò alcuna risposta. Offrì del caffè a quell’uomo e, a propria volta, se ne versò un po’ in una tazza. Lo sorseggiarono senza parlare.
<<..Non sporgerò denunce contro nessuno. Se questo la tranquillizza. Ora, vorrei andare..>>
il padre di Andrea uscì barcollando e tenendo una mano sul viso. Lucia lo accompagnò sino alla porta e aspettò che scendesse le scale prima di chiudere la porta di casa.
Da quel giorno, non avrebbe più condiviso il suo silenzio col silenzio di Anna.
Un altro legame si era interrotto.
E cosa le rimaneva, infine? Un ricordo istantaneo di tutto ciò che l’uomo dal volto segnato aveva appena terminato di raccontarle. Dettagli, insulsi, di un’aggressione furibonda provocata -prima- e subita -dopo-. Una alternanza di fatti, descritti minuziosamente, ma senza trasporto, una cronaca, solo una cronaca. Certo, lo stupore per la reazione violenta in cui Lucia aveva potuto immaginare Anna, era riuscito perfino ad acuire una moderata curiosità ma, tutto sommato, quel che adesso realmente restava erano solo alcune precisissime parole pronunciate dal padre di Andrea poco prima del commiato. L’uomo aveva parlato dell’amore; più che altro, aveva descritto un suo amore, quello nei riguardi del figlio, e Lucia, fatalmente, si era specchiata in quella narrazione così lucida ed analitica, deprivata di lacrime. Un amore matematico, lo si sarebbe potuto definire. Sì, una sub specie di ossimoro, non del tutto nascosto: l’amore matematico, una perfettissima figura retorica apparentemente impossibile da realizzare, compiutamente, nella vita reale, ma efficacemente presente nella realtà di ogni giorno, almeno, in quella di Andrea e di suo padre.
Lucia constatò quanto potesse essere stata vicina alla matematicità dell’amore che aveva nutrito e che nutriva nei riguardi di Anna.
Così come quell’uomo aveva amato il figlio, facendo finta di non accorgersi della diversità di Andrea, così lei, adesso, poteva apprezzare, per se stessa, la stessa identica relazione che aveva colorato il rapporto tra lei ed Anna. In fondo, in un caso, come nell’altro, non si era trattato se non di un amore condizionato: i due distinti termini relazionali di questa improbabile equazione tra persone comunque diverse, avrebbero potuto continuare ad esistere solo, e solo se, si fossero svolti, in una condizione di reciprocità perfetta, in modo tale da percorrere condizionatamente una vita del tutto sfornita di novità; il nuovo spaventa ed allontana. Lì, nel rapporto tra Andrea e suo padre, la non accettazione della omosessualità del ragazzo aveva segnato la fine di quella famiglia, qui, tra Lucia ed Anna, la non accettazione della fine di una relazione di dipendenza simbiotica, aveva determinato la fine di questa famiglia. Lucia considerò come, in entrambi i casi, si fosse imboccata la strada della tripartizione esistenziale, esattamente come aveva sostenuto il padre di Andrea: al dolore, causato da una scoperta, avrebbe fatto seguito un’espiazione per assaporare, meglio e più intimamente, la scoperta stessa della novità -mai accettata-; infine, ma non sempre, sarebbe potuto accadere che una sorta di conclusiva redenzione di un animo ammalato di dolore, avrebbe segnato la fine della espiazione stessa.
Ma, forse, anche no.
Lucia ebbe una vaga sensazione di freddo mista alla percezione della impossibilità che quella tripartizione esistenziale potesse mai verificarsi e, in questo dubbioso pensare, si assopì su di un divano, appoggiando la nuca sulla spalliera. Sognò, iniziò a farlo, per stanchezza, con addosso l’ossessione di quella impossibilità e ricordò, per un breve istante, una cosa che aveva sentito alla radio qualche tempo addietro mentre sfaccendava in cucina, in quella casa: la tripartizione di un angolo era un problema geometrico irrisolto ed irrisolvibile.
Amore matematico e tripartizione dell’angolo, due cose per le quali valeva la pena di dormire un po’.
Avrebbe, in seguito, pensato a cosa fare per cercare di rintracciare Anna e Andrea.
Ma, forse, anche no.

*****

<<Perché dici questo..?>>
Anna restò un po’ sorpresa dalle parole che il ragazzo aveva pronunciato a mezza voce.
Quel che scaturì dalla voce di Andrea fu un sublime delirio di parole spezzettate, come se il suo eloquio avesse finalmente ritrovato un coerente equilibrio adolescenziale. Il rumore del motore, il brontolìo meccanico di quel guscio metallico in cui i due si lasciavano trasportare, accompagnava il raccontare.
Ma le parole mangiavano le parole, come se Andrea fosse sotto l’effetto di qualche tranquillante, di quelli che finiscono col farti riposare il corpo e non il cervello e ti insalivano la bocca di una saliva pastosa, calda. Parole a turno che seguivano un turno espositivo senza neanche troppa cura nell’esporle. Neanche a dire che fossero contorte ma men che mai misurate; in questa linea centrale lui parlava di sé riflettendosi di continuo negli ipotizzati pensieri paterni. Il biasimo, la disperazione, il dolore e, infine, la censura. Più giù, ben oltre tutta questa riprovevolezza, il silenzio mortale tra due anime diverse. La negazione di un rapporto, pur nella costante presenza di una relazione semplicemente biologica: padre-figlio-figlio-padre e niente altro. Il silenzio di una relazione in una cornice di aspettative deluse. La violenza finale in cui Anna s’era ritrovata ad operare aveva rappresentato una mera accidentalità conclusiva di ciò che era chiuso da tempo. Anche il silenzio, se per lo più non può che prepararsi ad altro silenzio, sebbene di quella stessa qualità ed intensità di cui il primo è infarcito, può perfino trasmutare in altro genere di silenzio: quello della fuga, della fine determinata da una fuga. Forse era questo che Andrea considerava come impensabile. Un’abitudine al silenzio, quella del ragazzo con suo padre, lo aveva lasciato del tutto impreparato al cambiamento, ancorché il cambiamento stesso lo avesse immaginato e desiderato più e più volte.

Andrea si interruppe, riacquistando improvvisamente la sua naturale irruenza, per segnalare ad Anna la presenza di un hotel in cui avrebbero potuto trascorrere la notte. Avevano percorso molta strada dacché erano usciti dal bar e il pomeriggio oramai inoltrato preparava la giornata alla notte.
Entrarono nel piccolo parcheggio antistante la reception. Anna spense il motore. Si avviarono verso l’entrata concordando, prima di aprire la porta a vetri, che avrebbe parlato solo lei.
L’impiegato, che poteva anche essere il proprietario di quel piccolo albergo, fece poche domande e si accontentò della spiegazione che gli aveva fornito la donna. Non fece alcun commento sul fatto che lei potesse viaggiare col fratello minorenne e consegnò loro le chiavi della stanza mentre terminava di annotare sul registro delle presenze i soli dati anagrafici di Anna. L’uomo della reception non notò neppure che quei due viaggiavano con un unico borsone al seguito.
Salirono in stanza senza parlare e, in silenzio, si sedettero sui letti di quella camera doppia senza pretese di quell’anonimo hotel privo del benché minimo lusso. Nessuno dei due confessò all’altro di aver potuto pensare la stessa identica cosa: quella camera, in un passato neanche troppo remoto, aveva di sicuro accolto coppie occasionali, amanti divorati dal fuoco della ossessione sessuale, ovvero, dalla passione per i nascondimenti amorosi, ovvero, infine, per l’una e l’altra cosa insieme. L’odore di quell’ambiente richiamava simili pensieri. Anna ed Andrea si osservarono per un breve istante, giusto il tempo di scambiarsi quel pensiero e confermarselo reciprocamente. Sorrisero.
Andrea cercò un televisore ma l’hotel non contemplava simili lussi. Gli venne fame e propose ad Anna di andare a cercare un posto dove poter cenare. Lei parve non ascoltarlo. Pur restando seduta, passava in rassegna la stanza e, nel farlo, si concentrò sull’odore che aveva nettamente avvertito non appena aveva messo piede lì dentro. L’aria, che propriamente non puzzava, era impregnata di qualcosa ancora indecifrabile; Anna non riusciva a capire bene, non ancora. Non era un odore di muffa o di umidità, ma neanche di fresco o di pulito. In realtà era l’una e l’altra cosa assieme, meglio, erano le une e le altre cose che si miscelavano tra loro, si aggiungevano reciprocamente, senza che vi fosse una prevalenza ora delle une, ora delle altre: la muffa ricopriva il pulito e questo stava addosso alla muffa. La miscela odorosa che ne scaturiva colpiva, proprio per quella caratteristica di novità olfattiva, le narici della donna, pur senza aggredirle. Un odore che si lasciava odorare. Da lì erano passate numerose persone, questo era certo. Era proprio vero, constatò Anna, che ciascuna di esse, avendo lasciato tracce e memorie di sé, aveva finito con l’impregnare la camera di ogni genere di sapore o di odore. A quelle tracce e a quelle memorie, pur involontariamente lasciate in eredità ai successivi ed occasionali visitatori, si sarebbero aggiunti anche i segni del suo passaggio con Andrea.
Una misera camera di albergo riusciva, adesso, a contenere, quasi fosse diventata un filtro spessissimo, le sia pur complesse ed articolate emozioni che accompagnavano i due nuovi ospiti dell’albergo.
D’altronde, persino i pochi mobili che arredavano la camera parevano essere stati messi lì per essere i custodi e le spugne assorbenti di ogni emozione, di ogni sensazione, di qualunque secrezione chimica od organica, lasciati lì di passaggio. Né il letto, né quel ridicolo armadio plasticato, né l’unica sedia in legno, avrebbero potuto svolgere alcuna altra funzione se non quella di vigilare gli ospiti e di assorbirli con la immobile discrezione tipica di un oggetto anonimo, uguale a tanti altri. Un preciso sistema di aggottamento, solo che qui, invece di levare acqua, si toglievano -in parte-, senza neanche troppo rumore e col pieno consenso dei personaggi, le emozioni e le loro stesse memorie. Una specie di organismo inanimato ma pensante programmato per restituire, in seguito, e attraverso un rilascio lento e calibrato, ciò che era stato assorbito durante le varie permanenze di chiunque avesse sostato, anche solo per qualche ora, là dentro.
Ecco, l’odore della stanza era stato decifrato: era l’odore delle permanenze miscelato a tutte le altre permanenze e al respiro della camera e dei suoi mobili; una funzione costante, inarrestabile: assorbimento-rilascio.
Anna si alzò dal letto e ispezionò il bagno mentre Andrea, abbandonata definitivamente la sua inutile ricerca del televisore, non avendo ancora ricevuto risposta in merito al mangiare, si era disteso sul suo letto, senza nemmeno sfilarsi le scarpe.
La donna, come aveva immaginato -e sorrise tra sé per questo-, notò che il bagno era minuscolo. Non era stato istallato nemmeno un piatto doccia. C’era un buco sul pavimento ricoperto da una piccola griglia metallica posto sulla verticale di quello che doveva essere l’imbuto rovesciato e bucherellato della doccia: un tubo di zinco si staccava dalla parete per circa cinquanta centimetri e terminava con un affare di metallo che aveva perso, da tempo, la sua cromatura. L’aggeggio somigliava ad un annaffiatoio.
La tazza del water ed il lavabo erano piccoli, sottodimensionati, probabilmente scelti così per via della piccolezza dell’ambiente; entrambi costituivano l’arredo sanitario del bagno.
Anna prese lo sgabello di plastica posto di fianco alla tazza (un inutile oggetto quasi lasciato lì per caso) e si sedette di fronte allo specchio appeso sopra al lavandino. Appoggiò i gomiti sui bordi ingialliti e osservò la sua faccia riflessa nel vetro. Tutto sommato, pensava, non era un posto poi così lurido, sebbene la lampada al neon che rumoreggiava e friggeva sul soffitto, favoriva la sua constatazione: quella luce fredda e tremolante mascherava e mimetizzava la sporcizia nascosta -la più tenace, almeno-, quella che nessuno avrebbe mai potuto eliminare. Anche lo sporco, in fondo si apparteneva coerentemente a quell’intero organismo inanimato e, quel bagno, altro non era se non una accidentale sottrazione di spazio, allo spazio della camera.
Andrea, di là, guardava il soffitto giallognolo e lievemente rigonfio in alcuni punti vicino agli angoli.
Non chiese più di volere andare a mangiare ma decise di alzarsi e raggiunse Anna in bagno. Le si mise alle spalle e la guardò attraverso lo specchio. Lui sorrideva. Teneva in mano un paio di forbici, di quelle che si usano per tagliare le unghie.
<<Le hai prese dal mio borsone?>>
Andrea fece un cenno con la testa senza risponderle; continuava a sorridere. Anna non capiva bene cosa volesse fare con quel piccolo arnese ma si accorse che Mercurio aveva iniziato a tagliarsi i capelli, ciocca dopo ciocca. Le faceva cadere in terra senza preoccuparsi di nulla mentre continuava a guardarsi allo specchio senza parlare.
Terminata l’opera, col cranio quasi completamente rasato, proruppe in una risata divertita. Anna si era alzata per andare a prendere una sigaretta e, appoggiata sulla porta del bagno, mostrava un calmo divertimento. Si godeva la scena ma intuiva che Andrea stava per proporle dell’altro.
<<Tagliali anche tu, dai, così sembreremo per davvero fratello e sorella>>
Anna, che curava di assecondare se stessa in questo clima così calmo, non gli rispose ma si riaccomodò sullo sgabello e invitò il ragazzo a prendersi cura dei suoi capelli. Lo lasciò fare, fumandosi placidamente la sua sigaretta.
Non era certo un taglio di capelli che avrebbe potuto renderla più inaccettabile al mondo rispetto a quello che lei stessa offriva al mondo. Si lasciò curare.
Il bagno faceva davvero schifo adesso. Un cumulo di capelli giaceva su quel pavimento lurido ma nessuno dei due parve preoccuparsene più di tanto. La vita scorreva e cadeva in avanti esattamente come erano caduti quei capelli: un lentissimo andare preceduto da un galleggiare nell’aria, un barcollio leggero con lievi spostamenti rispetto ad ogni prevedibile direzione.
Andrea si abbassò e avvicinò la propria faccia a quella di Anna. Si specchiavano insieme e, insieme, sorridevano.
<<Visto? Adesso siamo quasi uguali..>>
Anna non ebbe voglia di dirgli che la misura di quel quasi, come di ogni altro quasi, era di un’ampiezza così spaventosa da non poter essere nemmeno espressa. O la si intuiva o non vi era spazio per spiegazioni insulse. Preferì, pertanto, sorridere del gesto che Mercurio aveva appena fatto, lo assecondò ancora una volta, e assecondò ancora una volta se stessa entrando in quel gioco di apparenze e somiglianze. Un modo come un altro per scomparire, nulla di più; stavolta, almeno, si trattava di farlo con consapevolezza. Semplicemente, lo si faceva.
Ma, forse, anche no.
Andrea aveva fame e le propose di nuovo di uscire. Prima di farlo, nell’infilarsi il cappotto, lei si ricordò che aveva qualcosa in tasca: era la mela che aveva rubato in quel suo libero girovagare pomeridiano.
-Quanto tempo era passato? Le pareva un’eternità-.
Gliela porse. Lui la prese e l’addentò. Si avviarono alla macchina passando davanti al portiere che li osservò con noncuranza. Era effettivamente l’uomo delle “noncuranze”, pensò fra sé Anna.
Andrea terminò il suo pasto durante il breve tragitto che li condusse in una specie di autogrill.
Fu Andrea che scelse il cibo. Della carne, un po’ di pane, un dolce al cucchiaio. Anna lo seguiva senza partecipare alla scelta, né lui si era preoccupato di chiederle nulla. Individuarono un tavolino lontano dagli altri posto vicino ad una grande vetrata e vi si accomodarono.
Mercurio si avventò letteralmente sulla carne accompagnando il suo mangiare col pane, intingendolo nel sugo che aveva formato una piccola pozza nel piatto. Mangiava senza parlare e Anna lo lasciava fare.
Il cibo fu consumato in un lampo e Andrea si concesse solo una piccola pausa per bere avidamente dell’acqua. Si asciugò la bocca con una salvietta di carta e, dopo aver messo di lato il piatto che conteneva la carne, prese il budino.
Fu a quel punto che chiese ad Anna se volesse assaggiarne un po’. La soddisfazione del bisogno primario era stata placata ed ora poteva dedicarsi a lei. La domanda non attese risposte. Avvicinò il cucchiaio ricolmo di budino alle labbra di Anna. Una specie di rito che si era già svolto pochissime ore fa si andava ripetendo. Lei, si fece imboccare senza protestare.
Solo alcune persone che passavano lì vicino si voltarono a guardare la scena. La curiosità era abbastanza prevedibile e, tutto sommato, innocua. Andrea non si curava minimamente di loro e continuava a dar da mangiare alla donna senza mostrare il minimo segno di distrazione. Era concentratissimo e la nutriva con naturalezza.
Erano ormai infilati in un tempo senza rimpianti. Bellissimo, privo di qualunque pensiero sul dopo, sia pure fortemente intriso di pensieri sul prima. Al momento, però, potevano disinteressarsene.
Il momento del pasto era terminato. Andrea si leccava il cucchiaio tutto soddisfatto. Anna smaniava dalla voglia di accendersi una sigaretta.
Lo precedette all’uscita.
Cosa restava loro da fare se non rientrare in albergo?
Ma, ancora una volta (e chissà quante altre in seguito), il caso, massimo regolatore di ogni disperazione umana, decise di intervenire.

Nessuno, in realtà, pensa mai a sufficienza agli interventi del caso, sia quando esso si mascheri dietro la romantica figura del destino (nome privo di senso se non fossero gli uomini ad attribuirgliene uno e, tutto sommato, anche più di uno), sia pure quando -smascherato- non assuma vesti particolarmente piacevoli. Ed allora, così denudato, diventa azzardo, gioco pericoloso, lotteria, rischio, rischio calcolato (pia illusione quest’ultima veste), gioco eccitante, piacevole, sensazione di abbandono (solo una sensazione, null’altro). In ogni e qualsivoglia tenuta si presenti, contrariamente a quel che si pensa (Anna non andava esente da simili stupidi pensieri), esso, il caso, semplicemente c’è. Si affaccia, osserva le parti in causa (decide lui quante e quali parti debbano esserci e quanti e quali ruoli debbano assumere), le valuta, le soppesa, le irretisce e le seduce, le conduce verso l’errare. E la doppia valenza della parola -errare- già svela le sottili arti manovratorie che il nostro caso utilizza. Difficile capirne il significato quando si inizia il gioco, quando veniamo cioè ammantati dal gioco: errare ed errare, entrambe le cose, è così che il gioco inizia. Come sottrarci? E se il sottrarsi fosse già un errare? E, ancora, se il non farlo fosse già errare?

L’uomo -giovane- di sicuro più giovane di Anna, la stava scrutando da un po’. Si avvicinò a lei per chiederle, banalmente, di fargli accendere una sigaretta. Emanava un odore animale. La cosa non produsse reazioni di chiusura in Anna che, al contrario, mostrava di voler accettare quella sfida. Ora, qui, non restava altro da fare che lasciarsi avvolgere da questa nube di animalità allo stato puro. Andrea, che era appena uscito dall’autogrill, non ebbe la necessità di chiedere spiegazioni. Il suo sguardo vivace era riuscito perfettamente a cogliere quanto andava accadendo. Salì nella macchina di Anna aspettando che la donna terminasse di parlare con quell’uomo.
Le poche parole scambiate tra i due furono sufficienti per farle comprendere che l’uomo alloggiava nel suo stesso hotel. Anna raggiunse la propria auto, mise in moto e senza dire una parola si diresse verso il suo appuntamento; controllò per un attimo nello specchietto retrovisore e notò che l’uomo li stava seguendo con la propria auto. Andrea non le chiese nulla, Mercurio, però, sorrideva.
Anna decise di non salire in camera e provvide a consegnare le chiavi della stanza al ragazzo. Conosceva già il numero della camera dello sconosciuto. Si diresse verso la sua destinazione contando i passi e si sorprese a sorridere di se stessa: era come se stesse contando mentalmente quante gocce di una qualche oscura medicina allo stato liquido avrebbe dovuto prendere prima di coricarsi. Si ritrovò davanti ad una porta socchiusa. Avvertiva distintamente provenire dal buio di quella specie di antro un rumore sordo, come se si trattasse di un respiro controllato a malapena, come se una bestia l’attendesse lì dentro. Decise di entrare senza riflettere ulteriormente intorno a quello che stava per fare. In fin dei conti, non avrebbe dovuto fare altro che assecondare un suo proprio istinto naturale e prendersi il suo piacere, senza preoccuparsi di regalarne alcuno a nessuno, men che mai a quello sconosciuto. L’uomo era disteso sul letto, a torso nudo, con indosso ancora i pantaloni; fumava una sigaretta e curava di non guardare in faccia quella donna priva di capelli. Anna lo guardò senza alcun interesse e provò, anzi, un certo disprezzo prima ancora che verso se stessa, verso di lui. Il senso dell’approfittamento nei confronti del programmato gesto sessuale galleggiava nell’aria di quella stanza puzzolente, impregnata di odori e che presto sarebbe stata intrisa di altri odori. Null’altro che una somma aritmetica di odori -così pensava Anna-. L’uomo si alzò dal letto lasciando cadere la sigaretta ancora accesa in un bicchiere pieno di acqua e di altre sigarette spente nella stessa maniera. Si avvicinò ad Anna abbracciandola e cercò di baciarla sulle labbra; lei lo allontanò rifiutando ogni genere di contatto che non fosse riconducibile ad un gesto animale: coerentemente al loro preannunciato incontro bestiale, il tutto si sarebbe dovuto svolgere nel più perfetto silenzio, accompagnato, al più, da qualche inevitabile e naturale rantolo o gemito. Lui mostrò di capire immediatamente le intenzioni della donna e, staccatosi da quell’abbraccio rifiutato, si mise dietro di lei. Anna sbottonò rapidamente i pantaloni che le si arrotolarono intorno alle caviglie. Sentiva il respiro affannato e il fiato corto e bavoso dello sconosciuto. L’uomo spingeva la sua erezione verso il bacino di Anna e non chiedeva permessi per entrare dentro di lei, né lei voleva o poteva imporgli autorizzazioni di sorta. Lì, in quei momenti, ognuno pensava per sé, amministrando, senza neanche troppe cautele, il proprio piacere non curandosi -perché poi?- del piacere altrui. Lui la penetrò senza ritegno, lei si fece penetrare senza vergogna, riempiendosi di quella forza bestiale e sconosciuta. Fu costretta dalla violenza di quel primo affondo ad appoggiarsi con le mani al letto, con ciò agevolando l’incontro fra i genitali. Anna era sola e si prendeva ciò che la riempiva di niente: si masturbava, senza neanche sforzarsi di usare le sue mani, utilizzando la zozza bestialità di un normotipo alpha che, a propria volta, supponeva di riconquistare la sua maschia presenza assertiva divertendosi a riempire un buco.
<<…un buco con tanta carne intorno, ecco quello che sono, un buco che mi svuota e mi regala un godimento puntiforme, istantaneo ma soddisfacente>>. Il pensiero che colse Anna, piuttosto che distrarla da quella copula occasionale, finì con l’incrementare la sua eccitazione e le fece aumentare le contrazioni vaginali, facendole desiderare di risucchiare in quel suo buco ciò che la stava riempiendo. L’orgasmo la raggiunse senza preavviso, in maniera intensa, rapida, quasi istantanea. Si staccò dall’uomo, rimettendosi in piedi e, spingendolo di lato, colse per un breve istante lo sguardo allucinato di lui che eiaculava tenendosi in mano il pene rigonfio. Anna, con la stessa rapidità con la quale aveva raggiunto il suo orgasmo, si tirò su i pantaloni e lasciò quella stanza senza voltarsi indietro.
A passo svelto raggiunse la sua camera dove Andrea dormiva da un pezzo. Vestita, si lasciò cadere sul letto, prese il cuscino, se lo sistemò tra le gambe e, assunta una posizione fetale, rimase immobile ad aspettare il suo sonno. Non si era regalata nulla e non aveva regalato nulla. Le cose, anche quel genere di cose, passano sopra i capelli senza lasciare tracce o segni e non si fa nessuna fatica a dimenticare quelle cose poiché, semplicemente, non esistono.
Piccole, inutili parentesi o, meglio, interpunzioni insignificanti, nuvole, null’altro che nuvole. E le nuvole non si sognano, non queste. Non vi è neppure la necessità di aspettare il giorno dopo perché queste scompaiano: esse, in realtà, neanche si formano, al più, si tracciano e possiedono contorni inconsistenti e son prive di volume. Dentro queste nuvole-non-nuvole neanche si galleggia, ci si addormenta. Anna chiuse gli occhi e si lasciò vincere dal sonno, si addormentò.

Anche le nuvole-non-nuvole hanno un prezzo. E il prezzo può coincidere con un risveglio non del tutto dolce. Così accadeva ad Anna in un giorno, quel giorno, un giorno semplicemente successivo a quello precedente. Si aprono gli occhi e si resta immobili durante certi risvegli. Si osserva un soffitto e si rimane fermi, schiacciati da un soffitto e da tutta l’aria che, dal soffitto, arriva sino ad un corpo appena uscito dal sonno.
Anna non aveva sognato nulla, poiché non aveva nulla da sognare.
Restò comunque immobile ad ascoltare il respiro rumoroso di Andrea, allungò una mano per prendere il pacchetto di sigarette che aveva lasciato sulla piccola mensola vicino al letto e se ne accese una. Tossì subito dopo aver aspirato il fumo e volse istintivamente la testa verso il suo Mercurio. Non voleva svegliarlo, non aveva voglia di parlare con lui.
Si sentì improvvisamente sporca ma decise ugualmente di sopportare quella sua condizione: in fondo, l’uomo senza nome della notte precedente non l’aveva insozzata. Al ricordo, le sue labbra si contorsero in una specie di ghigno. Sperò in cuor suo di non doverlo incontrare giù nella hall. Immaginò perfino la partenza dello sconosciuto durante il primo albeggiare. Magari era un rappresentante di commercio che doveva raggiungere i suoi clienti. Magari era proprio un rappresentante di commercio. <<Magari…>>.
Anna non stava benissimo ed il superlativo, stavolta, era veramente efficacissimo.
Qual era la vera condizione dell’equilibrio? Probabilmente non esisteva, forse non ne esisteva solo una. Non si sorprese neanche un po’ a pensare alla sua scopata come ad un pasto.
“Cos’è che si mangia più e meglio di ogni altra cosa? Cosa con più gusto si porta alla bocca e cosa con altrettanto e sapiente gusto si offre al gusto stesso? L’anima? Il cervello? Le due cose assieme e, insieme ad esse, un corpo? E quanto si deve masticare un brano, ogni singolo brano? Sei volte per l’anima e Sei volte per il cervello e, infine, Sei volte per il corpo. Sei, Sei e ancora Sei. Seducente sequenza di Sei: 666, sei volte, per sei volte sei. Già…”

Le nuvole-non-nuvole, quelle che hanno un prezzo, avrebbero potuto rappresentare una discreta condizione di equilibrio, tuttavia, il prezzo che imponevano, le allontanava dall’equilibrio stesso. L’equilibrio, già. E quale? Quello esterno all’animo di Anna? Ed esiste, poi, un equilibrio esterno, di quelli che si impongono ed avvolgono?
Anna non avvertiva alcun odore, né il suo, né quello dell’uomo da cui si era fatta masturbare. Ne restò sorpresa ma neanche tanto e la sorpresa si trasformò ben presto in compiacimento. S’era presa quello che voleva, un briciolo di piacere istantaneo, senza un inizio o una fine, una breve fisiologica parentesi di nulla. L’assenza di ogni odore finì col piacerle ma aveva bisogno ugualmente di acqua.
Si alzò dal letto per andare in bagno e passò vicino alla finestra che guardava il piccolo parcheggio antistante l’entrata dell’hotel. La macchina dello sconosciuto non c’era più, l’uomo, il rappresentante di commercio, era andato via.
Si mise sotto il getto di acqua calda che usciva irregolarmente dalla doccia e rimase immobile. Lavava via tutto, anche quello che non c’era, gli odori che non aveva percepito, i sapori che non erano stati assaggiati, si riappropriava della sua memoria e lo faceva attraverso l’acqua. Anna si riprendeva una sua memoria pur nell’assenza di un ricordo pregnante: l’acqua la favoriva, ammorbidiva i contorni del suo stesso pensare e le restituiva una comoda e seducente via di fuga.
Terminò la doccia, si asciugò velocemente e ritornò in camera.
Andrea, nel frattempo, si era svegliato.
Mezza avvolta in un asciugamano si sedette sul letto. Il ragazzo sbadigliava rumorosamente, probabilmente aveva voglia di fare colazione. Senza dire una parola, si alzò dal letto e si diresse verso Anna. La abbracciò, lei si fece abbracciare. Si annusarono per un po’ con grande tenerezza, immersi com’erano in quell’oceano di prospettive nulle, pari allo zero.
Andrea le sussurrò in un orecchio che voleva mangiare qualcosa, lei sorrise continuando a stringerlo in quell’abbraccio e gli suggerì di prendere dei soldi dalla tasca dei suoi pantaloni.
Mercurio la baciò sulla guancia, si staccò da lei e raccolse i pantaloni di Anna che giacevano attorcigliati sul pavimento. Frugò nelle tasche e non trovò nulla. Andrea guardò la donna con aria interrogativa.
<<Qui non c’è nulla…e nemmeno la tua carta di credito>>.
Piccoli insulsi ed inutili intoppi, denaro che sparisce, carta di credito volatilizzata, insulsi ed inutili intoppi, così pensava Anna, mentre, sbigottita osservava la faccia di Andrea che aspettava una risposta. E probabilmente non c’era nulla da dire o da rispondere, considerato che la donna già immaginava quello che era accaduto. Il fatto (perdita o furto che fosse) si era consumato nella stanza dello sconosciuto quando si era fatta scivolare i pantaloni nell’attesa di essere penetrata dal nulla. Tutto qui, molto semplicemente lo sconosciuto aveva raccolto da terra ciò che, nello stesso modo, solo un attimo prima, aveva raccolto nelle sue mani. Adesso, lui non era più in albergo, così come non c’erano più né i soldi né la carta di credito.
Andrea parve accogliere la notizia con una malcelata indifferenza; probabilmente, e più di ogni altra cosa, desiderava riempirsi lo stomaco.
Anna non si curò nemmeno di controllare se, per caso, avesse messo i soldi da qualche altra parte; era così sicura di quello che era successo che non perse tempo a cercare altrove. La frenesia l’aveva da tempo abbandonata in qualche altra vita. In questa, si limitava a pagare prezzi, pur se riferibili a lievi nuvole-non-nuvole, anche se soltanto appena un po’ passeggere. Il vero senso di libertà coincideva anche con questo lento e rassegnato pensare, deprivato da qualunque indagine sul <come> o sul >dopo>, era come trovarsi immersi in un liquido acquoso dove i rumori si spegnevano immediatamente e senza lasciare eco. Il vero senso della libertà non contemplava rimbombi, ci si acquietava in questo docile andare senza perché e il liquido acquoso imprigionava ogni memoria, anche quella più istantanea, per custodirla senza mai doverla restituire al mittente. Anna ringraziò in cuor suo Andrea; lo ringraziò per l’assenza di domande sul <come> e sul <dopo> e lo fece entrare in quel suo liquido acquoso. Insieme, privi di memoria, ma in una memoria affidata all’acqua in cui, pacatamente, viaggiavano. Mercurio, d’altro canto, era bravissimo a navigare a vista e navigare sott’acqua era piacevolissimo. Navigavano con moto smorzato e costante, si tenevano per mano senza tenersi per mano, non c’era bisogno di farlo poiché l’acqua li teneva uniti. Un moto smorzato e costante in una perfetta complicità acquosa.

Il conto dell’hotel, fortunatamente, era stato pagato la sera prima all’arrivo e non ebbero, perciò, alcun problema a lasciare quel posto.
Andrea suggerì di rivendere l’auto, col ricavato avrebbero potuto tirare avanti per un po’. Come al solito, il ragazzo, ottimo navigatore, organizzava il quotidiano di entrambi.
Anna annuiva, lo assecondava.
Percorsero qualche chilometro prima di imbattersi in una rivendita di auto usate.
Scesero dall’auto concordando che sarebbe stato Andrea a trattare col rivenditore. Mercurio avrebbe mostrato di sé il lato migliore. Il commerciante, invitato dal ragazzo, ispezionò sommariamente la macchina di Anna, poi, la invitò a seguirlo in un locale attrezzato ad ufficio. Le fece firmare alcuni documenti, discussero ancora sul prezzo sebbene Andrea avesse già definito il tutto, le disse che avrebbe fatto recapitare la definitiva documentazione attestante la vendita presso l’abitazione di Anna e, consegnatole il denaro, salutò i suoi venditori con una calorosa stretta di mano.
Anna contò le banconote e ne diede alcune ad Andrea. Ora, finalmente, Mercurio poteva fare colazione. Tutto soddisfatto per l’affare appena concluso, si diresse, trotterellando, verso un piccolo bar che si affacciava sulla strada, posto quasi a ridosso della rivendita delle auto usate. Anna camminava più lentamente a qualche passo di distanza dal ragazzo. La giornata era illuminata da un sole opaco ma non pareva dovesse piovere.
Andrea si riempì lo stomaco con due o tre dolci rinsecchiti che giacevano su di un vassoio privo del classico coperchio trasparente mentre Anna, incurante di ogni divieto, fumava una sigaretta e sorseggiava il suo solito caffè. Si fecero dare poche, asciutte spiegazioni circa la più vicina fermata di pullman da un omone alto e grasso che stava finendo di bere rumorosamente un bicchiere di latte. Il tipo, appollaiato sullo sgabello, non si curò neanche di guardarli in faccia e si limitò ad indicare la direzione da prendere con un breve e rapido cenno del capo.
Andrea pagò il conto e attese che Anna spegnesse la sigaretta nella tazzina del caffè. Non colsero lo sguardo di rimprovero del barista e si avviarono, camminando uno di fianco all’altra, verso la loro nuova meta.
Senza neanche sapere dove andare, poiché conoscere di una qualunque direzione da prendere era un atto del tutto inutile, attesero l’arrivo del pullman.
Su quella strada passavano poche macchine e si riusciva a sentire il rumore del motore molto tempo prima di vederle e molto tempo dopo la loro scomparsa sul filo dell’orizzonte di quel lungo rettilineo. Andrea si era seduto su di una specie di paracarro, aveva accavallato le gambe e canticchiava qualcosa di incomprensibile. Anna, chiusa nel suo cappotto, guardava la strada verso il punto da cui, presumibilmente sarebbe comparso il mezzo che avrebbero preso di lì a poco. La tabella posta sul palo giallo recava un’indicazione circa l’ora di arrivo. Si accese un’ennesima sigaretta pensando che tra breve non avrebbe più potuto farlo.

La sagoma di quella che sembrava essere una vecchia corriera sgangherata e rumorosa si affacciò in lontananza, alla loro sinistra. Sbuffava come una vecchia locomotiva e il motore a nafta lanciava come dei segnali di grave affaticamento asmatico. La qualcosa strappò ad entrambi un sorriso.
Non c’era tempo di decidere se montare su o meno. Lì si decideva di seguire un flusso. Il pullman arrestò la sua corsa con un gran stridio: i freni dovevano essere certamente sotto sforzo massimo.
Si accomodarono su dei sedili in plastica imbottiti ma duri. Il bisonte rumoroso ripartì immediatamente con un contraccolpo abbastanza energico che fece scricchiolare le viti che avrebbero dovuto assicurare una certa stabilità alla doppia fila di quei sedili.
Anna e Andrea avrebbero chiesto in seguito ulteriori informazioni al bigliettaio. C’era una enorme quantità di tempo da usare.
Andrea si era seduto vicino al finestrino e aveva appoggiato il capo sulla spalla di Anna. Le gli accarezzava la testa facendo scorrere la mano, con le dita aperte, sui capelli cortissimi del ragazzo. Istintivamente la donna portò l’altra mano sulla sua testa e percepì la stessa sensazione tattile che il contatto con Andrea le stava restituendo. Lui guardava il panorama, tutto uguale, che scivolava lentamente sul vetro sporco di quella corriera. Si faceva accarezzare e si godeva quel momento.
<<Mi è piaciuto sentire il tuo abbraccio stamattina…>>
Andrea pronunciò quelle parole quasi senza muovere le labbra; si stava assopendo ma controllava -cercava di farlo- il torpore che lo assaliva.
Ricominciava a piovere.
Si nutriva del rumore della pioggia e provava ad intuire il ritmo di quell’acqua che sbatteva sul vetro. Iniziò a tamburellare con le dita andando in contro tempo rispetto alla melodia sorda della pioggia che colpiva il finestrino. Fuori, i colori del paesaggio si stemperavano e degradavano in una dimensione cromatica grigio-verde. L’acquosità non era spiacevole e finiva persino col rassicurarlo: lo avvolgeva lentamente e lo coccolava piano, esattamente come la mano di Anna che continuava a carezzarlo. Immaginava l’odore di fuori e lo immaginava misto agli odori di quella corriera ballonzolante e silenziosa ad un tempo.
Andrea pensò alla coerenza del fuori e a quella del dentro e il suo pensare disorganizzato si lasciava influenzare dalle immagini rapide e fugaci che percepiva.
Lui, che fino a quel momento aveva guidato se stesso ed Anna e che si era mosso istintivamente, spostandosi da qualcosa senza preoccuparsi di giungere a qualcosa, si lasciava, adesso, trasportare. Non aveva con sé nessun genere di idea da districare o da esporre, né pensieri da giustificare, né emozioni da tacere nel timore di incassare reazioni rabbiose. Il padre era così lontano, disperso in quel qualcosa dal quale era andato via. Si sentiva uguale ad Anna, pur non comprendendone appieno la ragione: entrambi erano andati via e questo li rendeva simili -così pensava- e questo gli bastava. Consentiva ad Anna di fare quello che il padre forse non aveva mai fatto con lui. Quelle carezze così sapientemente regalate dalla donna lo rappacificavano col mondo e non aveva bisogno di ringraziarla per quei gesti spontanei. Si muovevano in perfetto sincronismo -così pensava sorridendo-.
<<..anche a me è piaciuto abbracciarci..>>
la voce di Anna gli sembrò essere una perfetta sottolineatura in quel momento e, per tutta risposta, le fece di sì col capo.
Completamente immerso in questo veleggiare lento, Andrea non si era neppure accorto della breve contrattazione che, nel frattempo, Anna aveva intrapreso col bigliettaio. La donna aveva acquistato due biglietti che avrebbero assicurato loro la più lunga percorrenza possibile, salvo ripensamenti nel corso del viaggio. A pagamento effettuato, l’uomo dalla divisa un po’ spiegazzata e sporca, si rassicurò distendendo i lineamenti del volto. La presenza di quei due dalla testa rasata, evidentemente doveva essere una cosa abbastanza insolita per chi, d’abitudine, perforava biglietti per pendolari o per uomini e donne anziani.
<<..Io e mio fratello siamo in vacanza..>>
Anna si era sentita in dovere di fornire una qualunque spiegazione plausibile al bigliettaio. Lui, peraltro, non si curò nemmeno di risponderle, né le regalò alcun sorriso di circostanza. Grugnì qualcosa, a mezza voce, una specie di sì e si rivolse ai passeggeri della fila opposta, dandole le spalle.
Anna si sentì una stupida. Sbuffò rumorosamente e desiderò accendersi una sigaretta. Sbuffò una seconda volta ricordandosi di non poterlo fare.
Andrea si voltò solo per un momento, giusto il tempo di sorridere ad Anna che lo ricambiò facendogli un occhiolino complice. Il ragazzo notò che la divisa del bigliettaio aveva lo stesso colore del cielo grigio là fuori. Si risistemò sul sedile, allontanandosi da Anna che, invece, lo invitò a riappoggiare la testa sulla spalla.
<<Riposati, non preoccuparti, non sto scomoda..>>
l’odore di Anna gli piaceva, lo rassicurava, tutta quell’avventura lo rassicurava. Per la prima volta in vita sua (una breve vita) non avvertiva più il bisogno di dover inventare scuse, né nascondersi e neppure doveva pensare a come o quando compiacere qualcuno, mostrando di sé quello che, da qualche anno, aveva scoperto di essere.
Il senso del peccato, o quello della delusione che aveva visto progressivamente crescere negli occhi di suo padre, finalmente, andava sbiadendosi.
Trasse un respiro profondo e lo fece così spontaneamente che, quasi, si sentì in dovere di spiegare ad Anna ciò che dietro quel respiro liberatorio si nascondeva.
Anna, però, non gli domandò nulla.
Andrea era felice.

Scorreva la corriera su quella strada poco trafficata e scorreva pure il tempo della corriera e dei suoi ospiti accidentali. Cose viste e cose da vedere, e anche quelle da non vedere magari solo perché già viste, insomma un viaggio come tanti, uno di quelli senza prospettive di arrivi in luoghi fantastici, quelli da raccontare al ritorno. Qui, tuttavia, neanche era ipotizzabile un racconto perché non vi era un ritorno programmato. Tutto si svolgeva senza programmi e così doveva essere, quanto meno per dichiarare a se stessi (Anna e Andrea) di essere stati coerenti con se stessi. Neanche si poteva parlare di una fuga, poiché mancavano del tutto gli elementi caratteristici da cui scappare. Mancava un nemico, ad esempio (chi era o poteva essere il nemico di Andrea? Forse il padre?), così come mancava un mero pericolo. Fuggire da se stessi non sarebbe potuto essere un valido motivo. Nemmeno quello lo era. Si trattava, perciò, semplicemente di un muoversi, né in avanti, né indietro. Era un andare, e lo si metteva in atto facendosi risucchiare ora qui, ora lì, ora (adesso) dentro una corriera. L’occasione, il mero caso, avrebbero regolato, e ancora una volta, un arresto, uno stop.
Per il momento il paesaggio circostante non suggeriva nulla di ciò ad Andrea. Quanto ad Anna, lei attendeva che il ragazzo decidesse cosa fare. Preferiva disinteressarsi del come, del dove e del quando. Si muoveva senza interesse, andava.
Così, era bello andare.
All’interno della corriera si andava in silenzio. L’autista, di tanto in tanto, si fermava per far scendere o raccogliere altri passeggeri. Tutto avveniva seguendo un silenzio ordinato, un’abitudine per chi guidava, una per chi curava la vendita dei biglietti, ed una per chi pagava. Una sosta più lunga delle altre fece svegliare Andrea dal suo torpore. Aprì con fatica il finestrino azionando un vecchio meccanismo ad incastro e si sporse fuori quel tanto che gli bastò per ordinare due panini al venditore che col suo chiosco su ruote stava passando lì accanto. Gli pagò anche due lattine di bibita frizzante e si rimise a sedere. Mangiò il suo panino, bevve avidamente e rumorosamente appoggiando le labbra sul metallo del contenitore e, quindi, si dedicò ad Anna che, rientrata da una fumata frettolosa, si era riappropriata del suo sedile. Andrea spezzava il panino in piccoli brani, infischiandone delle briciole che cascavano sui suoi pantaloni e per terra. Porgeva il cibo ad Anna che si faceva imboccare con mal celata svogliatezza. Il rito del mangiare si ripeteva però senza ossessioni di sorta. Anche lì, in quei momenti, si costruiva e si alimentava da sé una simbiosi perfetta.
Il pullman riprese la sua corsa facendo sobbalzare i suoi occupanti.
Ora, Anna, beveva con calma la sua bibita.
La strada aveva perso del tutto la linearità dell’iniziale percorso e iniziava, con lenta progressione, a salire. Alcune curve fecero brontolare un po’ più rumorosamente del solito il motore della vecchia corriera, impegnando il conducente in qualche scalata di marcia, giusto per non far perdere alla corsa l’andamento di crociera che, come una melodia ben precisa, accompagnava il viaggio.
Andrea osservava le nuche dei passeggeri seduti davanti, le osservava senza pensare. Si porto’ una mano sui capelli per rimetterseli a posto, ricordandosi immediatamente, ma solo dopo aver passato le dita sulla testa, di non averne più. Rise allegramente girandosi a guardare la faccia interrogativa di Anna e, tra una risata e l’altra, le spiegò del perché di quella risata improvvisa.
<<Che sciocco..>>
Anche Anna si mise a ridere mentre glielo diceva.
Erano passate alcune ore dall’inizio del viaggio e il pomeriggio invernale inghiottiva lentamente la corriera e i suoi ospiti.
Quell’andare senza meta stava annoiando Andrea.
Il ragazzo iniziò a sbuffare e cominciò a guardare freneticamente fuori con un’attenzione diversa rispetto al suo precedente morbido assorbimento del paesaggio.
Desiderava trovare un posto dove fermarsi e non aveva alcuna voglia di domandare nulla all’autista, né tanto meno al bigliettaio. Sezionava, con attenzione, tutto ciò che scorreva al di là del finestrino alla ricerca di un indizio che potesse indicargli la presenza di un hotel, un caseggiato, un cartello, qualunque cosa che interrompesse quella monotonia senza confini.

Cingere ed infrangere, così avrebbe dovuto fare Andrea per chiudere quel perverso circuito nebbioso fatto di nulla. Cingere ed infrangere, quasi un proposito impossibile a realizzarsi contemporanea-mente. Muoversi, vivere, farsi vivere o sentire e sentirsi, come se lui ed Anna fossero stati costretti ad essere un’eterna prova d’autore da mostrare nella sua naturale irrequieta instabilità, sia pure molto ben abbozzata, un suggerimento per chi deve osservarti, o può farlo e, insieme, un abbozzamento per chi si fa osservare. Così erano, Anna e Andrea, in quella corriera e prima di essa e anche dopo essa; anche Andrea ed Anna, due prove d’autore, perfette, non diversamente dal bigliettaio antipatico o da ogni singolo passeggero.

Cingere ed infrangere, sì, così da agguantare per tenere (tenere per bene senza incertezze, pur nella veste di prova da autore) e, nello stesso istante, rompere, scassare, interrompere, trasformare tenendo. Anche solo una piccola insignificante informazione visiva, un’occhiata più veloce e rapida delle altre che, infine, regala una notizia da cingere ed infrangere.

Andrea decise che era giunto il momento di chiedere all’autista qualcosa sulla prossima fermata e, se troppo lontana da lì, domandargli di farli scendere immediatamente. Aveva scorto qualcosa là fuori che pareva dover diventare la loro prossima meta (una meta non meta).
Così fece, e così la corriera li lasciò scendere vomitandoli dolcemente per strada.
Il fumo che usciva dalla marmitta del mezzo li salutò avvolgendoli in una nuvola di nera e maleodorante nafta bruciata.
Andrea aveva intravisto una specie di caseggiato bianco poco più in là della strada asfaltata. Alcune centinaia di metri da percorrere su una strada bianca. Un cartello sbilenco indicava loro che doveva trattarsi di un hotel. La campagna era completamente avvolta dal silenzio, nessun’altra casa nelle vicinanze. Attraversarono la carreggiata senza neanche curarsi di controllare se sopraggiungessero delle auto aiutati proprio dall’assenza di ogni rumore. La pioggia sottile che li aveva accompagnati durante il viaggio era definitivamente cessata e l’aria era odorosa di terra bagnata. Anna, che non aveva fatto domande, camminava a fianco del ragazzo. Andrea, senza dire una parola, le indicava il posto che, di lì a poco, avrebbero raggiunto. Non si ricordava nemmeno se il cartello recasse il nome di quell’hotel isolato.

Il luogo pareva tranquillo, sarebbe andato benissimo per qualche giorno ed entrambi considerarono che avrebbero potuto spuntare un buon prezzo per la loro permanenza lì.
Un enorme cortile circondava un corpo di fabbrica a due piani dai cui lati si staccavano a destra e a sinistra, quasi a mo’ di anfiteatro, due altre costruzioni più basse con tante porte. Poco più in là, isolata dagli edifici, c’era una casupola che pareva essere un deposito per gli attrezzi.
Il bianco delle pareti contrastava con il colore marrone della terra bagnata del cortile. La strada sterrata che li aveva condotti sino lì finiva in un vialetto con della ghiaia. Alcune piante, disposte con un certo ordine, descrivevano i confini della proprietà e due vasi enormi in terracotta, a ridosso del muro dell’edificio principale, posti ai lati di quello che doveva essere il portone di ingresso dell’albergo, ospitavano due arbusti sempreverdi a foglia larga.
Un grande albero, privo di foglie, era al centro della corte ed un paio di auto erano parcheggiate vicino al suo enorme e rassicurante tronco. Dai rami gocciolava lentamente dell’acqua, segno più che evidente di una pioggia consistente appena abbattutasi lì. Si aveva l’impressione di entrare in un abbraccio: la semicircolarità dei due edifici bassi con le tante porte numerate dava loro un senso di placida accoglienza.
Uno zerbino in cocco invitò Anna ed Andrea a ripulirsi per bene le scarpe prima di varcare la soglia dell’albergo.
Le volte alte rendevano l’aria ancora più rarefatta e silenziosa. Si respirava un profumo di pavimenti appena lavati. La reception era al buio e non c’era nessuno ad accoglierli. Si sarebbe potuto sentire il ronzio di qualche mosca se fossero capitati lì nella stagione estiva. Alla loro destra si scorgeva una sala spaziosa con tanti tavoli apparecchiati e sulle tovaglie bianche erano stati disposti ordinatamente i piatti e le posate. Subito di fianco alla scrivania, posta di fronte all’entrata, si apriva, sulla destra, un piccolo vano oscuro con delle scale.
Anna immaginò che al piano superiore potesse trovarsi l’abitazione dei proprietari.
Alla loro sinistra c’era una porta chiusa da cui provenivano dei rumori.
<<Sarà la cucina>> ipotizzò Andrea a voce alta.
Si avvicinarono alla scrivania e attesero che qualcuno aprisse quella porta chiusa. Anna si sedette sul piano del tavolo facendo penzolare una gamba.
E fu così, proprio in quel momento, in quella posizione di abbandono rilassato nell’attesa, nello stato di quiete dell’attesa, che Anna, per la prima volta da mesi, disse a se stessa “devo perdonarmi e perdermi per farlo”.
Sfuggire da ogni ricordo per volersi del bene. L’ovattato silenzio della curiosa reception interrotto, a tratti, dalle grida che ora più nettamente di prima si sentivano provenire dalla stanza lì accanto (la cucina secondo quanto ipotizzato da Andrea), evidentemente agevolava quel genere di riflessioni.

L’attesa produce simili pensieri, li favorisce, li rimesta ordinatamente nel cervello per poi farli raccogliere, con altrettanto ordine, da un paiolo immaginario. I pensieri mostrati in questo bell’ordine sono decisamente più convincenti e finiscono con l’ipnotizzare e convincere l’autore delle stesse riflessioni, riflessioni autonome e mai coartate, né imposte. Basta veramente pochissimo, e perfino il penzolare di una gamba segue ritmicamente certe carezze dell’anima ma, meglio ancora, le asseconda. Non si può per sempre, senza mai interruzioni rivitalizzanti, camminare con la fronte corrugata poiché avvolta da ricordi insostenibili, di quelli che si autoalimentano ottusamente e che con sempre maggiore perversità suicida, da se stessi, traggono il loro giovamento sebbene poi, contemporaneamente consumino l’ospite che li accoglie. Finisce, o prima o dopo, l’epoca della inconsapevolezza autoassolutoria. Per stanchezza ci si stacca da tutto ciò, per stanchezza si cerca rifugio nel riposo, sfiniti dal troppo non vivere, ovvero, dal troppo insistentemente vivere. Un lampo, un barlume di quiete prende per mano e ti fa dire “ora riposa, ora sciogliti, ora prova a guardare”.

Anna osservava Andrea che girava attorno al grande albero al centro della piazzola dove alcune auto erano state parcheggiate probabilmente dai pochi clienti dell’hotel. Il ragazzo s’era fermato a guardare una mercedes blu di grossa cilindrata.
La porta dalla quale provenivano le grida si stava aprendo: due uomini, uno dei quali di età indefinibile con addosso un abito scuro, un gessato d’altri tempi, erano inequivocabilmente in procinto di mandarsi furiosamente a quel paese. L’altro, quello che indossava su un paio di jeans scoloriti un maglione senza camicia sotto, sembrava decisamente più incazzato. Il primo, invece, quello vestito come un gangster, pareva rispondere in maniera fredda agli attacchi dell’altro e lo guardava con un sorrisetto ironico.
Neanche si accorsero della presenza di Anna.
Il gangster uscì dalla reception senza volgere lo sguardo indietro e, mentre si dirigeva verso il centro del cortile, si incrociò con Andrea che, a passo svelto, raggiungeva Anna. Si fermò vicino alla mercedes blu. Accese una sigaretta e rimase in piedi vicino allo sportello aperto. Attendeva qualcuno.
Un corteggio di tre o quattro ragazze, tutte vestite più o meno allo stesso modo (minigonne o abitini strizzatissimi e scarpe coi tacchi vertiginosi), trotterellava verso l’uomo dall’abito gessato. Provenivano dalla zona destinata a camere, quella disposta quasi a formare un anfiteatro rispetto all’edificio centrale dove adesso sia Anna che Andrea si trovavano. Di fronte a loro, a braccia conserte, l’uomo che aveva smesso di sbraitare, li invitava a parlare.
Anna si era rimessa in piedi.
Nessuno dei tre parlava e quello che doveva essere il proprietario dell’albergo si presentò ai due nuovi arrivati dicendo di chiamarsi Giovanni. Andrea, come al solito, prese l’iniziativa e gli domandò, senza neanche curarsi di appurare se ci fossero stanze libere, dei costi delle camere. Giovanni, che nel frattempo si era andato a sedere dietro la scrivania, comunicò loro il prezzo per notte informandoli anche del fatto che in quella cifra era ricompresa anche la prima colazione. Anna prese dalla borsa il proprio documento porgendolo al proprietario dell’hotel in segno di accettazione. Il ragazzo, recitando una parte oramai ben studiata e conosciuta, pur senza esserne richiesto, comunicò a Giovanni che lui e sua sorella si sarebbero trattenuti per qualche giorno. L’uomo annotò i nomi dei suoi due nuovi clienti sul registro delle presenze giornaliere, inserendo i dati anagrafici in maniera sbrigativa e consegnò ad Andrea la chiave numero 7.
“E’ l’ultima camera sulla destra uscendo da qui. E’ quella più distante rispetto al vialetto che vi ha condotti qui. Se volete cenare mi basterà saperlo anche solo dieci minuti prima; qui si cena, di solito, sino alle ventidue.”

La camera, abbastanza grande rispetto alle dimensioni standard di una doppia, era pulita, arredata sobriamente e, di certo, anche grazie ad una grande finestra che si affacciava sul cortile, molto luminosa. Anche la stanza da bagno era spaziosa e sotto una finestrella che guardava sul retro c’era una vasca da bagno che occupava l’intera larghezza del vano.
“Questo posto mi piace, è perfetto, e Giovanni mi sembra una brava persona.”
Anna, che aveva lasciato il borsone su una cassapanca in legno posta di fianco alla porta di entrata, rispose con un “sì” deciso. Si diresse in bagno e controllò se dal rubinetto della vasca uscisse acqua calda. Seduta sul bordo della vasca giocherellò per un po’ con la mano sotto il getto dell’acqua sino a quando la temperatura la convinse del buon funzionamento dell’impianto di riscaldamento. Decise, a quel punto, di riempire la vasca: un bagno caldo le avrebbe fatto sicuramente bene. Versò del bagnoschiuma sul fondo e attese ancora qualche istante prima di riaffacciarsi in camera per avvisare Andrea delle sue intenzioni. Il ragazzo, incuriosito dal nuovo ambiente in cui si trovavano, le disse che ne avrebbe approfittato per guardarsi un po’ attorno e per informarsi su cosa avrebbe potuto mangiare più tardi all’ora di cena.
Anna si accese una sigaretta e ritornò in bagno. Sentì chiudere la porta della camera e iniziò a spogliarsi. Non aspettò che la vasca si riempisse del tutto e si immerse nell’acqua calda aspettando che il flusso regolare che usciva dal rubinetto facesse salire il livello dell’acqua. La schiuma, mano a mano che la vasca si riempiva, le accarezzava le parti del corpo ancora scoperte procurandole una delicata sensazione di solletico. Non essendosi procurata un posacenere, faceva cadere la cenere della sigaretta direttamente in terra ripromettendosi, poi, di ripulire il pavimento. L’acqua, che intanto le aveva ricoperto il petto sin quasi alla base del collo, le regalava sensazioni di grande riposo. Decise, a quel punto, di interrompere il flusso e di godersi quel suo umido e benefico silenzio interrotto da qualche occasionale e per nulla spiacevole gocciolio. Avrebbe voluto accendere qualche candela per rendere più morbido ed accogliente quel silenzio appena recuperato; si ripromise di domandare ad Andrea come fare per cercarne qualcuna, probabilmente il proprietario dell’hotel li avrebbe aiutati.

Ci si ricongiunge nell’acqua, Anna si ricongiungeva con se stessa. Quando era stata l’ultima volta che lo aveva fatto? Era ancora a casa sua, la sera in cui era stata strappata da Andrea dalla melma in cui galleggiava senza speranza, una sera diversa dalle altre ma inesorabilmente simile a tutte le altre. Il suo ultimo bagno prima di questo, quando aveva deciso di giocare ad immergersi con la testa fino al fondo della vasca richiamando ricordi giocosi di bambina. Allora, per gioco, e quella sera, per non sentire e per restare senza respiro.
Acqua per giocare e acqua per ricordare e, ancora, acqua per sentire e, infine, sentirsi.
Giovanni l’aveva osservata con una forma di pacata curiosità, solo adesso lei se ne rendeva conto. Più probabilmente, solo adesso avvertiva la sensazione di uno sguardo proiettato verso se stessa.
Assaporò quella nuova sensazione con cautela ispezionandola senza fretta e lasciandosi attrarre prudentemente da quel gioco.
L’acqua la induceva a giocare. Sorrise tra sé con rilassata pacatezza. Si toccò la testa, giusto per ricordarsi di avere il cranio rasato. In quale forma di libertà si stava cacciando? Di certo, in una di quelle in cui la coscienza di essere a scadenza fissa non era più un tormento né una pena, né, tantomeno, la risultante di una condanna inflitta dalla gabbia delle proprie abitudini. Qui, ora, e chissà per quanto tempo ancora, le uniche ritualità concepibili erano collegate al mero sentire primitivo, deprivato da ogni connotazione moralistica o presunta tale. Il filtro dei sensi si sovrapponeva in modo sublime a quello del cervello e, anzi, non si consentiva più al setaccio della ragione di invadere la soglia del sentire primitivo. Ora, e adesso, Anna annusava persino l’acqua ma la percepiva con un olfatto finissimo, diverso dal solito, riuscendo in tal mondo a ricollocare ogni singola particella acquosa in un immaginario cassetto della sua propria memoria, la sua memoria dell’acqua. Ora, poteva immergere la testa nel liquido, senza paura di soffocare in un ricordo doloroso, poiché l’acqua era ridiventata accogliente, non più paludosa.
Così pensava. Pensieri momentanei.
L’acqua, però, quella stessa acqua che mostrava di cullarla, le chiedeva una dedizione assoluta, uno smarrirsi senza perché, senza avere più la necessità di ritrovarsi o di trovare qualcosa o qualcuno, e perfino se stessi, un asservimento totale, incondizionato, senza ripensamenti, una completa assimilazione nel liquido, un lento ed inesorabile diluirsi dove la misura del piacere e la misura del dolore semplicemente non esistono più. L’acqua ed il tempo, cosi come la memoria dell’una ed il fluire dell’altro, pur cullando e perciò rapinando definitivamente la coscienza di un ricordo, uno qualunque, da un lato accarezzano e, dall’altro, insegnano a non cercare più carezze. Abbandonarsi nel nulla è un piacevole morire. Così, Anna, pensava. Ed era proprio in questo pensare che lottava per rifiutare l’abbandono. Riemerse dalla sua apnea col fiato corto e trasse un respiro rumoroso e profondo. L’acqua le scivolò sugli occhi deformando le immagini che aveva davanti a sé. Al silenzio della stanza da bagno si era aggiunto il buio. Andrea non era ancora rientrato e lei, che iniziava ad avere freddo, uscì dalla vasca per asciugarsi. Vide la schiuma che scivolava lentamente sul corpo e senza risciacquarsi si avvolse in un asciugamani che profumava di fresco. Raggiunse a piedi scalzi uno dei due letti della camera e vi si sedette sul bordo mettendo i talloni sulla sponda e abbracciandosi le ginocchia. Aveva riacquistato un respiro regolare. Questa volta, nessun incubo le era stato elargito dall’acqua.

Andrea aveva gironzolato senza trovare nulla di interessante. A differenza di Anna, quel silenzio non gli era del tutto congeniale. Avrebbe voluto scambiare qualche parola con Giovanni, ma non era riuscito a ritrovarlo. Aveva allora deciso di entrare in quella che, secondo lui, doveva essere la zona dell’albergo riservata alle cucine.
Avvertiva una certa stanchezza. Il viaggio, sebbene non lunghissimo, lo aveva un po’ fiaccato e sentiva il peso degli abiti che indossava da troppo tempo. Non li aveva mai cambiati da quando erano partiti. La pelle gli restituiva pensieri delicati, quasi glieli carezzava prima di porgerglieli, senza affanno e senza che li dovesse fagocitare con nervosa frenesia. Andrea avvertiva il contatto di quei pensieri che si andavano a fermare con delicatezza sulla pelle del corpo. Un po’ rimbambito, un po’ assonnato, non ancora affamato, neppure si sorprese a pensare a suo padre. Più che altro, pensava secondo un pensiero istantaneo, quasi come se l’avesse fermato in una fotografia; iniziò ad avvertire la mancanza di qualcosa: troppo rapidamente e con troppa violenza aveva deciso di affrancarsi dal giogo paterno, faceva fatica ad abituarsi al cambio repentino degli avvenimenti, sentendosi perfino frodato dall’assenza del lento scorrere delle cose. Chi aveva inglobato chi? Lui lo aveva fatto con la mentalità restrittiva e carceraria di quel padre offeso dalla vergogna che provava per essersi ritrovato un figlio omosessuale? O era stato suo padre che lo aveva definitivamente inglobato in un ruolo sociale. Esiste il ruolo sociale del diverso? Andrea, animato da riflessioni disordinate, riteneva di sì. Così, si alternavano i suoi pensieri di inglobamento. Afflitto da questo pensare, come un novello don Abbondio, non si era nemmeno accorto di aver incurvato le spalle. Cosa c’era da cercare e, soprattutto, dove andarlo a trovare? Fino a quel momento aveva solo scantonato, mettendo da parte un mondo, il suo mondo, vivendo e vivendolo come se fosse qualcosa da poter mettere da parte, in attesa di riesumazioni funzionali alle circostanze. Disordine protettivo, chiusure difensive e, più ancora e oltre, azzeramento di ogni comunicazione. Si poteva vivere così all’infinito facendo finta, semplicemente facendo finta.
Il dopo si annientava volta per volta, lo si dimenticava, punto. Sacche di memoria da mai utilizzare. L’età, la giovane età, glielo aveva permesso. L’idea incessante di dover quotidianamente rientrare a casa (la sua, quella del padre), in fondo, alimentava (assecondandolo) questa continua strada del rimando. Troppe cose da sistemare nell’immediato glielo avevano permesso. Difendersi dalla violenza paterna era assai più importante e, nello stesso tempo, più urgente, ma era diventato anche un efficace strumento di evasione. Della madre neanche ne ricordava il volto, probabilmente perso in qualche immagine sbiadita ben nascosta nei cassetti segreti del padre. Ricordava, invece, seppure vagamente, di tutti i viaggi fatti o raccontati dal padre. Erano stati viaggi pieni di sole, così almeno gli veniva detto. La cosa era davvero strana, poiché anche quando le condizioni meteorologiche mostravano più che eloquentemente che di sole non avrebbe potuto parlarsene, suo padre era pervicacemente attaccato all’idea che il suo viaggio fosse stato accompagnato da una luminosità accecante. Andrea, però, aveva imparato a riconoscere in quei racconti (neanche sapeva perché il padre viaggiasse così tanto) una non verità: quell’uomo silenzioso e cupo si spostava spesso in aereo ed era dunque più che naturale che un volo ad alta quota non prevedesse nuvole. I viaggi nel sole, in fin dei conti, riguardavano solo un brevissimo istante del viaggio stesso ed il padre fermava nel suo ricordo solo quello che voleva fermare. Era probabile perciò che avesse poi bloccato nella sua memoria istantanea e funzionale anche il solo ricordo immaginato che valesse la pena di conservare: un figlio normale, come diceva sempre ad Andrea, un attimo prima di lasciarsi andare verso l’uso di epiteti che lo riportavano ad una realtà mai accettata. L’omosessualità del figlio era come le condizioni meteorologiche e la normalità di Andrea (l’unico ricordo sia pure soltanto immaginato e desiderato) era uno dei tanti viaggi nel sole.
Questioni che si dimenticano presto, fino al punto di non desiderare neanche più di smarrirsi in tracce di memoria nemmeno reali, poiché mai vissute se non attraverso lo stanco raccontare di un adulto perfino stanco di se stesso. In tal modo (Andrea lo aveva fatto molte volte) ci si dimentica di ciò che non merita più attenzione.

“Ho fame”.
Un pensiero disordinato anch’esso.

Nella cucina dell’albergo c’erano solo due persone. Uno, sicuramente il cuoco, parlava animatamente con un altro. Erano due ragazzi, poco più che ventenni. Non si accorsero che Andrea era entrato e che li guardava con aria attenta ed incuriosita.
Sui fornelli accesi c’erano delle padelle fumanti.
Assisteva attento al loro dialogare fitto, si nutriva delle loro voci, osservava ogni particolare con attenzione metodica, come se a quelle padelle o a quei fornelli fosse stata fornita un’anima: il parlare dei due veniva assorbito dagli oggetti e, dunque, lo sfrigolare delle pietanze assumeva connotazioni particolarissime; era come se il cibo in cottura si mescolasse alle persone che occupavano la stanza.
Stessa sensazione provata qualche momento prima allorché aveva incontrato il proprietario dell’hotel. Giovanni appariva essere un bell’uomo e l’aspetto un po’ cupo che lo contraddistingueva, non cozzando affatto con l’immagine che offriva di sé, semmai la esaltava. Nella reception, in quel silenzio che aveva ammantato la scena, bagnandola di emozioni intense e fluide allo stesso tempo, il silenzio stesso aveva finito col colorare meglio il parlare dell’uomo. Inutile negare che un’aura di mistero circondava la figura di Giovanni. Andrea sapeva di non sbagliarsi. Stava bene, si sentiva stanco, ma continuava a stare bene. Si era del tutto liberato dall’idea di fuga eroica che lo aveva accompagnato durante tutto il viaggio con Anna.

<<qui non si può stare!>>

la voce del ragazzo che doveva essere il cuoco, lo attraversò scuotendolo da quel torpore del pensare in cui s’era ritrovato a viaggiare. Andrea reagì con un sorriso e, senza dire una parola, fece spallucce. Il cuoco, dapprima stupito da quel gesto inaspettato, sorrise a sua volta.

<<sta’ tranquillo, non lo diremo a nessuno, nemmeno a Giovanni.>>
Andrea fece di sì col capo ed uscì dalla cucina. Sentì lo sguardo del ragazzo appiccicato sulle spalle e, non voltandosi, si ritrovò nella reception.
Giovanni, seduto dietro alla scrivania, fumava una sigaretta. Guardava davanti a sé, incurante della presenza di Andrea e mostrava di non preoccuparsi minimamente della intrusione appena perpetrata da Andrea.

Ogni ambiente di quell’hotel era una cosa a parte. Qui, il silenzio intenso e fluido; appena dietro una porta, la confusione frizzante della cucina; più in là, vicino all’albero, una calma apparente; nelle stanze, poi, una variegata quantità di emozioni e sensazioni, tutte invase da gradazioni emozionali e colori da decifrare.
Ogni cosa, comunque, era come se fosse in attesa. Pareva che fosse un hotel in sospensione.
Ciò che è sospeso non è destinato a rimanere in tale stato per sempre, è persino impossibile il solo ipotizzarlo; non è nella natura delle cose, nemmeno delle <cose a parte>, restare inchiavardate, durevolmente e per ogni probabile futuro, persino per più futuri, in un bilico perfettamente equilibrato. I pesi si spostano e, con essi, si spostano le persone, così come le persone spostano i pesi, pur senza muoversi, muoverli, o volerlo fare.
In quale di queste cose fosse Giovanni e attraverso quali pesi stesse orientando inconsapevolmente un qualunque movimento, non era del tutto chiaro ad Andrea. Il suo pensare disordinato lo indusse a rinunciare al pensare stesso.
Raccolse una breve informazione intorno alla presumibile ora della cena e lasciò Giovanni alla sua placida fumata.
Aveva dunque deciso di rientrare in camera sia pure solo per informare Anna delle cose appena scoperte. Lui, poi, avrebbe cenato. Lei, no.
Trovò Anna distesa sul letto. Entrò con la tipica irruenza dell’età, senza cura e senza cautele. Si rivolse alla donna investendola di parole per raccontarle delle nuove conoscenze che aveva appena fatto, un po’ inventando, un po’ raccontandole la verità. Anna lo osservava in silenzio accennando, di tanto in tanto, a brevi sorrisi. Andrea la informava del cuoco e del suo presunto aiutante, della cucina, di quello che stavano preparando per la cena, inconsapevolmente invitandola a cenare con lui. Continuava a far scorrere fiumi di parole e di idee e propositi. Il posto gli piaceva, la camera era di suo gradimento. Anche Giovanni, cui fece brevi e rapidi cenni durante il suo raccontare convulso, gli piaceva. Si diresse verso il bagno per rinfrescarsi un po’ preannunciando ad Anna la decisione di acquistare l’indomani degli abiti nuovi e, soprattutto, puliti. Le sue abluzioni durarono veramente poco. Andrea, un po’ vinto dalla stanchezza ed un po’ dalla fame, fece la sua riapparizione in camera per comunicare alla donna l’intenzione di volersi andare a sedere al ristorante dell’albergo. La invitò ad accompagnarlo ma lei, cortesemente, rifiutò. Voleva riposare ancora qualche minuto, gli disse.
Andrea si avviò verso il ristorante rassicurandola che sarebbe rientrato in camera il più presto possibile. Non avvertì neppure la necessità di preavvisarla intorno al fatto che le avrebbe portato qualcosa da mangiare. Anna lo sapeva da sé.
Ora, anche il solo desiderare di sfamarsi, non restava più confinato nell’alveo del dover fare qualcosa, poiché assumeva sapori completamente differenti rispetto a prima. Andrea, che aveva finalmente riacquistato un assetto più consono alla sua età, avvertiva solo il senso di questo ritrovato e forse mai del tutto assaporato benessere. Perfino l’idea della cena, in quel posto, in quel ristorante, alla presenza di persone sconosciute non più da vivere come invasive, era appagante di per sé. La scoperta del nuovo non costituiva più un vero problema. La voglia di conoscere nuovi amici, senza doversi più misurare con probabili giudizi di relazione lo rendeva felice. Una pausa, una interruzione di un percorso doloroso. Adesso, proprio adesso, scivolava sulla superficie di un liquido amico, senza esserne sommerso e senza timore di venirne inghiottito. Anche il pensiero che rivolgeva verso Anna era un pensiero tranquillo, sereno, rappacificato. Il suo precedente pensiero responsabile cedeva progressivamente il passo ad un genere di pensiero fraterno: Anna, al di là della finzione e della rappresentazione teatrale in cui s’erano ritrovati a recitare, era diventata veramente sua sorella.
Sì, decisamente quel posto gli andava a genio, gli piaceva.

Si accomodò al primo tavolo non occupato restando in attesa che qualcuno gli servisse qualcosa. Avrebbe mangiato con gusto e qualunque cosa gli fosse stata portata la avrebbe assaporata con calma. Immaginò il passaggio dalle padelle fumanti nei piatti e si abbandonò completamente nell’attesa. Avrebbe chiesto, in seguito, di poter portare via delle pietanze per Anna. Nessuno gli avrebbe opposto alcun rifiuto, ne era certissimo.
Non c’era moltissima gente. Si sentiva il rumore delle posate. Per il resto, il silenzio non lo disturbava affatto; stavolta, quasi lo rassicurava.
Giovanni sedeva da solo ad un tavolo vicino all’entrata. Da quella posizione poteva controllare sia la porta della cucina che l’intera sala. Lo faceva con discrezione, apparentemente senza osservare nessuno, con uno sguardo vago ma, nello stesso tempo, assai attento. Lo si capiva bene che conosceva il mestiere.
Andrea era affascinato dal quel modo di fare. Aveva voglia di porgli un’infinità di domande. La sua innata curiosità lo assaliva ad ondate. Venne distratto dall’aiutante del cuoco che, adesso, vestiva i panni del cameriere. Si avventò senza ritegno sul piatto di pasta e, dimenticandosi di Giovanni, iniziò a riempirsi la pancia mangiando velocemente, come era solito fare. Era saltato il buon proposito di gustare lentamente il cibo.
Altre persone, nel frattempo, si erano sedute ai tavoli. Andrea aveva terminato la sua cena ma decise di restare lì ancora per qualche istante; si mise ad ascoltare, pur senza ascoltare, il gradevole sommesso rumore della sala ristorante, osservando con sguardo assente la ripetitività dei gesti di chi ancora stava mangiando. Si accorse, pur senza volerlo, che un uomo mangiava da solo, anche se al suo stesso tavolo sedeva una donna, probabilmente la moglie. Aveva un aspetto curioso: piccolo di statura, magro con una spalla più bassa dell’altra, capelli nerissimi appiccicati sulla testa come se non fossero stati i suoi, sembravano bagnati e la riga a lato era stata tracciata con una precisione certosina. Ciò che colpiva Andrea erano i movimenti lenti che l’uomo compiva, sebbene non compisse gesti tipici di chi è seduto a tavola per mangiare: l’uomo si toglieva di continuo gli occhiali e, prima di inforcarli, osservava le lenti in controluce per assicurarsi che fossero perfettamente pulite. La montatura di quegli occhiali era massiccia, in osso, di colore nero. Pareva trattarsi di un miope ossessivamente concentrato sulla vista che la natura o il destino gli avevano definitivamente abbassato. Aveva un volto triste e le labbra che teneva costantemente serrate, quasi a voler sottolineare il suo distacco da ciò che lo circondava, acuivano la sensazione di tristezza di cui era naturalmente dotato. Andrea pensò a lui come all’uomo dagli occhiali tristi. La donna, che sedeva di fronte all’uomo dagli occhiali tristi, non mangiava. Teneva le mani ripiegate sotto il mento ed i gomiti appoggiati al tavolo. Indossava al polso sinistro due orologi. Andrea pensò alla cosa con divertita curiosità, immaginando che i quadranti potessero descrivere due tempi differenti: il tempo che è e quello che sarà. L’uomo e la donna, ad ogni modo, non parlavano tra di loro. Chissà in quale tempo si trovavano entrambi e se i tempi coincidessero. Un eguale interesse rivolse al cameriere che si muoveva velocemente tra i tavoli. Si ridestò da quella improvvisa pausa ricordandosi di dover portare qualcosa da mangiare ad Anna, decidendo perciò di andare a far visita al cuoco: avrebbe domandato direttamente a lui di mettergli da parte qualcosa da portare in camera. Qualcosa gli diceva che non avrebbe ricevuto rifiuti di sorta.

In effetti non si era sbagliato. Paolo -il cuoco si chiamava così- gli era risultato da subito simpatico ed infatti non ebbe alcuna difficoltà a discorrere con lui del più e del meno. Apprese che il turno di lavoro sarebbe terminato tra un paio d’ore e, perciò, un po’ sollecitato dal cuoco, un po’ incuriosito per la novità, si offrì di accompagnarlo a fare un giro nel paese lì vicino. Paolo non oppose alcuna resistenza, anzi, salutò con grande entusiasmo la sfacciata proposta di quel giovane ospite dell’albergo. Si accordarono rapidamente sull’orario di uscita.
Andrea fece rientro in camera. Era così facile per lui stringere amicizie, ne era convinto e soddisfatto ad un tempo. Anna lo aspettava appoggiata alla finestra che dalla stanza guardava il cortile del grande albero. Lo salutò con un grande sorriso, bevendosi d’un fiato tutto il racconto del ragazzo.

<<Così poi domani ritornerò in paese per comprare un paio di pantaloni e una camicia, forse anche un maglione..>>.

Anna fu lieta di apprendere che Mercurio aveva fatto amicizia col giovane cuoco.
Andrea prese ad imboccarla e durante quel breve pasto non smise un momento di parlare. Era eccitatissimo, aveva riacquistato il suo normale stato umorale.
Un rapido passaggio in bagno precedette l’uscita serale di Andrea.
Anna restò sola. Si avvicinò alla grande finestra della camera che guardava il cortile e fu colta da un’immagine che già conosceva: Andrea si allontanava col ragazzo che faceva il cuoco, entrambi a bordo della motocicletta di Paolo. Sparirono presto alla vista della donna.
Che strana meta che stava diventando quell’hotel e che strano che una meta fosse in divenire. Anna aveva sempre pensato ad una meta in termini fissi, mai mobili. Lì, invece, tutto si spostava di continuo ma senza virate brusche o inaspettate; tutto si espandeva in modo calmo, quasi suadente. Lì si respirava, finalmente, senza neanche doversi porre il perché del respirare. Anche Anna era contenta, sebbene la sua contentezza possedesse segni più contenuti rispetto a quelli che Andrea le aveva generosamente esternato un attimo prima di andare verso la sua avventura notturna. A lei bastava restare lì dentro poiché si sentiva accolta. Non andava a ricercare una spiegazione e, questo, era bellissimo.
Fumò un’altra sigaretta restando in silenzio a guardare fuori. Fuori c’era il grande albero del cortile e niente altro. Intravide, per un attimo, la sagoma di Giovanni che, in piedi, fumava nel nulla.
Ebbe, ma solo per un momento, la percezione, neanche troppo vivida, di una curiosa presenza di mescolamento di sensazioni. Le mancava, cioè, la possibilità di far entrare le più disparate emozioni del suo vissuto dentro ai vari compartimenti stagni coi quali aveva convissuto; si era comportata, fino a quell’istante, come se le fosse bastato imbastire tracciati emozionali da confinare, volta per volta, in stanze ben impermeabili le une con le altre. Adesso, invece, e per la prima volta, avvertiva una mancanza, meglio, il gusto della mancanza delle stanze impermeabili.
Iniziò ad osservare meglio Giovanni: pensare a quanti anni avesse quell’uomo non esauriva pienamente il disegno interiore che l’uomo, pur nei suoi silenzi e forse proprio grazie a quelli, mostrava di sé. Pensare, invece, a quanti anni possedesse, riusciva a descrivere meglio e più approfonditamente quello stesso identico disegno ma che, in tal modo, emergeva assai più articolato, complesso e cromaticamente più gradevole. Il possesso di un’età le piaceva, così come le piaceva, allo stesso modo, la percezione di questo. Anna si risvegliava gradatamente dal suo torpore: anche questo le piaceva poiché la legava al progressivo mescolamento delle emozioni precedentemente negato.
Decise di andare a dormire. Si assicurò che anche Giovanni fosse rientrato e, con un ultimo sguardo nel buio, affidò il suo pensiero a Mercurio.
Si distese rilassata e si abbandonò al sonno.

Molto più tardi, un Andrea silenzioso rientrò in camera. Si avvicinò al volto sereno della donna e le diede un bacio leggero sulle gote prima di sprofondare in un riposo carico di speranza e soddisfazione. Quel posto gli piaceva senza riserve e Paolo si era mostrato un compagno eccezionale. La serata era trascorsa piacevolmente e senza che fosse accompagnata da pensieri sul ritorno a casa. Stava bene. Aveva conosciuto altre persone, altri amici come ripeteva a se stesso, e tutti erano stati cordiali e divertenti. Quell’albergo si era rivelato un ottimo luogo per iniziare qualunque cosa. Era eccitato ma non passò molto tempo prima che prendesse definitivamente sonno.

*****

Giovanni s’era sentito osservato ma, pur capendo chi potesse essere la sua osservatrice, aveva volutamente finto disinteresse. Rientrò nell’edificio curando di controllare che tutto fosse stato rimesso a posto per la mattina dopo. Tra un po’ avrebbe dovuto ospitare qualcuno, così gli era stato detto solo qualche ora prima durante un breve colloquio telefonico. Si preparò all’incontro sedendosi dietro la scrivania. Il rumore dell’auto, come al solito, lo avrebbe preavvisato per tempo.
La mercedes blu, guidata da quell’uomo che si faceva chiamare Carlo sarebbe arrivata, come quasi ogni sera, col suo carico di donnine starnazzanti. Non ricordava più bene quale fosse stata l’occasione che l’aveva fatto avvicinare a quel tipo. Di certo, non gli piaceva affatto, né gli era mai piaciuto. Ad ogni modo, ognuno dei due conservava i propri rispettivi segreti pur se già abbondantemente svelati in passato; ognuno dei due era sotto lo schiaffo dell’altro.
Capita che la vita richieda simili conquiste d’accomodamento reciproco, così come succede che il tributo che la vita stessa ti chiede sia quello della sopportazione della conquista. Giovanni si domandava spesso se anche Carlo si producesse in simili pensieri ed ogni qualvolta quegli stessi pensieri lo assalivano tendeva a concludere per un no deciso. Il tipo, Carlo, il cui cognome, Giglione, veniva usato come se fosse un soprannome, sembrava molto più abituato a quel genere di vita omertosa di quanto non lo fosse mai stato Giovanni. Probabilmente Giovanni aveva dovuto abituarcisi più tardi e più rapidamente dell’uomo dall’abito gessato. Già, l’abito gessato, una divisa che il tipo non dismetteva mai. Un ruolo, la divisa identificava un ruolo. Un magnaccia in divisa, tutto qui.
Giovanni, e di questo ne era più che convinto, si era consegnato ad una dimensione di vita a lui completamente sconosciuta e aveva dovuto farlo semplicemente per ricavarne una qualche utilità: era fuggito da un’altra vita, forse più regolare di questa, ma enormemente più impegnativa. Solo che, quella vita, quella precedente, era stata segnata da una fine, non la sua, non soltanto la sua. E così, posto di fronte ad un termine, si era ritrovato, neanche tanto suo malgrado, sul margine di un bivio: da una parte, un percorso immaginabile, probabilmente, anzi assai sicuramente la fine della sua libertà personale (così la giustizia degli uomini punisce chi uccide), dall’altra, un baratro senza confini, l’entrata in una spelonca buia e senza vie di ritorno o di fuga. Ora, in questa altra parte, era in sosta e, quel che è peggio, portava con sé il fardello dell’uomo dall’abito gessato verso cui era definitivamente impegnato. Certi aiuti, certe complicità, per quanto odiose e scellerate, proprio perché decisive per la risoluzione di faccende non altrimenti risolvibili, richiedono il pagamento di tributi.
In quell’hotel, un vecchio casolare di campagna ristrutturato, aveva investito i suoi pochi risparmi e, sempre con l’aiuto di chi manovrava Giglione, si era ritirato dai clamori del suo passato e sfuggito alle maglie della giustizia. In quell’eremo, Giovanni si taceva e conduceva la sua nuova vita fatta di giornate calme e scorrevoli.

Il rumore dell’auto sul vialetto di entrata interruppe quelle riflessioni, tuttavia Giovanni non si alzò e neppure si mosse quando l’uomo si affacciò sulla soglia della porta. Lanciò a Giglione le chiavi di un paio di camere dell’albergo; solitamente le ragazze che il tipo portava con sé, due o tre, occupavano due stanze poste all’estremità opposta rispetto a quella occupata dai due nuovi arrivati. Stavolta, però, Carlo gli chiese di poter occupare un’altra stanza ancora. Si rivolse a Giovanni strizzandogli l’occhio, usando un gesto complice del tutto fuori luogo, ben sapendo che il padrone dell’albergo non avrebbe gradito un simile grado di confidenza. Carlo si divertiva un mondo a provocare Giovanni, essendo perfettamente a conoscenza delle loro rispettive diversità: in fondo, Giovanni, era un suo complice per modo di dire; una persona, come tante, occasionalmente prestata dalle circostanze della vita, a svolgere, suo malgrado, un compito a lui completamente estraneo. Si divertiva, sì, e ripeteva compiaciuto quei comportamenti dal sapore evidentemente provocatorio. Voleva stanarlo, voleva ferirlo per il solo gusto di farlo. Giovanni, a sua volta, aveva avuto modo di conoscere, pur senza mai apprezzarli, quei moti di falsa complicità e, pertanto, preferiva assumere un atteggiamento di voluta indifferenza, almeno in apparenza. L’uno e l’altro, erano impegnati in una sorta di danza sul filo di una lama affilatissima, ma nessuno dei due, almeno sino a quel momento, aveva mostrato segni di cedimento che potessero condurli verso uno scontro aperto, di quelli che segnano una fine, di quelli che in maniera definitiva interrompono certi perversi circuiti omertosi.
Quella notte, questo era evidente, non si era superata la soglia della insopportabilità reciproca.
Giovanni seguì con l’udito i passi dell’uomo dall’abito gessato che si dirigevano verso la sua auto blu. Ascoltò le sciocche risatine delle ragazze al seguito ed anche i commenti dei nuovi clienti del magnaccia. Di solito il tipo provvedeva ad accompagnare lì i clienti con la sua autovettura. Sosteneva che il viaggio insieme con le ragazze favoriva i contatti sociali. Giovanni ricordò che, Giglione gli riferiva ciò chiedendogli, attraverso un sorriso molto più che malizioso, una complicità partecipativa che però non gli sarebbe mai stata accordata. Probabilmente, la danza era cominciata proprio allora, sebbene il giudizio sulla probabilità di quell’inizio non convincesse del tutto Giovanni.
Sentì le porte delle camere che si chiudevano.
Sapeva che Carlo non sarebbe più rientrato nella hall e, come sempre, avrebbe atteso la fine delle prestazioni delle sue giovanissime donne seduto in auto, fumando una discreta quantità di sigarette.

<<..meglio così, me ne andrò a dormire..>>.

Espresse quella considerazione a voce alta. Chiuse la porta di ingresso e si avviò verso le scale interne che l’avrebbero condotto nel suo appartamento. L’indomani mattina avrebbe annotato, su di un quadernetto anonimo, il corrispettivo maturato sino a quella sera. Carlo provvedeva a versargli ogni mese il compenso dovuto.
Un mero rapporto di scambio, il resto non lo interessava, meglio, non doveva interessarlo, anche se in più di un’occasione il tipo gli aveva prospettato l’idea di poter scontare qualche pagamento offrendogli una delle ragazze.
Proposta sempre rifiutata.
La notte fece la sua comparsa anche per Giovanni mentre un vago senso di solitudine lo ammantava.
Da circa quattro anni, cioè da quando era iniziata la sua fuga ed il successivo annientamento di tutto ciò che era stato nel suo passato, il senso della solitudine lo aveva costantemente accompagnato. Così, era riuscito a imbastire una parvenza di una non meglio descrivibile esistenza tutta improntata alla ripetizione di gesti ed azioni perfettamente sovrapponibili. Gesti ed azioni elementari che non richiedevano alcun altro sforzo che non fosse quello della ripetizione stessa. Un allenamento alla negazione di ogni genere di bisogno. Si era così trasformato coscientemente e volutamente in una specie di eremita poco incline al dialogo e, naturalmente, al racconto. Ascoltava, di tanto in tanto, per una mera esigenza facilmente e fatalmente ricollegabile al suo nuovo ruolo di gestore e proprietario d’albergo, qualche sparuta e breve cronaca riferitagli, per mero dovere d’ospitalità, dai suoi clienti. Tutto qui. Niente avrebbe potuto più interessarlo, niente avrebbe dovuto interrompere quella sua prescelta coerenza di vita; nemmeno si sentiva braccato, non più. In quel suo eremo andava sfilandosi lentissimamente una matassa lineare senza troppi intoppi o scossoni. L’unico elemento di disturbo, ma neanche tanto e perciò sopportabile, era costituito da Giglione che, ad ogni modo, ben allenato da chi lo comandava, sapeva stare comunque al suo posto.
La solitudine era però un’altra cosa. Giovanni si faceva assalire da essa e, quasi come se fosse un gioco propostogli dal suo animo apparentemente avvizzito, curava, con metodo, di farsi attraversare da momenti di sgomento. Curava, però, di iniziare quel curioso gioco con se stesso quando era perfettamente sicuro di essere da solo. La sua solitudine, il suo farsi attraversare da essa, faceva il paio con la certezza di sentirsi isolato. Talvolta, si trattava di lunghe partite, talaltra di brevissimi solitari per ricordarsi di non smettere di ricordare. Ad ogni modo, quel posto lo aveva scelto, non per condurre una vita, ma piuttosto per concluderla e, in fin dei conti, gli piaceva. Viaggiava effettivamente verso una sua propria meta, molto meno erratico di quanto potesse essere mai stato in passato. Spesso amava ripetere a se stesso che la sua anima erratica aveva smesso di errare.

Si addormentò e, come ogni notte, lasciò che il tempo si occupasse di consumare la brace della sigaretta che aveva poggiato sul bordo scanalato del posacenere.

**********

Lucia, quella notte, non riusciva a prendere sonno. Ripassava mentalmente gli avvenimenti degli ultimi giorni senza darsi pace e più li analizzava e più li sezionava, più si perdeva in miriadi di pensieri fatti di meandri di pensieri sempre più piccoli. Non riusciva a darsi pace e, soprattutto, non riusciva a darsi una spiegazione del comportamento di Anna. Il fatto, poi, che fosse andata via col ragazzo del piano di sotto, peraltro adoperandosi in quella forma di violenza fisica così efficacemente raccontata dai segni lasciati sul volto del padre di Andrea, la lasciava semplicemente sconcertata.
Si era fatta sommergere da pregiudizi, di questo ne aveva la matematica certezza, sebbene non fosse completamente pervenuta ad un altro genere di certezza: quei pregiudizi si appartenevano esclusivamente a lei. L’ammetterlo, proprio adesso che versava in una condizione di oggettiva debolezza, le sarebbe costato troppa fatica; molto meglio, perciò, sentirsi defraudata, imbrogliata, presa in giro. Tuttavia, anche questo pensiero auto assolutorio non le bastava: anche quella notte l’avrebbe trascorsa in bianco e avrebbe, dunque, continuato a tenere ben relegato nella dimensione del semplice intuito non sviluppato, un ben altro genere di consapevolezza. L’ammissione del proprio fallimento, prima ancora di quello derivante dalla delusione provata in seguito al sorprendente comportamento di Anna, era da rimandarsi. In questo meccanismo imperfetto di pesi e contrappesi, fatto anche di spinte e controspinte di condanna, Lucia sceglieva di non dormire.
Anche l’arrovellarsi, in talune circostanze, è meno gravoso ed impegnativo della prova dello specchio. In fin dei conti le era bastato osservare la sua immagine di donna matura in quei vetri per strada solo qualche giorno prima (e non era che un semplice timido indizio del suo percorso di autoconsapevolezza) per indurla, adesso, ad attuare la sua personalissima politica del rimando.
Poco alla volta, però, e sempre senza confessarselo apertamente, stava maturando il proposito di allontanarsi per sempre dalla idea (malsana) di svolgere una sotto-specie di attività investigativa che la conducesse a rintracciare Anna e, solo in via secondaria, anche Andrea, sia pure con qualche momento di temporanea incertezza dovuta al racconto che del ragazzo ne aveva fatto il padre: aveva avvertito nelle parole di quell’uomo un vago senso di liberazione, un’ottima ragione per disinteressarsi alle ipotesi di ricerca.
Lui, sì. Lei, no, non ancora.

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Quando termina un castigo, una punizione? E che effetto hanno entrambi? E cosa c’è da apprendere da una educazione afflittiva?
Giovanni quella mattina s’era svegliato con un pensiero fisso. Aveva probabilmente mangiato male la sera prima, ma non era disposto a crederci più di tanto, inutile prendersi in giro. Aveva velocemente consumato la sua frugale colazione e, come ogni mattina, stava controllando la cucina. Si alzava prestissimo anticipando sia il cuoco, sia il ragazzo che l’aiutava a servire a tavola. Una gestione pressoché famigliare gli assicurava dei discreti margini di guadagno, pur senza mai strafare. L’unica persona che si aggirava per l’hotel era una donna energica e mediamente formosa che si occupava delle pulizie delle stanze. Quelle occupate dalle ragazze e dai clienti dell’uomo dall’abito gessato erano state liberate anzitempo. Tutto filava liscio come al solito e la giornata, priva di nuvole, pareva volesse illuminare meglio l’aria tersa e fredda che avvolgeva la quiete paciosa del posto. Giovanni uscì dalla cucina e, dopo aver lanciato un veloce sguardo alla sala ristorante, si incamminò verso lo spiazzo esterno per poi dirigersi alla costruzione che ospitava cianfrusaglie varie e alcuni attrezzi per la cura del giardino, un giardino assai poco curato. Si fermò un attimo nei pressi del grande albero e si accese la prima sigaretta del giorno. Aspirò profondamente il fumo prima di farlo uscire lentamente dalle labbra socchiuse: pareva volesse masticarlo per assaporarlo meglio. Fece scorrere un’occhiata furtiva in direzione della camera occupata da quei due strani fratelli dalle teste rasate e si diresse verso il capanno degli attrezzi. Avrebbe rivisto tutte le inutili carabattole che lo riempivano a dismisura. La breccia bagnata scricchiolava rumorosamente sotto le sue scarpe e l’odore morbido e profumato dell’aria gli restituiva un senso di densità.
All’inizio, quando visitò per la prima volta quel posto, lo aveva immaginato come una sorta di prigione, così lontano dalla vita che, prima di quella nuova vita, lo aveva attraversato. Dopo quattro anni di permanenza lì, si era più che adattato al lento andare dell’hotel. I suoi pensieri, invece, continuavano a tradire, incoerentemente rispetto a ciò che lo circondava, la lentezza naturale e mai violenta del caseggiato che aveva poi trasformato in albergo.
I suoi pensieri erano quelli che, di tanto in tanto, andavano a fargli visita senza preavviso inducendolo a ricordare un passato inutilmente rievocabile. I pensieri erano una specie di malattia recidivante, un’ospite indesiderata, un’aguzzina abile e spietatamente sadica capace di infliggergli quel particolare dolore che mai si sposta dalla soglia della sopportabilità, una vera torturatrice di eccellenza. Giglione, se rapportato a tutto questo, era un dettaglio del tutto innocuo e, al più, lo si sarebbe potuto considerare una debole concausa dei tormenti di Giovanni.
Chi avrebbe mai potuto leggergli dentro? Probabilmente nessuno, poiché la solitudine che si era scelto non avrebbe mai consentito a nessuno di far varcare la porta della sua anima tormentata. A cosa sarebbe servito, poi?

Aprì la porta sbilenca del capanno e fu invaso dall’odore delle cose. Cose che stanno ferme in un posto in un perenne stato di sonnolenza; così lui immaginò che potessero essere gli oggetti in quella situazione di sospensione letargica.
Cercava una tronchese per tagliare alcuni rami degli arbusti posti sul confine della sua proprietà. Anche il disordine in cui versava il capanno pareva essersi addormentato. Giovanni lo svegliò dal torpore estraendo l’attrezzo prescelto per la potatura da un cumulo di listelli di legno che gli erano serviti per sistemare alcune porte del suo appartamento. Il rumore degli oggetti rimossi procurò uno scossone energico alla quiete dell’hotel e lui maledisse se stesso imprecando a mezza voce. Sperò che i suoi ospiti non si fossero svegliati per colpa sua.
Richiuse la porta del capanno prestando attenzione a non farla cigolare più del dovuto.

Come quello scossone improvviso, così il suo proprio profilo esistenziale avrebbe avuto bisogno di essere risvegliato o, quanto meno, rimesso in piedi. Una vita vissuta dal basso, da una di quelle posizioni che consentono di osservare le cose senza essere visto, come un insetto silenzioso: dal basso si è in una posizione privilegiata, neppure tanto scomoda, solo appena un po’ insolita. Fuggito definitivamente da un castigo, quello che si era voluto autoinfliggere, scomparso per sempre e, per sempre, rinato. Solo Giglione conosceva alcuni dei suoi segreti: c’è sempre qualcuno che li conosce. Tutto sommato meglio un Giglione qualsiasi che una qualsiasi altra persona. Giovanni e Giglione in reciproco contatto diretto ed in diretta possibilità di reciproco ricatto: un equilibrio perfetto, sia pure instabile. Così girava quel mondo ovattato e freddo di quell’inverno mite. Neppure voleva più immaginare altre possibili vite rispetto a quella che stava vivendo o che, probabilmente, gli si stava vivendo addosso come una specie di serpente molle ma tenace nello stesso tempo. Istanti, frammenti, celle, e tutti tenuti assieme da un collante invincibile.
La giornata si stava aprendo. Lo scenario era il medesimo di ogni giorno. Ogni giorno era faticoso ed era faticoso l’andazzo. Giovanni si faticava la vita e la vita gli risultava faticosissima. In silenzio, coi suoi silenzi, tuttavia, la teneva a bada, pur senza sopportarla. Si era lasciato alle spalle una comodità, uno scorrere senza pensieri, agiato e, ora, si ritrovava pieno di fatica e di pensieri. Il tutto, comunque, da accettare, semplicemente da accettare, possibilmente in silenzio per evitare di sprecare energie e non doversi atteggiare ad essere urlante e volgare. Questo suo modo di essere, tuttavia, lo incupiva.
Pensò, divertito, all’effetto che faceva al magnaccia: Giglione non comprendeva i suoi silenzi, né il suo non reagire alle continue provocazioni. Giglione era la gente da evitare, la canaglia volgare da cui si era eclissato. Una atroce condanna, però, non aveva consentito che la sua eclissi fosse perfetta. Così, Giglione stava lì (sebbene a tratti) per ricordare a Giovanni da cosa era andato via. Un elemento di disturbo necessario.

Gli ospiti dell’albergo si stavano svegliando. Da lì Giovanni riusciva a sentire i rumori del risveglio, le voci ovattate che attraversavano le pareti delle stanze si scioglievano tutte assieme nell’aria della mattina e si rimescolavano tra loro. Colpi di tosse dalla camera dei due fratelli. Di certo doveva essere quella donna strana e silenziosa. Anche lei silenziosa.
Dalla cucina rumori di stoviglie e odore di caffè. Gli venne voglia di caffè bollente. Un piccolo insignificante pensiero gli salì improvviso: perché quella donna non andava a mangiare?
Si sarebbe ricominciato a vivere, come ogni giorno. Lui, Giovanni e, insieme con lui, tutti gli altri ospiti di quel posto isolato.
Nella stanza dei fratelli dalle teste rasate Andrea–Mercurio, raccontava ad Anna della sua serata con Paolo.
Manifestava un entusiasmo smisurato, segno evidente del senso di libertà trasgressiva che lo aveva invaso. Anna, come sempre, lo ascoltava, sottolineando con lievi movimenti del capo il racconto.
Un bar, molte persone, amici, nuovi amici, conoscenze. Era lieta che Mercurio stesse bene, finalmente affrancato da responsabilità troppo complesse per un adolescente. Quella mattina, come le aveva già preannunciato, sarebbe ritornato in paese per comprarsi dei vestiti nuovi. Si congedò da lei, diretto verso il ristorante. Il rito della colazione lo attendeva.
Anna, ne approfittò per dedicarsi alle sue abluzioni mattutine. Lo avrebbe seguito in un secondo momento, senza attendere che le portasse qualcosa da mangiare. Ora che il sipario si era aperto in quell’hotel, avrebbe mangiato ciò che Andrea le avrebbe offerto senza più nascondersi. Un giusto ritmo di fiducia la accompagnava. Non era il caso di preoccuparsi né dei volti attoniti di chi li avrebbe visti, né di Giovanni. Le sembrava che quell’uomo fosse dotato di una sufficiente dose di discrezione e, in fondo, piaceva molto anche a lei. Le piaceva senza un perché.

La sala ristorante, poco per volta si riempiva di gente. Giovanni consumava la sua seconda colazione, il suo caffè con poco zucchero. Si soffermò a pensare ancora alla donna silenziosa che ospitava nel suo albergo. Anna, così ricordava si chiamasse, aveva l’aria di qualcosa che s’è spento, nemmeno troppo somigliante ad una candela la cui fiamma cede lentamente il posto ad uno stoppino rinsecchito e nero, quanto piuttosto ad un tizzone ardente, un pezzo di brace che non lotta più per restare acceso e le cui poche sortite vitali altro non sono che simulacri di un fuoco abbandonato. Un pezzo di brace, orfano di una fiamma che s’è acquietata per sempre. Il pensarla così, lo distrasse da lei e avvicinò quella suggestiva immagine a se stesso; probabilmente pensava solo a se stesso ed usava un termine relazionale diverso da sé solo per proteggersi. Giovanni si proteggeva, lo faceva oramai del tutto automaticamente, come se avesse terminato, da tempo, ogni suo tempo a disposizione. Verosimilmente quel tempo lo aveva fatto scivolare via senza opporvisi, guardandolo fluire e osservarlo allontanarsi.

Così il tempo ci lascia e così finisce, finisce a noi; ogni tempo ha un suo legittimo proprietario e non esistono tempi omogenei, uguali, corrispondenti, ognuno ha un suo preciso tempo. Quello che va via -e Giovanni ricordava con precisione quando il suo era andato via- ce lo si ricorda per bene, ed i contorni di quella memoria sono netti, privi di sbavature, sono fotografie chiarissime, una specie di scherzo ordito dal tempo.
Ricorda il mio fluire, pare voglia dire, ricorda come mi sono allontanato. Si apre la mano, basta poco, un gesto sciocco che si conosce da sempre, e quello, il tempo, se ne va.
Infine, non ci resta che un desiderio, quello di smetterla di desiderare, solo perché ci appare giusto tentare la via dell’affrancazione dal senso di ansia (cui ci porta la paura di perdere ciò che abbiamo o possediamo) o quella della fuga dal senso di frustrazione (cui ci conduce la insopprimibile voglia di uscire da ciò che ci ritroviamo addosso senza aver mai scelto nulla, pur senza mai riuscire ad uscire da nulla). Una vita amara ci rimane addosso, di questo si tratta, una sorta di fardello verso cui, ad intervalli regolari, mostriamo attenzione. Ed è salutare l’esistenza di intervalli regolari, poiché, altrimenti, ci perderemmo in cunicoli senza fine, come se fossimo diventati novelli mangiatori di fiori di loto ma, tuttavia, senza neanche avere la speranza di incontrare un Ulisse disposto a portarci via da lì. La nota melodiosa che ci segue o che, talvolta, ci precede addirittura, è per l’appunto l’amarezza: né tristezza, né malinconia e neppure rimorso o rimpianto; semplicemente una miscela di miscele, dove non è più possibile rianalizzare le singole componenti della miscela stessa. Un’amarezza densa, catramosa con la quale occorre convivere.
Tutto qui, null’altro se non questo.
Le tenui speranze di modificare il corso delle cose, di qualunque cosa si tratti, affondano, lentamente e sadicamente nella massa amara e bituminosa.
I pensieri bituminosi di Giovanni lo avvolsero ancora una volta. Si innervosì per quelle mute conversazioni con se stesso.
Sciocche concessioni umorali le definiva.

Gli ospiti del suo albergo entravano ed uscivano dalla sala; anche Andrea fece la sua comparsa. L’uomo lo osservò con maggiore attenzione rispetto a quanto non avesse fatto prima: tutto sommato non assomigliava del tutto alla donna che diceva di essere sua sorella, anzi, non le assomigliava affatto.

Quella sera, assai probabilmente, Giglione sarebbe ritornato con il suo carico di puttanelle. Giglione… già…, un gran figlio di puttana. Un uomo cui poteva attribuirsi una qualità, o qualcosa di simile, seguendo due distinti percorsi: era un figlio di puttana (e questo rispondeva al vero), ma altrettanto vera era la circostanza che la madre, la non troppo anziana madre di Giglione, fosse, o fosse stata effettivamente, una prostituta. Entrambe le situazioni esprimevano delle medesime verità, più o meno note a lui e all’ambiente che frequentava abitualmente. La duplice valenza delle situazioni era fatalmente attribuibile al gangster dall’abito gessato. Una caratteristica positiva, la prima (Carlo se la rideva di gusto ogni qualvolta gli veniva detto di essere un figlio di puttana), una negativa, la seconda. Non sempre è possibile che si verifichi una tale perfetta simmetria, una lineare coincidenza di eccellenza. A molti altri è possibile solo riferire una sola delle due situazioni, persone incomplete, tutto qui. Il gangster era, per così dire, un figlio di puttana a tutto tondo.
A Giovanni gli si contorsero le labbra in un ghigno di contenuto divertimento al solo pensiero di poter svelare a Giglione il frutto delle sue riflessioni mattutine.
Decise comunque che era giunto il momento di dedicarsi alle piccole operazioni di potatura che si era prefissato di realizzare quella mattina. L’albergo, il tempo ad esso collegato, insieme a tutto il resto che gravitava lì attorno, avrebbero continuato a riprodursi e ripetersi nei loro percorsi soliti,…come al solito.
Si osservò le mani prima di lasciare la sala. Invecchiava: le piccole macchie sulla pelle ne erano una testimonianza più che eloquente.
Sorrise di sé. Curò di non fare troppo rumore alzandosi dal tavolo mentre scostava la sedia facendola scivolare piano all’indietro.
La donna dai capelli cortissimi non si era ancora vista in giro, chissà cosa stava facendo in quel momento; lui era convinto che non stesse dormendo. Ne ebbe la conferma quasi in tempo reale: Andrea, o come diavolo si chiamava quel suo presunto fratello, stava rientrando in camera con un pacchetto tra le mani. Giovanni avvertì chiaramente il suono della voce della sorella del ragazzo, una voce fresca, a tratti allegra. Era quanto meno singolare che il fratello le portasse da mangiare in camera.
Fatti loro, si disse. In fin dei conti gli bastava che pagassero regolarmente il conto e che non creassero troppi problemi a lui e, soprattutto al resto della clientela. I problemi da tenere sotto controllo erano una faccenda riguardante esclusivamente Giglione; meglio, lui e Giglione messi assieme. Il resto, tutto il resto, era una banale routine quotidiana.

*******

Che si provi a guardare il mondo dall’alto, che si provi pure a farlo. E che si provi ad osservarlo attraverso questa vicenda o passando attraverso qualunque altra storia fatta di qualunque umanità.
Sì, che si provi a farlo.
Si osserverebbe con distacco ciò che di distaccato non c’è, non esiste in rerum natura, poiché le cose degli uomini di questa terra, di questo mondo, sono attaccate tra loro, le une con le altre, in perfetta simbiosi, le une assieme alle altre, si sopportano, si respingono, si amano, si nutrono. Stando lì dentro, però, non si riesce bene ad osservare, occorre distacco, lontananza.
Che si osservi dunque la compostezza apparente di Lucia, o la spessa coltre di tristezza di Giovanni e perfino la mutevolezza nemmeno tanto celata di Anna che, con la sua testa rasata, desidera farsi cambiare, sì, farsi cambiare e non cambiare. Attori primari e comparse occasionali. Dall’alto, tutti e tutte uguali, indistinti. Ma, dall’alto, tutto apparirà più ordinato, meno confuso, e tutto si mostra come se si trattasse di un unico disegno, addirittura privo di qualunque altra colorazione (etica o morale poco importa) che non sia quella cromatica, sensoriale, soltanto sensoriale. Ci si dimenticherebbe di ogni parola, di ogni lettera di ogni singola parola, dei timbri e delle melodie che sottolineano le parole, si sarebbe autorizzati a pensare che tutto è fermo, immobile, almeno in apparenza, pur non dimenticandosi mai che il fluire delle cose e delle persone segue un ritmo lento, impercettibile. Proprio in tale maniera guarderemmo dall’alto e lo faremmo per prenderci delle pause. Sì, delle pause, di quelle che servono per tirare il fiato (se fosse possibile farlo, lo si farebbe di certo).

Lo farebbe Lucia, afflitta da una ricerca che non riesce a mettere in atto, un po’ per vigliaccheria, un po’ per quella curiosa forma di pigrizia che deve fare i conti con l’ansia di non voler scoprire più nulla, una di quelle ansie che ti mettono al riparo e che mettono al riparo la propria memoria.
Che altro dovrebbe fare? In fin dei conti non deve far altro che accettare, al più rassegnarsi. Dalla rassegnazione c’è solo un piccolo passo che ti separa dal non ricordo. Così, almeno, ci si acquieta e, sempre così, al più, passa solo del tempo in più. Melodiosa formula del tempo che passa senza poterlo governare; meglio, armoniosa formula dell’illusione del governo del tempo, ingovernabile per sua stessa natura. Anche il tempo di Lucia è così poco incline a farsi domare da decisioni che non le appartengono; poco importa se Lucia lo ha già scoperto, oppure no, nessuna rilevanza se ne percepirà in seguito (già, ma quale seguito?). Piuttosto occorre osservarla attraverso l’assoluta distanza dalle sue risibili ossessioni investigative: tutte le cose tendono ad accadere indipendentemente da tutto. Di solito, questo tende a succedere quando ci si ferma un solo istante a riflettere, lo si sa bene, ma, altrettanto solitamente, non ci si ferma mai abbastanza per farlo, ovvero non ci si ferma affatto, un po’ per distrazione, un po’ per comodità (quella di meglio sopportare quello che verrà pur non sapendo né cosa, né come, né quando; qualcosa verrà): siamo orientati verso un orizzonte eternamente sfumato, anche questa una comodità.

L’orizzonte di Lucia è sfumato e su quella linea lontana, senza altre concessioni da parte del tempo (o del destino che ne è il padre) si intravedono due sole parole: desiderio e speranza. In tal modo la trappola è già operante e ci si casca dentro come topi, senza neanche aver tentato di strisciare, con furbizia, su un muro, giusto per esperire un piccolo tentativo di auto-protezione. Lo si fa e basta, ad occhi aperti, forse troppo aperti ma, di sicuro, con le pupille dilatate. Sublime trappola del tempo, sublime cattura di suo padre -il destino-. E quante volte lo invochiamo, ora per farci cullare amorevolmente (e la trappola in questo caso è perfetta), ora per chiedergli, pietosamente, di rivolgere le sue (non più) amorevoli attenzioni altrove.

Così, senza alcuna apparente motivazione, Lucia, adesso, riceve una lettera: una missiva inaspettata che, allo stesso tempo, diviene una indicazione speranzosa. Finalmente una guida, un orientamento. Un colpo di scena non preannunciato, coerentemente attaccato alla sua propria funzione di non farsi mai annunciare; d’altronde che scopo ci sarebbe nel farsi preannunciare? Rovinare una sorpresa neanche ben studiata. Anche le sorprese, dunque, diventano casuali e chi ne è l’artefice (il tempo o suo padre) non si cura di indagare oltre. Dall’alto, in questa magnifica ossessione di sospensione, mentre galleggiamo respirando piano e a fondo, possiamo perciò pensare che il tempo (e suo padre, il destino) è pigro, viziato, vizioso, carico di perversità.
La vediamo dall’alto la nostra Lucia, anche lei ancora dall’alto, è il tempo (ed il destino, ovviamente) che ce lo permette.
Ed è quella lettera che il venditore (quel tipo dotato di una naturale furbizia da commerciante) ha con cura spedito ad Anna: son documenti.
Ah quanto piccola appare da qui, dall’alto, una insignificante busta ripiena di pratiche amministrative, e quanto è invece importante che quella carta abbia viaggiato, e che lo abbia fatto per un certo tempo, proprio quel tempo che è servito per far sedimentare ricordi, per accantonare frenesie e, nello stesso tempo (proprio quello), è servito a impiantare nuove conoscenze in quell’albergo pieno di cose strane ed anche di cose normali. Eh sì, cose sovrapposte, fatte di curiosità e di voglia di cambiare, pur senza lasciare del tutto il già vissuto (d’altronde, non lo si fa mai completamente).
Pare di sentirla Lucia, pare di sentire il suo parlare, la sua voce invecchiata a furia di invecchiare per scelta. Son passati mesi, tanti. Ma lei non se ne cura, non ora almeno, non adesso che apre la busta e ne preleva il contenuto. Lo si sa, leggere è curiosità, quella di Lucia è una lettura morbosa, sappiamo anche questo. Indirizzi, date, cifre. Si fa presto, adesso, a capire dove è stata la sua Anna e si fa altrettanto presto a comprendere di quante cose si sia voluta disfare Anna. L’auto venduta. Perché? Lo chiederà al concessionario di automobili.
Domani si parte e la destinazione non è ignota, sarà un doversi muovere con una meta in tasca, e a quella meta ne seguiranno altre, Lucia ne è sicura.

Ed è così che passano giorni, mesi, quegli altri giorni e mesi in quel posto tranquillo, ed è così che ad Anna e ad Andrea sono ricresciuti i capelli. Suggestiva arte per misurare il tempo: osservare, pur senza farlo, la crescita dei capelli.
Andrea, che ha incrementato le sue sortite notturne con Paolo e la loro amicizia è diventata in quei giorni e nei successivi mesi sempre più densa ed intensa. Doveva accadere proprio così e, proprio così, Andrea ha dismesso l’abitudine del portar da mangiare ad Anna.
Doveva accadere così e, proprio così, Giovanni ha osservato la ricrescita dei capelli sulla testa di Anna, dapprima quasi nascondendosi dietro una finestra e, qualche tempo dopo, curando di nascondersi senza troppa paura di essere scoperto: il desiderio di essere scoperti, in fin dei conti, è desiderio di conoscere. Doveva accadere così e, proprio così, Anna decide di fidarsi di Giovanni.

Dall’alto si osserva questo mondo fatto di piccole cose -dall’alto le cose sono molto piccole, sfumate e confuse-. Da lì giù, invece, sono tutte ben distinte e disordinate.
Tutti si muovono, apparentemente slegati, ipotizzando di poter scegliere qualcosa e, magari, qualcosa, in effetti si sceglie: si sceglie però una modalità, ma solo una modalità, mentre tutto il resto, il fondante, è legato ad una trama per lo più sconosciuta, ma solo perché si forma volta per volta e non perché sia stata già tracciata o preordinata.

Abbiamo tutti smesso di credere alla predestinazione.

Lo fa Andrea che si è legato a Paolo e con lui esce sempre più spesso, la sera. La sera, dopo che il cuoco ha terminato di svolgere le mansioni per le quali Giovanni l’ha assunto. Adesso anche Andrea lo aiuta. Si fa così con gli amici nuovi, un po’ per stupirli, un po’ per rendersi davvero utili.

Anna mangia da sola, pensa Andrea. Ma non è così. Adesso c’è Giovanni che da spettatore si è trasformato (finalmente) in attore. Conosce gli orari, i suoi e quelli di tutti gli altri, anche quelli di Anna. Ed Anna, nemmeno sapendo bene se ha infine deciso di imitare Andrea, sceglie e decide di consolidare quella amicizia col padrone dell’hotel.
Ora lo aiuta, ma solo un po’. Continua a pagare la stanza e il cibo (il suo e quello di Andrea), anche se, talvolta Giovanni le chiede di non pagare, così, per amicizia. Perfetta proporzione di amicizie sorte per caso, di quel genere di amicizia che tende a trasformarsi e a diventare sempre più intima, abitualmente profonda.

Dall’alto sembrano muoversi tutti ordinatamente e l’ordine è naturale, poiché, dall’alto, si osserva in maniera sfumata, sfocata.

Anna sa che Andrea si è innamorato di Paolo, ma come al solito, non gli domanda nulla: fa in modo che le cose marcino autonomamente senza alcuna ragione di imprimere loro alcuna direzione.

Giovanni è un’altra faccenda, perfino più seria, semmai esistano faccende più serie di altre. In fin dei conti son solo sequenze di avvenimenti, sia quelli passati che quelli che devono arrivare. Meglio lasciarli scorrere per conto loro, arriverà un momento in cui non saranno più accostabili gli uni con gli altri, si divideranno senza troppi clamori ed il loro discostarsi sarà accettato con semplicità.

Quanti mesi sono passati così, e quanti altri ne passano ancora.

In questo passare anche Giglione continua la sua personalissima storia fatta di puttane giovani, soprattutto giovani. Falsità e menzogne, quelle di Giglione, ma anche quelle di Giovanni che non risponde alle domande (mute) che Anna pare rivolgergli di tanto in tanto. Son domande normali, di quel genere che la gente rivolge al proprio vicino (accompagnatore, compagno, parente) quando cammina per strada e ascolta distrattamente le risposte che poi vengono date alle domande normali. Domande e risposte di gente normale. Le domande di Anna vengono poste a Giovanni che la osserva mentre si dà da fare vicino al capanno degli attrezzi. Il nuovo modo di vivere sembra farle del bene: zappetta qui e là, senza troppa fatica, anche se Giovanni la osserva e ascolta l’ansimare di quella donna giovane dai capelli semi ricresciuti. Non parlano molto. Si annusano e qualche volta sorridono. Ma questo muoversi leggiadro va bene per entrambi: pare si riposino in questa maniera, pare non desiderino affatto divorarsi a vicenda.

Dall’alto si vedono queste formiche e sono tutte formiche lente.

Anche Carlo, il gangster dall’abito gessato e dalla mercedes blu col suo carico di sesso a pagamento, si muove lento quando arriva davanti al grande albero e scarica le donnette insieme coi clienti pieni di soldi.
Giovanni lo guarda sempre alla stessa maniera. Da un po’ di tempo, però, quella maniera è lentamente cambiata. Le formiche che si muovono lentamente modificano con altrettanta lentezza i loro modi di osservare, anche quelli che fino a qualche momento prima parevano dovessero restare immutati. Anna ne è la responsabile. Quando si consolida una amicizia, meglio, quando un’amicizia sta viaggiando verso una forma di consolidamento, allora si cambia.
Così, Giovanni che diventa intollerante, sempre di più, mentre Giglione non se ne accorge, e quel che agli occhi di Giovanni appare essere un modo di fare più stuzzicante è solo la medesima ripetizione dei medesimi modi di prima. Cambia Giovanni e cambia anche Anna. le mani della donna adesso iniziano ad essere usate per portare il cibo alla bocca.
Andrea, anche sollecitato da Paolo (malizioso quel cuoco), ora li guarda con occhi più attenti. Riferisce a Paolo e insieme ridono di Giovanni che, nel frattempo è diventato meno truce.
I due ragazzi hanno in mente di andare via da lì: vogliono infilarsi in una avventura da qualche parte assieme, innamorati come sono, tutto il resto che deve ancora arrivare è bellissimo, il futuro è bellissimo: un futuro libero e loro stessi liberi.
E Andrea ricomincia a raccontare ad Anna. Anna, al solito, l’ascolta e approva. Libero Andrea e libera anche Anna.

Dall’alto si vede questo e si vede anche ciò che sta per arrivare.

Lucia con quella lettera in mano, quella del venditore delle auto, si è finalmente mossa alla ricerca di Anna. La tata all’inseguimento di chi non desidera più essere inseguita, né assistita.
Adesso Anna lavora per Giovanni anche se non è più la fotografa degli uccelli di palude e non è più nemmeno mamma.
Fine del dolore e della espiazione.
Avanti un altro, pare dire il destino. E stavolta lo dice dall’alto, senza nemmeno urlarlo; sa bene che arriverà qualcun altro a raccogliere il testimone della espiazione. Lucia che s’è messa in testa di far espiare tutti i suoi sensi di colpa ad Anna, non sa ancora bene del tutto quanto dovrà invece espiare lei. E’ stato facile ritrovare quel commerciante (la lettera era piena anche di indicazioni pubblicitarie) ed è stato facilissimo farsi descrivere quei due fratelli strani. Lucia immagina la scena, ma non ne ride affatto. I lineamenti sono tesi, annusa qualcosa nell’aria ma non sa bene cosa. Un inganno, forse, ma non da parte del venditore. E’ scaltro, sì, ma non le sembra un truffatore, un mentitore. Le riferisce della corriera che ha inghiottito quei due. Ora la traccia è meno sfumata. Aspetterà quella corriera, a bordo della sua auto, e poi la seguirà. Un piano semplice, nemmeno un piano, una semplice raccolta di notizie, tutte da mettere assieme per poi ricucirle per bene. Chissà quale trama ne uscirà.

Ora, dietro a quel fumo puzzolente segue la scia della nafta bruciata dalla corriera. Lucia che insegue. Lucia che guarda a destra e poi a sinistra.
Fermarsi in quei posti desolati, che idea, quei due!
Va avanti, supera la strada che conduce all’hotel e arriva nel nulla. La strada prosegue ed è già quasi sera. La primavera non le è mai piaciuta, una stagione a metà, un po’ come lei, sospesa. E non da ora.
Dall’alto si vede anche questa Lucia sospesa e così, dall’alto ci si siede, comodi, in attesa che la tata compia la mossa giusta. Un po’ di fortuna potrebbe aiutarla. Adesso, in fondo, basterebbe tornare indietro e capire che l’unica strada che interseca quella percorsa dalla corriera puzzolente sta lì: una bocca aperta che desidera inghiottire Lucia. Ed è curiosa anche la strada, animata com’è da una strana forma di curiosità; una curiosità passiva, come se fosse una ragnatela priva dell’ossessione del ragno che deve catturare la preda. La strada che porta all’hotel è una ragnatela senza ragno, sì.

Lucia torna indietro, accende i fari e torna indietro verso la ragnatela in salita.
Ed eccola, la strada.
L’auto la imbocca quasi ipnotizzata. Ora si può andare più lentamente, occorre vedere bene dove conduce quella ragnatela. Un ragno alla fine del cunicolo potrebbe avere deciso di catturare Lucia e sputare via la macchina.
Nessun ragno, come ben si sapeva.
Solo il grande spiazzo con il solito grande albero che adesso è più rigoglioso, ma Lucia non può saperlo. Non conosce il prima, solo l’adesso. Lucia non sa una quantità di cose e non sa che proprio lì troverà Anna. La sera si sta tutti a cena in quell’hotel. Anna, nel frattempo aiuta Giovanni in cucina. Da un bel pezzo lo aiuta in cucina. Nemmeno senza troppe insistenze da parte dell’uomo. Un inizio è bastato: chissà, forse la noia di non far nulla se non quel fare inattivo di star fermi a vedere i capelli che crescono. Quel genere di noia che l’ha portata ad occuparsi delle piante dell’albergo e, insieme a quelle, anche del capanno degli attrezzi dove i rumori si amplificano quando si decide di smuovere vecchi vasi ricoperti di polvere e di polvere arrugginita. Giovanni che la scruta, un po’ contento, un po’ compiaciuto e che, comunque la lascia fare. Una conquista -pensa fra sé-, una conquista del tutto simile a quella del mangiare, il mangiare autonomo di Anna. Un posto isolato, composto, e fatto di tante piccole conquiste, perfino quella di Andrea che, però, s’è lasciato conquistare da Paolo -il cuoco- e, questi, a propria volta, da Andrea. Eh sì, conquiste, avvicendamenti di sentimenti e passioni, ricerche, fughe, allontanamenti. Così Andrea e Paolo se ne vanno da lì. E così lasciano un Giovanni sconcertato e deluso a badare agli affari dell’hotel, alla cucina, agli ospiti e, tra questi, quello più sgradito, sebbene necessario: Giglione e i suoi affari da puttanelle straniere da sistemare in quell’hotel.
Soli, solitarie monadi, tutti.
Anna e Giovanni, forse, un po’ meno. Si son guardati con mal celata diffidenza per mesi, accade sempre così, che si vuol fare, così funzionano quelle piccole faccende dell’anima.
Dall’alto li abbiamo osservati bene, e lo si è fatto ovattando il rumore del basso, preso nota diligentemente di quanto accadeva e di quanto continua ad accadere.

Lucia arriva lì, in questo preciso momento, proprio ora, sì.

Si diventa curiosi, occorre scendere.

Dall’alto si perdono certe sfumature. E, allora, è arrivato il momento di spostarsi: che si scenda obliquamente per non disperdere il gusto dell’ascolto attento, ma ugualmente ovattato e lontano; una dissolvenza al contrario, si scenderà planando, facendo finta di cadere per non perdere del tutto il gusto della discesa.
Lucia col suo fardello di essenza viscerale amniotica, diremmo, è ferma in quel cortile, nemmeno sa bene perché, ma forse, anche sì. Una specie di resa dei conti, i suoi, poiché quelli di Anna son stati quasi del tutto pagati. Anna l’ha già scorta dal di qua delle finestre della cucina. In fondo la tata è riconoscibile. E’ facilmente riconoscibile quella sua naturale sciatteria, quel suo sguardo fermo e, nello stesso tempo, smarrito. Donna dalle due uniche facce che è.

Si continua a planare verso il basso. Non ci si può perdere questi attimi preziosi, tanto meno il rumore della ghiaia che frigge sotto le scarpe di Lucia. Pare voglia dirle di camminare lentamente, poiché la fretta, cattiva consigliera da sempre, le servirebbe a poco.

Anna esce, le va incontro. Pochi passi. Una di fronte all’altra.

Ascoltiamo, proviamo a farlo.

“Nemmeno so cosa dirti -lo sai già, inutile precisarlo-, forse volevo solo guardarti, nemmeno sei cambiata -aspetterai che concluda, vero?-. Come ci si conosce, Anna -mi stai per dire <poco>?-. annuisci, lo fai da sempre quando aspetti, anche se non sei concentrata -lo so che adesso lo sei->.

“Sto bene qui. Non mi si domanda niente, credo -no, non è un rimprovero a te-, è piuttosto un ricordare a me di non dovermi sentire obbligata, non più, a pagare un prezzo, come se si dovesse restare per sempre obbligati ad attendere un conto -mi chiedi se ho pagato tutti i miei?-. Posso abbracciarti vero?”.
Ed è nei dialoghi semplici, fatti di poche parole che si risolve un incontro e ne si decreta la sua fine. Planando obliquamente abbiamo avuto modo di accorgerci della fine di questo incontro, poiché da un abbraccio si comincia ad allontanarsi per sempre. Anna e Lucia lo fanno, proprio ora, abituate da sempre ai loro silenzi; e qui, coerentemente, li ripercorrono abbracciandosi.

Fine delle parole: chi voleva sapere sa, chi voleva dire ha detto.

Ci si accontenta per davvero quando è divenuto pregnante il raccontarsi schietto e semplice, lineare e privo di riserve mentali. In tale maniera, si finisce per comprendere che una linea di orizzonte s’è finalmente raggiunta, ed ognuno, per proprio conto, d’ora in avanti, vivrà. Lo farà sul serio.
Lucia che va via. S’è spenta la sua ansia di sapere ciò che pensava di conoscere. Si è ricongiunta con un sapere oggettivo, non più frutto di proprie -inutili- proiezioni; qui cala il suo sipario.

Adesso, Lucia, è madre.
Anna, è sua figlia, da adesso lo è.

Sarebbe potuto essere un bel colpo di scena. Ma, che genere di fine è mai questa? Inaspettata forse? Manco a parlarne: una fine annunciata, pre-annunciata. Siamo stati condotti per mano verso questo epilogo asciutto e normale. Non ci resta che atterrare del tutto perciò.
Si ha perfino nostalgia del disordine che, dall’alto, è ben difficile apprezzare. Scendiamo perché restare lì in alto è addirittura noioso.
Sì, sembra essere stata la fine di un ciclo. Come i cicli delle stagioni, fissi, ripetuti, eppure legati a quel genere di mistero dovuto all’aspettativa (sia pure ripetuta anch’essa da sempre), all’attesa non tutelata dagli avvenimenti sperati.
Pensiamo (e lo facciamo sempre definitivamente abbandonando il nostro comodo planare) a quell’albero che, a scadenza fissa, fa volar via le proprie foglie. Qui, al più, potrebbe trattarsi di un albero impaziente che decide di lasciarle cadere di botto, senza preavviso e senza che un alito di vento favorisca certo genere di distacchi; o forse potrebbe trattarsi anche di un albero stanco. Ciò nonostante l’abbandono c’è, c’è stato, ed è irreversibile. Forse resta ancora da chiarire quale potrà essere la ripetizione. Qui, però, della ripetizione non se ne intravedono tracce.
La foglia è volata via, l’albero ne è spoglio, punto.

Lucia che se ne va, Anna che rientra in cucina, Giovanni che ha osservato la scena col suo sguardo vago ed obliquo ma che tradisce una insopprimibile curiosità, di quelle che ti spingono ad attendere una spiegazione, almeno per comprendere chi fosse quella strana donna adulta e sciatta.
Qualcuna che ha perso la strada? Plausibile conclusione vista la fretta con cui s’è rimessa in auto senza voltare le spalle e fingere di girarsi indietro. Chi glielo dice a Giovanni chi è quella persona e, soprattutto come glielo si dice?
Anna che continua a pelare patate per prepararle per la cena, affidando ai tuberi un ricordo della sua vita precedente e dicendo a Giovanni che si tratta di una ricetta trasmessale da qualcuno che l’ha bagnata di affetto, un affetto oggi rinnovato e, perfino esaltato. Infine chi è (chi era), allora, poiché è chiaro che Anna sta parlando di lei.
“Semplicemente mia madre, ecco chi è.”

Un altro parlare semplice, senza ulteriori precisazioni inutili, inconferenti. Insomma, una madre ed una figlia, questo Giovanni ha visto; una visione rassicurante, in fin dei conti, priva di misteri e di scenate. E si deve anche aggiungere qualcosa, un’altra cosa, sebbene Giovanni la sappia già, la intuisce, la intuì da tempo. Andrea non c’entra con quella madre, tutto qui. Resta mio fratello, tutto qui. E tanto basta ad entrambi, ad Anna e a Giovanni, impegnati in una reciproca danza di condivisioni leggiadre, stanchi, entrambi, di spaccare un capello in quattro. Sublime arte della semplicità narrativa tanto da non appesantire la loro danza, il loro reciproco corteggiarsi. Le cose, poco a poco, si quietano, si appianano, sedimentandosi; resta loro, a loro due, il gusto di loro stessi. E le frasi nervose usate da Giovanni contro Andrea e contro Paolo, rei di averlo abbandonato, restano frasi appiccicate alle pareti di quella cucina, oggi, odorosa e calda. Sublime arte del dire semplice e del fare semplice, così difficile da raggiungere, proprio perché così elementare, un’arte che, in varia misura, tutti possediamo e che tutti, con altrettanta varia misura, dimentichiamo, salvo poi a ricercarla sbagliando i modi della ricerca. La frenesia ci acceca e, alla fine, ci rende impotenti e nervosi. Oggi, qui, in questa cucina, dove siamo scesi a curiosare, si preparano piatti semplici per la cena, ci si acquieta di fronte a delle patate bollite e l’acqua che ribolle nelle pentole è anch’essa lenta; in questa lenta ebollizione Anna e Giovanni si fanno coccolare e nutrire -finalmente, diremmo- e l’acqua stessa restituisce loro una memoria morbida, priva di spigoli e angoli oscuri, una memoria acquosa senza pesantezze. Oggi, qui, forse, Anna e Giovanni possono amarsi. Anna inzia dunque a raccontare di sé e Giovanni l’ascolta. La giovane donna, ex fotografa, che si concede alle attenzioni amorose di quell’uomo dallo sguardo obliquo e coinvolgente; entrambi, in questo attimo, e in tutti gli istanti che lo compongono, che fanno all’amore accogliendosi reciprocamente. Un Giovanni attento al raccontare sofferto di lei, un modo eccellente di impossessarsi del passato di Anna, un passarsi liquidi e pelle, odori e memoria, con pause e sguardi attenti. Un fare all’amore potente.

Un chiodo caduto da una trave del capanno degli attrezzi è finito con un lieve rumore in una pozza. Ora, ne siamo certi, Anna non ha bisogno di raccoglierlo come fece qualche tempo fa con un parente stretto di quel pezzo di ferro, nella sua prima uscita per strada, in città. Il chiodo sparisce del tutto inghiottito dal fango dell’acqua melmosa: coprire e lasciare riposare, stavolta pare voglia dirlo l’albero del piazzale, anch’esso si è impossessato di quella memoria liquida.
Non c’è nessuno lì che debba più raccogliere il chiodo, esce di scena anche lui.

*******

Cosa manca ancora?
Ovvio, Giglione e le sue puttanelle. E, ancora, Giglione con Giovanni e, infine, Giovanni con Anna che osserva Giglione.

Altre notti sono dunque trascorse, ora il ritmo del tempo che passa è segnato dall’avvicendarsi dei clienti -pochi- che, sul finire della primavera, come se dovessero prepararsi alla nuova stagione estiva, rallentano le visite in quell’hotel. Un ritmo discontinuo, questo. La cadenza fissa della melodia è invece fornita da Giglione: non ha smesso -ovvio- di andare e venire coi suoi carichi di carne umana, convinto com’è che regala a Giovanni ottime ragioni per sopportare l’uso delle stanze dell’albergo. C’è chi paga e c’è chi incassa, la questione è netta, chi si lamenta di chi? Chi può farlo?

Anche in questo giorno appena trascorso, adesso, è notte. Giovanni, in cucina, sta fumando. E’ seduto, aspetta.
Anna dormiente nella stanza di Giovanni, e che s’è data da fare sin dalle prime ore dell’alba, riordinando ciò che c’era da rimettere a posto fuori e dentro, anche aiutando la donna che rifà le camere, si sveglia.

È del tutto mutato anche il tempo del raccontare, il passato ce lo siamo lasciati alle spalle, forse troppo ridondante, magari ingombrante; ora, questo eterno presente, acconcia meglio una frase, le emozioni di Anna e Giovanni si vivono con serenità ed il presente è accomodante, descrive un fluire più coerente.
Anna guarda fuori dalla finestra e nota che nella cucina la luce è accesa. Probabilmente Giovanni si è alzato, non ha sonno, forse sta preparando qualcosa per domani. Decide di raggiungerlo.
Anche così funziona un amare, con la curiosità di sapere ciò che non è mai stato raccontato per bene, il vago sospetto di ciò che è, necessita di conferme. Lo ha fatto Lucia, lo fa anche Anna. Per lo più si ama attraverso le personalissime proiezioni del sé, indirizzandole verso l’altro, autoproclamando, in tal modo, la propria innocenza dall’accusa dell’ascolto non autorizzato. Conservando i ricordi altrui, ancorché ottenuti grazie ad un amorevole spiata, ci si proietta ulteriormente verso forme di amore inesplorate, pur se vagamente utilizzabili per fini non propriamente nobili: diventeranno, a vario titolo, occasioni per abbandonare, per farsi abbandonare, per offrire all’altro motivi per farlo, per confrontarsi con un proprio io ferito (e poter dire così “non sei quello che credevo tu fossi”), per disfare un fiocchetto messo sulla testa di chi s’è scelto e guardarlo senza le lenti rosate dell’inizio, per poter pontificare puntando un indice accusatore, per chiudere comunicazioni scomode, per non sentire più il peso di una relazione sgangherata e fragile, per non doversi più confrontare con la fragilità propria e con quella del bene amato, per sentirsi traditi, per percepire solo ciò che serve a tale sentire. Ognuno di questi fini è utile. La nobiltà finisce nel calderone della insipienza.

Anna, perciò, si avvicina alla cucina, ma lo fa dal retro e, da lì, seminascosta, sente delle voci.
Ancora delle voci, nella vita di Anna.

Decide dunque di non entrare ma di osservare dalla finestra cosa sta succedendo. Lì è in corso una lite furibonda fra Giovanni e quell’uomo, quel tale Giglione che Anna ha visto diverse volte venire lì, ma del quale non ha mai chiesto nulla. Ha rispettato i silenzi di Giovanni, tutto qui.
I due parlano di donne, di prostitute, di soldi, di percentuali. Anna avverte distintamente una frase pronunciata da quell’uomo: sta minacciando Giovanni che, a sua volta, gli risponde dicendogli che non vuole più proseguire nel loro accordo. Giovanni accusa l’uomo di essere un disonesto che non conosce limiti. In un crescendo, Giglione ricorda a Giovanni che, in quella storia, c’è dentro anche lui, e fino al collo.
Anna è sconvolta. Ma non riesce a non ascoltare. Il desiderio di conoscere, meglio, di apprendere, per disegnare una cornice diversa da mettere attorno alla figura dell’uomo che ha conosciuto lì, la invade. Incasella le parole che, sebbene smorzate, le giungono precisissime. Un magnaccia quel Giglione, e Giovanni il suo complice, che oggi si ribella.
Ecco, adesso sente distintamente una diversa modulazione timbrica nella voce dell’uomo della mercedes blu. Giglione si fa più cattivo, mentre invece Giovanni diventa stranamente più calmo. Chi deve dire dice, chi deve ascoltare ascolta. Le parole di Giglione sono taglientissime, pronunciate lentamente, sono domande che non aspettano risposte; l’uomo, il gangster, si informa del perché Giovanni non intende più proseguire nell’affare. Lo chiama affare, un linguaggio da film. Detto così, in quel modo, dal tipo con l’abito gessato, fornisce alla parola un valore aggiunto, la rende più spessa, più torbida, ne sottolinea la sporcizia, niente a che vedere con stupide questioni fra mercanti di cose, qui si mercanteggia sui corpi: le ragazzine vocianti che si concedono -devono farlo- ai clienti vogliosi. E Giovanni si chiama fuori da questo impiccio. Gli affari di questo genere, forse, non contemplano mai alcun genere di interruzione, possono e debbono, invece, tramandarsi di padre in figlio, di padrino in figlioccio, in questo caso. Chissà chi è o chi è stato il patrono di Giovanni.
Ed ecco ancora il fiume di parole lente e taglienti: ora Giglione parla di Anna, e lo fa come lo farebbe un delinquente, uno di quelli che manipolano carne umana. Accusa Giovanni di qualcosa, la cosa è Anna. Gli chiede di lei, e lei, in ascolto, attende le risposte di Giovanni. Anna, la nuova e bella donna che zompetta da qualche tempo nell’albergo. Insomma, anche Anna è una puttanella, stavolta di Giovanni. Giglione sa come parlare.
Lo incalza ancora sottolinenando, senza risparmiarsi, che, Giovanni si è fatto la sua troia personale e ora non vuole più dividere con gli amici.
Si sente, da quel posto, la rabbia di Giovanni che monta, ma solo questo, null’altro viene detto da quell’uomo che è diventato il bersaglio di Giglione.

E’ Anna invece che parla, dentro di sé, e lo fa attraverso l’amarezza. In testa le passano mille pensieri. Ora puo’ anche allontanarsi, ha già sentito troppo, anche se è ancora combattuta dalla voglia di ascoltare tutto. La si puo’ immaginare mentre indossa qualcosa che sistema sulla testa, un fazzoletto, meglio, un telo nero, quasi a schermarsi da ciò che non desidera ascoltare, non più. Come quelle donne che aveva fotografato e ripreso anni addietro, una vita fa, in un paese sperduto. Certe donne antiche e sagge lo facevano ancora, quasi a sottolineare il peso che erano abituate a tenere sulla testa. Purtuttavia, quelle, anche senza portare nulla, mostravano di continuare a farlo, nascondendo segreti indicibili, senza sforzo alcuno, avendo acquisito una loro propria naturalezza del fare e del tacere. Anna è un surrogato, un’imitatrice, d’altronde si cala quel telo fino a coprirsi del tutto il volto, cammina come un fantasma e sente il suo respiro caldo da dentro. In tal modo, ritiene, le voci scompariranno, attenuandosi poco per volta, fino a cessare completamente. Quel telo che vediamo sulla faccia di Anna è un sudario. Il suo sudario.
Nella cucina si continua a litigare, senza mezzi termini.

Giovanni non reagisce immediatamente, lascia finire Giglione che si sente più forte. Poi gli va vicino e inizia a picchiarlo. Giglione si difende e la feroce colluttazione puo’ iniziare. Il rumore si fa più forte e Anna, in cortile, capisce che sta succedendo qualcosa di terribile. Corre verso la cucina, entra e vede Giovanni che ha preso il sopravvento sul gangster: quell’uomo sta morendo, Giovanni lo sta uccidendo.
Anna si lancia su Giovanni e, con molta fatica, riesce ad allontanarlo. Scene rapide, veloci (così si uccide, rapidamente senza fronzoli).
L’uomo, faticosamente, si rimette in piedi. Giovanni che gli urla di andarsene e di non farsi mai più vedere, lui e le sue puttane.
Si rallenta tutto, all’improvviso. Ora, solo il rumore dei respiri affannati. Giglione che si alza e, prima di andarsene, fa in tempo a lanciargli due battute su di lui e sulla sua moralità da assassino “Ora vuoi fare una bella figura perché hai la tua puttana privata,…ma non finisce qui”.
Ingloriosa fine di una curiosa complicità.

Ora, nella cucina, sono di nuovo soli. Giovanni non cerca la comprensione di Anna anche se alcune cose le dice. Parla senza interrompersi. Si è vero, tempo addietro, ha ucciso qualcuno, ma ha già pagato il suo debito e una parte di lui sa bene cosa vuol dire portarsi dentro un’idea mostruosa di se stessi. L’ha ucciso per vendetta, perché l’orgoglio, a volte, acceca. Sa bene, lo ha imparato a proprie spese, che il confine fra il bene e il male è sottile. Ma, certamente, lui non è come lei che sembra fatta per stare a guardare il mondo dalla finestra.
Ah, altra sublime trappola del tempo e di suo padre. Certi rancori vengono trasferiti fuori da sé ed invadono l’alterità, così, senza ripensamenti, è immensamente più comodo. Ride e ghigna questo destino, si diverte con le sue formiche.
E poi certe cose non sono così sporche come sembrano o, forse, ci sembrano meno sporche, solo perché stanno nel fango, insieme a noi. “Ma lei non può capire perché nel fango, di certo, non c’è mai stata” . Forse è più difficile tentare di essere diversi che non provarci affatto.

Anna è paralizzata. Non sa cosa dire e non sa cosa fare. Poi, accenna ad una riposta, solo una: “mio figlio è morto per colpa mia, aveva un anno,…aveva solo un anno,…io sono morta con lui”.
Giovanni reagisce con durezza, in quel momento non mostra più alcuna pietà, parla per ferire: “Non è vero, lui è morto…e a te, è toccato vivere…”
Meravigliosa enfasi, insulsa frase che uccide.

Anna lo guarda, non dice nulla ed esce. Si guarda attorno, deve andare via da lì. Parcheggiata dietro la cucina, c’è la macchina di Giovanni. Una mercedes scura, forse blu pure questa. Sale in macchina mentre Giovanni la rincorre. Anna è chiusa dentro l’auto. Da fuori, Giovanni bussa sul finestrino, le chiede di fermarsi, lui non sa quello che dice, a volte.
“Anna fermati!”, le urla, “fermati, perdonami”.
Insulsa frase anch’essa.
Ma Anna è già lontana.

La strada è buia. Gli occhi di Anna sono bagnati di lacrime. La strada è bagnata, come se stesse piovendo. L’auto corre a tutta velocità.

E poi di nuovo, e poi ancora, il destino. Un animale, un coniglio, un gatto, forse una lepre, le attraversa la strada. Si ferma, quella cosa è ipnotizzata dai fari, resta al centro della strada. E’ immobile, ferma a guardare l’auto, a guardare Anna e Anna lo vede, lo fissa. Dopo un attimo di esitazione, inchioda, inchioda l’auto con tutta la forza che ha in corpo.
Immobile lei, l’auto, l’animale.
Un attimo interminabile che sembra non passare mai dove Anna fissa l’animale incolume e con lo sguardo, lentamente, lo segue mentre si allontana e ritorna nel buio.
Anna scende dall’auto, si mette davanti ai fari e guarda nel vuoto, nel buio.

******

Che la redenzione abbia inizio dunque. Si ritorna indietro. A che servirebbe fuggire? Occorre bandire, ora e per sempre, il fascino dell’abbandono, dell’istinto che ci porta lontano senza un perché. Affidarsi troppo a questo, finisce col rendere felice il nostro destino. Sebbene non sapremo mai abbastanza se anche il nostro fermarsi (il nostro tornare indietro) fa parte di una trappola. Talvolta, ne siamo certi, occorre infischiarsene. Che , almeno, si diventi puttane di qualcuno consapevolmente.

*********

Giovanni è in cucina, è seduto per terra e sta fumando. Anna entra dalla porta del retro. Non dicono nulla. Anna gli si siede vicino.
Stanno così, vicini, senza parlare.
Si osservano, infine, e Anna osserva le mani di Giovanni mentre lui osserva se stesso in silenzio, anche le sue mani sono silenziose. Regge fogli tra le dita, così senza ordine, li regge e basta come se avvertisse un peso.

(EPILOGO)

Ti dico

Più del dolore, più di ogni sensazione afflittiva, pesa essere se stessi. Si immagina (sai?) che gli altri possano sentirti, ma lo si immagina soltanto. Guarda questo oggetto (lo stai osservando?) è uno scritto ed uno scritto, come un libro, non è mai un oggetto poiché è sempre qualcosa di più (mi ascolti vero?), o anche qualcosa di meno; è qualcosa di mutevole, esattamente come noi. L’unica differenza tra noi ed un libro (la sai già qual è, lo so) è che il libro non combatte contro la mutevolezza (come noi, è questo che volevi dirmi?). Esso è. E quanto a lui pesi essere non è dato sapere (ma credo che lo si sappia), noi, invece, noi sì che conosciamo questo peso: una pesantezza direttamente proporzionale alla consapevolezza del mutamento combattuto. Di questo voglio parlarti, solo di questo (ti pare poco?). Non riusciamo mai ad assecondarlo il mutamento, non ci si riesce; e più ci affanniamo a farlo, più combattiamo (lo so che adesso mi parlerai, ancora e ancora e ancora, della castità mentale), più -e oltre questo più- lo evitiamo, ci sfugge persino e non possiamo far nulla per trattenerlo. Uno scritto (proprio come questo che tengo tra le mani, sai?), invece, sta lì, ben conscio di dover accettare qualunque mutamento (quale, dici?). Il primo, quello naturalmente contenuto nello scritto stesso, quello a lui vicino fin dal parto, il suo: l’essere letto e dunque mutato (so che ci eri già arrivato). Si, questo tuo scritto non si castiga da sé, non lo fa nemmeno adoperandosi in quella forma di tenera autopunizione (quanto ti piace eh?) di cui mi parli (si, me lo hai già detto: la castità mentale).

Ti ascolto

Uno scritto, il mio scritto (sei contenta di parlarmene e di mostrarmelo?), resta solo uno scritto (delusa?). Siamo noi che lo scriviamo, lo leggiamo, lo usiamo, è solo un oggetto che nasce e muore in questa sua -asciutta- natura (sempre più delusa, vero?). Ti appaio anche io asciutto (so per certo che sei assorta in questo pensare); ma, dimmi una cosa, l’asciuttezza, la mia asciuttezza, rende asciutto anche quel manoscritto che hai in mano e che con tanta ossessiva cura mi hai mostrato? (risponderai di no, sbaglio?). Ne ero certo. Però, prova per un solo istante a considerare meglio quello che ti dico (mica ti offenderai?): rifletti sulla necessaria relazione che esiste (non puoi negarlo) tra noi tre. Si, noi tre: tu, io e il mio scritto (hai visto? Si è appannata la copertina, le tue mani sudano?). Voglio solo dire che non può esistere uno scritto se non esiste chi lo legge (scontato, dici?) ed ancora, cosa non trascurabile, se non esiste un “qualcuno” a cui viene raccontato (scontato anche questo? Lo pensi per davvero?). Definirei uno sciocchezzaio, il solo pensare alla nobiltà immanente di un manoscritto (dici che sono io ad avere abbracciato la “fede” della castità mentale? Non sorridi più. ). Beh, sì, forse hai ragione. Ma, vedi, mi affascina tutto ciò che esalta un opposto (mi chiedi cosa voglia dire e sei sempre serissima). Ma sì, un opposto: la castità mentale è essa stessa un opposto (adesso noto che aggrotti le sopracciglia), è l’imporsi di non essere quel che invece si è. E, bada bene, non si è mai, non soltanto almeno, solo quel che si è ma anche e soprattutto quello che siamo stati, meglio, quello che siamo stati allenati ad essere. Dimostro, solo dimostro però, una acuta apertura mentale nell’avventurarmi in queste belle discettazioni, eppure, mi lascio scivolare nella pigrizia mentale, mi proteggo, mi bendo, mi infliggo la mordacchia, cerco di uscirne casto -mentalmente- (mi rimproveri per la mia assurdità, anche se non lo dici espressamente). Ebbene, non è questa la castità mentale? Eh sì, è proprio questa, è una fuga (no, no, non è un abbandono, come fai a dirlo?). No, non ti sto rimproverando, non lo faccio più da tempo, non lo faccio più per nessuno, dovresti saperlo, dovresti averlo intuito, almeno.

Ti dico

Ma dove stai fuggendo tu? Da dove credi di fuggire? (ti saresti aspettato che dicessi “sfuggire”?); beh, sì hai ragione, sfuggire è più adatto (non mi rispondi però). Si lo so che anche questo dannatissimo tuo scritto può condurre (condurmi, dici?) verso linee di fuga (fughe senza linee, d’accordo; sei amabile quando mi correggi). Però, lo vedi quante cose può far fare questo oggetto di carta? (ora sei tu che non sorridi più). Sei ancora certo della non-nobiltà del tuo manoscritto? (sei persino serio in questo momento). Eh no che non lo sei. Va bene così, ho già capito (se dicessi ho capito che hai già capito anche tu, peccherei di presunzione?). Cosa dici? Vuoi raccontarmi una storia? (sai, è strano il volto di chi intende raccontare qualcosa, il tuo lo è ora). Non devi fare altro che iniziare, prenditi il tuo tempo, io, lo sai bene, conosco la pazienza, con te la riconosco. Fallo, come sai. Potrò domandarti qualcosa? Potrò farlo mentre continuerai a parlare? (so che lo farai) sai che lo farò (so che lo farò). Con tutto il tempo che hai passato ad osservarmi -hai visto come sono ricresciuti i miei capelli?-, ora sai che lo farò e ti domanderò cose senza pazienza, ovvero con la pazienza misurata che a te tanto piace.

Io, ti dico

Occorre molto coraggio per raccontare qualcosa (hai un’espressione incuriosita). Sì, moltissimo ne occorre. La storia che ti racconto, a differenza di ogni altra storia che ho raccontato (ti sono piaciute le altre che hai solo immaginato, vero?), serve soprattutto a me (non ti stupisce questa cosa, ne sono convinto): desidero liberarmi l’anima (hai capito bene, sì), sento il bisogno di lavarmi la coscienza (mi domandi perché scelgo te?). Ti dirò una cosa a me molto cara: scelgo te perché sei tu (mi vuoi bene anche per questo? Lo so). So bene che non ho ancora iniziato a raccontare (perché mi dici che mi sto perdendo?) ma, vedi, ho bisogno di disegnare una traccia, avverto anche questa necessità, così sarà più facile raccontare, così la storia diverrà fluida (annuisci perché non ho detto “più” fluida, eh?). Tuttavia, non credo si tratti di una traccia (cornice? No, mi piace meno), penso invece debba trattarsi di una cosa più profonda, più intima se vuoi, ma stento a trovare il termine giusto per descriverla (sorridi?); si, si, si, ho una difficoltà seria a individuare il giusto termine (certo che puoi aiutarmi a trovarlo).

Io, ti ascolto

Non dovresti avvertire alcun genere di difficoltà, non ne hai mai avute d’altro canto (credi per davvero che stia cercando di convincerti?). Non essere irritante, tanto non ci casco, dico solo quello che penso di te (ridiventi serio, chissà perché poi). Una “traccia” andava benissimo; la traccia mi rimanda all’idea di un odore, di un profumo (ecco, noto che sei soddisfatto). Visto? Bastava così poco…Ora, però, vorrei mi raccontassi (no, non sono curiosa, dovresti ben saperlo); ma sì, te l’ho già detto infinite volte: è il desiderio di conoscenza, non è una curiosità (si, hai ragione, ricordo di avertela già spiegata la differenza tra l’una e l’altra cosa) e l’una può contemplare l’altra e non mai l’altra l’una (oddio, non mi guardare così e non dirmi che sono pignola). Sei complicato (già detto anche questo?) ma va benissimo così. D’altronde, ora che rifletto (no! Non voglio dire “ci” rifletto), solo da uno complicato può nascere un buon raccontare e il racconto non sarà mai debole; al più, fragile (e la fragilità si perdona, hai ragione, sì). Ma tu, quando lo farai? (quell’espressione interrogativa fa a pugni con quel che già sai) Si, quand’è che ti perdonerai? Adesso racconta, dai: lavarsi l’anima è perdonarsi. (lo so che lo sai). Fammi una promessa, però (non ti piace che ti dica “fammi” una promessa?); d’accordo, promettimi una cosa (non essere impaziente, ora mi svelo): sii leggero nel tuo raccontare (mi chiedi perché?); siilo, magari va a finire che lo scopri mentre lo farai (come cosa?).

Io, ti racconto

Seduto sull’orlo di un precipizio, con le gambe che ciondolano (dici che è proprio così che si sta seduti sul margine di un baratro?), in quegli attimi in cui non si è deciso -non del tutto- se lasciarsi scivolare o, più semplicemente, volare verso il basso, dove quel basso può anche diventare infimo, sebbene non ci si aspetti mai che lo sia per davvero, seduto su di un margine, ecco, sì, in questo modo inizio a descrivere quel tempo, un tempo che non si è mai trasformato (mi suggerisci trasmutato?) e che ha assunto una consistenza solida, ingabbiante: quel tempo che nel tempo, proprio quello stesso tempo, non mai un altro, si è naturalmente addensato catturando i protagonisti occasionali all’interno del suo progredire (ritieni che non sia leggero nel raccontare? Mi chiedi se inizia così? non hai letto proprio tutto là dentro eh?). Non aspetto una tua risposta poiché sento che l’incipit ti piace. In quel tempo, dicevo, quella fragilità di cui mi hai parlato prima la si intendeva come tale, la si percepiva come tale, senza porsi ulteriori domande; insomma, la si accettava, punto; si scopre solo in seguito quanto ci si possa attaccare ostinatamente ad un’idea e svelare, svelare a se stessi, con dolore, amarezza (vedo che l’amarezza ti cattura, eh?), quanto realmente sia stato duro combattere contro un pervicace e dannoso convincimento (non comprendi in pieno quello che ti sto raccontando?); ma sì, è facile, qui non ci sono mezze misure: ti dico che l’errore, quello iniziale, è stato il considerare fragile ciò che invece era soltanto maliziosamente (drammaticamente dici?) debole. Perciò, non si è trattato di uno scivolare, ma di un volare. E non è stato un dirigersi verso il basso (sarebbe stato semplice, meno complicato, hai ragione tu). È diventato, progressivamente, un cadere su per l’infimo (ritieni che “cadere su” renda bene il senso di un volo sbigottito?), dove la progressione lenta della caduta è stata agevolata dal tempo addensatosi: un cadere dentro il burro, sì (mi chiedi cosa resta adesso?). Aspetta, dammi ancora un attimo del tuo tempo, non essere frenetica. Ora potrei dirti che quel che rimane è una fotografia (lo so che non ci credi), ma, ti prego, almeno per il momento, fai finta di crederlo.
Ed è così che ci siamo incontrati (come chi?), ci siamo incontrati in queste condizioni (sì, pronti a cadere nel burro, mi fa piacere che lo abbia ripetuto tu). So benissimo che hai la necessità di conoscere meglio (le coordinate? Adesso arrivano, te le porgerò).
Come si definisce un incontro tra due anime? E uno tra due anime vagule? Eh sì, è stata questa la difficoltà: non due semplici anime (sarebbe stato troppo semplice, vero?), ma due spiriti erratici. Di solito, quando accade una cosa del genere, le persone non si incontrano poiché tendono curiosamente ad evitarsi; così non è stato (ma no, non dire ahimè, mi ricordi lei). Un incontro, dunque, e proprio nel momento in cui altre anime (no, non vagule, te lo assicuro) chiuse in una sottospecie di inconsapevolezza alla vita, si accompagnavano a me e a lei (vuoi già i nomi?). Ma, vedi, anche dire, dirlo a te, che qualcun altro si accompagnava a noi, è già commettere un errore (non ti svelo i nomi, non ora, sii paziente per favore); ma sì, certo che lo è: due anime vaganti non possono tollerare una compagnia con chi non vaga e, se esiste, la avversano e lo fanno in tutti i modi possibili, anche con quella forma di cattiveria misurata e lucida che può riservarsi solo ad un nemico temibile. Eh sì, chi ha la sfortuna di doversi confrontare con qualcuno che versa quotidianamente in queste condizioni di sistematica erranza (noto che ti piace “erranza”; è un termine arcaico, sì) finisce sempre col perdere qualcosa. Ma non parlo di me e di lei (lo avevi capito?), parlo delle altre due anime, anche se come ben sai, chi erra chiederà, per sempre, all’altro “mi insegnerai ad amarti ed io imparerò” e l’altro risponderà, per sempre, nella stessa identica maniera e non misurerà altra risposta che non sia quella del tutto simile alla domanda stessa: “mi insegnerai ad amarti ed io imparerò” (intuisco la tua domanda sul come è stato possibile un incontro). Chi invece non erra ed è scaraventato in questo fondale (mi chiedi da chi?), perde se stesso innanzitutto, prima, e ancora prima, di perdere l’altro (è solo terrificante quanto ti narro? Soltanto?).
L’abbandono, la perdita di ciò che è fuori da sé -l’altro- è solo un effetto finale conseguente, niente al confronto della perdita del sé (capisci cosa intendo, vero?). Il male, il maleficio, si impossessa quasi ineluttabilmente del corpo e della mente di chi erra senza meta o confine e quest’arte diabolica e maligna dura fino ad un momento in cui ci si incontra (come chi? Lei ed io). Lì, in quel luogo, fino ad un attimo prima solo lievemente immaginato, lo scontro impegna forze inimmaginabili e tutte queste forze, inesorabilmente tutte, già dentro di noi, pronte ad erompere impetuosamente senza ritegno, in modo sfrontato. Non ci si prepara ad un mero combattimento, di più, è una battaglia che contiene in sé qualcosa di epico (perché mi suggerisci eroico?) e si svolge in un campo già pieno di polvere, dove la polvere stessa è parte inseparabile della lotta. Poi, all’improvviso, prima di iniziare, tutto si acquieta e l’attesa conduce i contendenti al confronto, si si si, quel confronto che allarga le narici, acuisce la vista e l’olfatto, fa sudare. L’una e l’altro e nessun altro in campo. Ma, anche in questo modo acconciati -solo oggi posso rendermene conto- si è semplicemente deboli e non delicatamente fragili: nessuno dei due, sappilo, s’è concesso il tempo di darsi una carezza prima di iniziare, poiché la debolezza, quella debolezza (si, dici bene tu, mascherata) lo impediva ed esigeva immediatamente che la soddisfazione di un bisogno si dovesse svolgere senza alcun genere di cura, di dedizione.
E’ questo che è accaduto e te lo racconto così, senza ulteriori fronzoli (annuisci?). Si, certo, ti sto raccontando una storia, proprio quella che hai tra le mani.
Non è importante il luogo o lo spazio poiché, te l’ho già detto, queste faccende si regolano da sé senza cura, senza attenzione; anzi, è proprio l’attenzione la peggior nemica di un incontro così mobile e così mai fermo (dici che è coerente con l’erraticità delle anime?). Vorrei dirti che anche la fisicità delle anime vaganti può diventare un dettaglio, sì, vorrei potertelo dire ma -qui mentirei se lo affermassi- così non è stato. Eravamo bellissimi (no che non sono presuntuoso, perché credi che lo sia? Ti dico la verità), perfettamente armonici, una proporzione fisica ineccepibile, nessun disequilibrio estetico, un po’ come quei pupazzetti che si sistemano al centro di una torta nuziale, eravamo privi di ogni genere di sbavatura (il richiamo ai pupazzetti ti infastidisce, lo so). Se ti dico che l’assenza di sbavature era solo frutto dello stesso errore iniziale di cui t’ho detto prima sei più contenta? Ma sì, seguimi e ricorda per bene la differenza tra la fragilità e la debolezza: non potevamo certo preoccuparci di esaltare un aspetto esteriore -il nostro- se fossimo passati attraverso la nostra fragilità poiché essa (la fragilità, certo) ci avrebbe ineluttabilmente condotto ad una conoscenza (sì, hai ragione, anche la differenza tra la conoscenza e la curiosità ritorna) e non ad una mera curiosità, la nostra, per l’appunto. Con curiosità e debolezza: è in tal modo che due anime vagule possono tollerare di incontrarsi, possono così pensare, solo pensare però, di conservare un alto grado di autonomia; ma, lo si sa bene, ciò che si pensa difficilmente tende ad essere adempiuto, e l’avidità di un uomo e di una donna, con altrettanta difficoltà, conserva quel rigore del pensiero perché, in fin dei conti, comunque, si resta avvinti. Lì, la carica esplosiva è consistita tutta nell’essere quel che si è stati e quel che si è stati allenati ad essere (lo so che hai ben compreso). L’ulteriore aggravante? Te l’ho appena evidenziata: l’avidità.
Bellissimi, in una giornata estiva calda e ventosa, anzi, in un primo pomeriggio appiccicoso di giugno. Chi eravamo in quel momento lo sa solo dio. A noi bastava essere protesi senza un perché (non chiedermi, non ancora, delle altre due anime, quelle semplici; in seguito te ne parlerò, forse).
Niente, come ovvio, poteva essere previsto. La frenesia di un appuntamento al buio (ti meravigli di questo?) ci conduceva e sosteneva, con altrettanta frenesia, e i pochi particolari che adesso ricordo ne sono un segnale; è come se avessimo dovuto dar seguito ad una scommessa al tavolo del poker, infilati in quel genere di scommesse dove i giocatori non conoscono, o fanno finta di non conoscere il punto degli altri, eppure sono ugualmente convinti di poter vincere una mano, perlomeno quella mano. Insomma, un gioco dove si è talmente concentrati su se stessi che si decide di rischiare il proprio punto e anche quello dell’avversario, infischiandosene di quanto l’altro contendente effettivamente possegga (mi chiedi se è così che un’anima vagante vive?), perfino sostituendosi e surrogandosi alla eventuale carta vincente altrui, nella folle consapevolezza che le proprie cinque carte siano comunque sufficienti per un esito vittorioso dell’intera partita (eh, sì, hai capito bene, l’intera partita).
La semplicità del primo approccio nella sua auto, una tedesca di colore blu con i sedili in pelle chiara, ci ha colto nei pressi di una libreria da me abitualmente frequentata (i miei ricordi sono teneri e per nulla sfumati dici?). Pochi ma intensi sguardi, di quelli che si conficcano e non si staccano, di quelli che ti fanno dire “ma sei tu, dunque?”, come se ci fosse stata una preventiva e lunga preparazione. Ma le lunghe preparazioni le compiono, chessò, i medici quando descrivono minuziosamente un cadavere ben steso sul lettino (ma no che non eravamo morti! Forse, però, già moribondi, questo sì te lo posso concedere), e stanno lì ad appuntare nomi e colori, numero delle dita, segni particolari, colore degli occhi e dei capelli; non noi, no, noi no. Tu che mi parli sempre del “volume” dei corpi quando il volume stesso si ricongiunge ad una voce o ad uno scritto, puoi ben capire quale tipo di effetto dirompente si sia potuto sprigionare in quel momento. Ci siamo dunque reciprocamente rapiti senza ulteriori conferme o sezionamenti di sorta: eravamo perfetti, precisissimi, come ebbi modo di dirle solo qualche giorno dopo (cosa mi rispose lei?). Lei preferiva usare un’altra espressione: “geometricamente perfetti”, così diceva, soprattutto quando si scopava; la misura del “quando” contempla dei lunghissimi prima e dei lunghissimi durante (no che non ti deludo: anche dei lunghissimi dopo. Sorridi?).
Ma non voglio correre. In questo modo -credo sia giusto per te- non dovrai rincorrermi.
E dov’è la bellezza di tutto quanto t’ho appena descritto? La bellezza, te lo dico con semplicità, ancora una volta e chissà per quante altre volte potrei dirlo, eravamo noi; ma sì, pieni di quel bello che prescinde dal fuori (mi suggerisci “dal contesto”?) e perciò di una assolutezza mai conosciuta prima, dove le emozioni si mescolavano alle sensazioni (mi chiedi se ci siamo toccati, cioè se ci siamo sfiorati con un gesto, con un dito?) e dove non si avvertiva la necessità di alcun contatto che non fosse olfattivo, poiché, lì, ci siamo respirati e annusati e dopo, solo dopo, osservati. Un altro errore: in quella mescolanza si cominciava a sottrarre all’uno e all’altra, non si riusciva ad aggiungere perché ognuno chiedeva all’altro di insegnare e di apprendere nello stesso tempo, rispettando una perfetta condizione di reciprocità del togliere (mi chiedi se questo soffocarsi a vicenda fosse piacevole? Ti rispondo subito: era un morire piacevole). Le ho tolto immediatamente qualcosa quando, seduti in un bar le ho domandato, con preordinata e precisissima irruenza, di mostrarmi le sue mani -e anche i suoi piedi- mentre lei già osservava le mie, così togliendo a me il fiato. Un continuo rubare, rubarci; anche gli occhi ci siamo rubati (mi chiedi se fossero belli?). Bellissimi…i suoi e i miei. Reciprocità, ricordi? Due animali in fuga che si depredavano senza ritegno, immersi in miscele chimiche sino ad allora rimaste divise e senza alcuna possibilità di altrimenti incrociarle; mi verrebbe da dire di “mai incrociarle” (lo capisco che ti piace detta così). Un incontro improbabile, certo. E nessuno dei due ha voluto confessare all’altro di smetterla di addentrarsi nel piacevole senso dell’arte del rubare (mi fai “sì” col capo?); l’avidità ci sorreggeva benissimo ed eravamo finalmente partiti col fiatone dentro e con quello altrui addosso (non stupirti se ho detto “finalmente”). Poi? Poi si comincia a scappare ed è uno strano modo di sottrarsi. Lo definirei uno sfuggire calamitato (un ossimoro, dici?) perché si corre in direzioni naturalmente opposte pur restando in ascolto l’una con l’altro e senza pudicizia (continuerà ad accadere per tutta la vita? Non so se hai ragione). E vuoi sapere dove si ritornava? Io in una fortezza, lei in un’altra. Le fortezze imperscrutabili dove alloggiavano le anime semplici di queste due anime nere in perenne movimento (sì, sì, ti piace “alloggiare”, rende meglio il senso della precarietà di questo vivere). Però, vedi, non era un ritornare, non era così semplice, era un andare indietro, soltanto un andare indietro, come fanno certe bestie che arretrano di fronte ad un pericolo. La percezione del pericolo, già, così forte, così ostinatamente combattuto…altro errore lottare contro un pericolo (annuisci ancora?). E cos’era infine? Paura di un sentimento, di un coinvolgersi emozionalmente? O piuttosto una più intima e profonda fobia verso un sentimento? Era tutto questo assieme (ho assunto un’espressione amara? E com’è un’espressione amara?) ed era un nascondimento, sì, una dissimulazione macchinosa, tanto macchinosa che nessuno dei due ebbe mai il coraggio di confessarlo all’altro; non ci si scopriva mai abbastanza ed invece si tendeva a custodire, con calcolata gelosia, la propria memoria. E qui, la memoria non era legata a noi, non soltanto, ma anche a tutto ciò che prima di noi c’era, o c’era stato. Solo piccoli frammenti spezzati di quel vivere prima (quello in cui le anime semplici ci tenevano al laccio, sì hai ragione) venivano regalati dall’una all’altro e viceversa. E lo si faceva senza alcuna delicatezza: solo chi decide di vivere nell’errore (ritorna anche l’errore, sì) è obbligato a spostarsi nell’errore stesso, concedendo pochi vaghi elementi che incuriosiscono e rapiscono; anche in questo agire v’è la ossessione del togliere poiché solo donando piccolissime insignificanti rappresentazioni del “prima” in realtà non si dona, ma si toglie. Sì, pensaci bene, lei toglieva a me l’intero disegno del suo vivere prima di me, costringendomi a elaborare un disegno non suo, ma soltanto mio; io, regalavo a lei parzialità, solo parzialità: ecco il disegno macchinoso, il nascondimento, un’arte del vivere, niente più che questo. Avremmo dovuto chiudere quel gioco -oggi lo si può dire- prima di infittirci nel nostro reciproco errato sentire, anche perché in tal modo abbiamo condotto le altre anime, solo apparentemente immuni da questa maligna arte dell’amare (credi che l’arte del vivere e dell’amare siano facce della stessa medaglia?), in un progressivo ulteriore errore: quello dell’amare noi due, ognuno per proprio conto amato -da altri- per disperazione, la disperazione della perdita imminente ma solo velatamente annunciata, poiché inutilmente procrastinata. Era un procrastinare complesso che coinvolgeva troppe persone, tante, un continuo errare e mentire, errare e mentire, amare con arte e vivere nella stessa maniera, un non vivere, un non amare.

Ti domando

Come due giocatori abilissimi (non capisci quello che intendo?). Sì, vi muovevate come due esperti ed abili giocatori (ora mi dici di sì, fai finta di non capirmi), ed avete condotto in questo vostro giocare anche le altre anime, quelle semplici, inconsapevolmente inserite in un meccanismo troppo complesso per poter essere accettato (ne dubiti?). Vorrei spiegartelo, me ne darai il tempo ne sono certissima, tu che il tempo lo prendi per raccontare, per raccontare a me questo manoscritto (non ti spiace se lo lascio qui sulla scrivania, vero?), lo faccio per raccogliere il pensiero, i miei pensieri (mi chiedi se avverto la tua delicatezza nel raccontare? Aspetta ancora un po’, fammi pensare ancora). Il gioco, il vostro gioco, affascina, lo sai bene, affascinava voi e affascina me, spettatrice privilegiata di questa partita (non esprimerò giudizi, sta’ tranquillo, distendi i lineamenti, non essere ansioso, sono delicata, io). Parlavi del poker (ricordi?). Cosa accade durante una partita? Si bluffa? Si imbroglia? Le due cose assieme? O l’una cosa non contempla l’altra, poiché il bluffare è una regola e l’imbroglio una non-regola? Lo so, troppe domande, ma considera che io non sono un’esperta, da te imparo le regole e anche le non-regole (dici che il gioco seduce in quanto gioco? È per questo che ne resto attratta?). Anche questo, dunque (come cosa?), è un muoversi nel solco dell’errore (annuisci, ti sveli, ne sono compiaciuta). Ma dimmi, chi imbrogliava chi? Perdonami, non rispondermi, non subito, vorrei arrivarci da sola, ma tu guidami, aiutami, dammi degli strumenti per comprendere, infine, comprendervi. L’errore, in un gioco, non può che essere provocato, non nasce per caso, è voluto da uno o da tutti i giocatori, voi due (mi sto dando delle risposte e sento che sono quelle giuste, lo capisco da come mi osservi).

Io ti osservo

Il gioco, dici? Pensi che abbia avuto un’importanza fondamentale? Voglio dirti una cosa, e lo farò mentre continuerò ad osservarti (le pupille dei tuoi occhi sono diventate strettissime, lo sai?): tra noi (me e lei, sì), si avvertiva -sempre- una improvvisa mancanza…il suo viso, o il mio, la sua età senza età, i suoi occhi che scrutavano le mie mani e le mie mani che la cercavano, la sua pelle profumata, la sua voce così carezzevole, il suo muoversi da me, il suo parlarmi, il mio, il nostro aggiungere persino in sogno, i segni, il chiedermi di tenerla, il mondo che girava lento e noi che lentamente giravamo in questo stesso mondo, il suo piacere ed il mio e il suo piacere a me e, ancora, le sue mani che mi cercavano. Credi che possa parlarsi solo di gioco? E se così era, credi che qualcuno stesse lì a bluffare o ad infrangere regole, ovvero a crearne nuove, volta per volta, nuove regole che nessuno potesse mai prevedere? Sei disorientata, lo capisco dai tuoi occhi, hai le pupille dilatate adesso (perché mi dici che sono scemo?).

Anche io ti osservo

Ora, sì, che lo sei (ma come, mi chiedi cosa?), delicato, sei diventato delicato. Non ti accorgi di come il tuo gesticolare si sia trasformato? (non sono solo le mani, no, non sono solo quelle che si muovono senza scatti). In quale errore mi stai conducendo (non mentire, non farlo con me), tu che parli di errori, il tuo, il suo (in nessuno, dici?). Allora, semplicemente (non annuire, non subito, non ancora), può solo dirsi che eravate giusti. Il senso della giustezza dell’essere, di quel tipo di giustezza che non spreca del tempo a domandarsi un perché (ora puoi annuire, sì). Ma, ti prego, continua a raccontare, raccontami ancora di questo manoscritto (può restare lì dove l’ho messo?), raccontami di voi due, due anime erratiche.

Ti parlo

Anime erratiche (noto che continua a piacerti). Ma non scordare che non eravamo solo noi, non eravamo soli e non lo fummo mai, sino alla fine (certo che una fine c’è stata! Non l’avevi capito?). Sì, le anime semplici, quelle dell’attesa, hanno riempito e circondato la nostra esistenza, fatta di iniziali parentesi che stentavano a chiudersi, ed è lì, da lì, che la fragilità avrebbe potuto trasformarsi in debolezza, anzi, si trasformò senz’altro in debolezza (mi chiedi se sapevamo questo sin dall’inizio?). Mah, vedi, trasformare un’emozione non è una cosa di poco conto, essa richiede del tempo, un tempo che l’uno domanda all’altra, e in questo chiedere passa un ulteriore tempo, quello dell’attesa e, ancora, un altro tempo, quello della pazienza nell’attesa; è un rimescolare continuo, ma senza programmi apparenti, senza, cioè, che né lei, né io, avessimo la necessità di confessarci quanto, entrambi, sapessimo già (lo so che hai capito, sì): ti parlo della paura, di quella inconfessata (no, sta’ tranquilla, non parlo più di errori). La paura, sì. E la paura produce e procura tristezza, avvolge ogni cosa sino a rendersi necessaria all’economia stessa della relazione (è scelleratezza, dici?), ne diviene il carburante fondante, il cui profumo ammalia e droga chi lo aspira. “Io e te ci massacreremo, lo sai?”, così disse un giorno, così è stato, e quanto ancora stia accadendo non lo si sa bene, lo si avverte, ma tanto basta; e basta a me, e bastò anche a lei, separati per sempre da una scelleratezza così tanto carezzevole e suadente. Il dopo, ma anche prima del dopo, è stata devastazione, distruzione. Una ferita aperta, guarita, ma sempre dolorante, per sempre. Niente si depenna, nulla si abrade e si cancella (ora, solo per un momento, per favore,…non guardarmi,…non così. Stai con me). Inutile chiedermi cose che già comprendi, tu che sei passata più volte dalla morte, le tue morti, quelle che mi hai raccontato con dolcezza. Io, per quel che ho potuto fare, nemmeno le sono passato accanto alla morte, l’ho semplicemente respirata, mi ci sono nutrito (lei dov’è, mi chiedi?). Infine si muore, sempre si muore. Così lei è una fotografia, adesso, anzi, da tempo lo è, solo una fotografia, sì. Si fugge dalle fotografie e si fugge da quell’infinito panorama che delle fotografie è parte essenziale, si commettono errori, con passione ed anche con leggerezza, e perfino in entrambi i modi, contemporaneamente, e si uccide. Ecco, sì, infine si muore (hai un viso delicato e disteso ora), lo so che i tuoi passaggi attraverso le morti ti hanno temprata, io stesso sono alla ricerca di questo definitivo indurimento (mi vuoi allenare a non ricercarlo più? Sei cara, sta qui, non viaggiare più, sta qui. Mi chiedi che fine ha fatto lei? Semplicemente morta). Così, ho decretato la sua fine (non chiedermi più di chi) e, insieme, la mia, lì. Qui, si ricomincia daccapo, si ricomincia da lontano, meglio, da un lontano (lo capisco, l’ho sempre capito anche il tuo lontano).
Io ti parlo

Sei passato così leggero, così come le tue soste, fugaci anch’esse. Uno che passa (ora sei tu che osservi me). Sei uno che passa e che ha preso, in qualche modo, qualcosa di me. In fondo, so bene cosa (mi domandi perché sia qui a dirtelo?). Adesso, vedi, metto in riga parole che vogliono dire qualcosa, sono io che ti parlo. Non chiedo più e non sistemo punti interrogativi alla fine delle mie frasi (sorridi. Chissà di cosa). Mi fermo a prendere atto del piacere che dai e che forse non sai poiché, se sapessi, forse ti chiuderesti. Vivo ancora di istinti e li seguo a fiuto. E, a fiuto, oggi, volevo vederti per confortarmi di qualcosa che neppure so. Pochi punti fermi. Uno era la voglia improvvisa di rivederti (mi chiedi perché sia tornata e non ti accorgi delle risposte che ti regalo). Poi, a volte, il caso mi aiuta (oggi l’ha fatto): mi impone frenate, rallentamenti che mi fanno pensare e che, a dispetto dei miei istinti, mi fanno tornare indietro, o mi danno il sole, il calore. E, con essi, il desiderio di prendermi tutto quasi fosse l’ultima volta (lo so, non ti piacciono più le “ultime volte”). E, dopo la confusione del sole, allineo queste parole, le disegno sulla pelle della tua faccia (non riesci a sentirle come si disegnano bene sul tuo volto?): lo faccio per ritrovarmi e per farmi trovare. Un gioco che, forse, non porta in nessun luogo, da nessuna parte e che, fino a ieri, ha guastato ciò che ho avuto. Sai, non è il tempo che guasta i rapporti, siamo noi che li guastiamo perché non sappiamo curarli e perché giochiamo con essi. Tuttavia, la consapevolezza non basta (sì, hai ragione a precisarlo: non basta più). Ho giocato lo stesso, senza riflettere, su nulla, sui significati del mio agire sconclusionato e balordo, così intenso che inganna, disorienta e, al momento opportuno si rivela un grandissimo bluff (hai visto? Anche io mi rifugio nel gioco). Vorrei raccontarti per bene e vorrei realizzare questo per meglio scandire i miei ricordi, il mio dire passato (so anche questo. So bene che lo conosci); e vorrei far questo per sentirmi dire qualcosa che uno come te direbbe. Sei uno che passa, anche nel dire, ed è un passare denso, il tuo. E di una come me, cosa ne pensi? Di una che s’è mossa come un animale braccato, con cauta, lenta circospezione. Sì, è vero, ho tradotto l’inquietudine interna in un gioco affannato e distratto, intessendo (forse) relazioni da niente (mi chiedi se questa con te è una relazione da niente?). Ho vissuto alla giornata, vivendo ogni singolo attimo impercettibile della mia vita, densa di tutto ciò che affanna e riempie e poi stanca e ti imprime soste, di quelle che ti lasciano ferme in un angolo della vita stessa a guardarsi le mani, vuote. Ma questi giorni (attimi anch’essi, dici?) sono e sono stati rivolti a te, a me, perché ad un certo punto occorre che qualcuno, anche se inventato, anche se solo di passaggio, ci ascolti e ascolti la nostra storia, sia pure appena accennata, sia pure se fatta di segmenti e di singhiozzi silenziosi. Una storia ha un senso se c’è qualcuno cui raccontarla. E in quei momenti, come in questo, ho scelto te, anche se, infine, sarà nulla quello che ti dirò e darò, se non un’immagine a volte disinvolta e sfacciata e, a volte, no (non guardarmi così. Mi piacciono i tuoi occhi, lo sai?). E tra un attimo, questa mia stupida ansia di mettere in riga pensieri balordi, quelli che hanno trovato la loro collocazione nel mio passato, sarà consumata, finita, ed il respiro tornerà quieto, un imbroglio di pensieri e respiri senza causa ed effetto ed io tornerò in pace (sì, sono già avviata verso questa pacificazione). Fino a quando? Vorrei difenderti dalle scoperte su come sono, o sono stata, su quanto sono capace di accogliere, di accoglierti. Ma rimando, ogni volta rimando e mi concedo un’altra volta, una ancora, se vuoi.

Ti ritrovo
Mi ritrovo

Il tempo, il tempo, quello che scivola via, quello che aspetti che arrivi e quello che non se ne va mai. E poi c’è un tempo -significante- che è quello dell’anima nostra, il meno incline a subire gli imbrogli di tempi a noi estranei. Lì, in questo tempo intimo, ognuno, con calma e leggiadria, vede, legge e assapora la propria anima. Lì, in questo tempo (privo di tempo, di quei tempi che scivolano via, di quelli che si attendono con ansia o, infine, di quelli che mai vanno via), l’anima la si scrive e la si racconta. E se salgono lacrime lente o non urlate, allora lì, quell’anima, proprio quella, e in quel tempo, proprio quello, la si è scritta e raccontata col cuore. Così tu, mi hai scritto e raccontato la tua. Io, da questa parte del mondo, la mia. Ma, entrambi, mai sfiatando, col cuore.

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Ecco uno sciocchezzaio aulico, sebbene ben sussurrato (sorridi?).
Lo so. Mi sento privo di difese, non stupido.
Lo so che lo comprendi da te.
Non hai bisogno di chiedermi concessioni.
Sto qui, mi fermo.
Mi sei cara.
Lo sento.

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