di Enzo Varricchio

 

Chi avrebbe detto che anche Bari, come Ferrara, Roma o Milano, fosse una città metafisica?

Che la Fiera del Levante, l’”Umbertino” e persino il quartiere Libertà potessero emulare i dechirichiani Castello Estense, piazza Ariostea, la storica Fabbrica dei Fratelli Santini, oppure le ambientazioni capitoline dell’E.U.R.?

E’ questa l’operazione concettuale dell’artista tecnometafisico Pino Verrastro. Bari non più la città periferica di prima, brulica di turisti ed è lanciata nell’olimpo delle mete vacanziere ma il suo centro storico si è trasformato in una sorta di enorme ristorante all’aperto, le sue strade sono sporche, le sue tradizioni si vanno mercificando al servizio dell’utenza di turno.

Verrastro la metafisicizza, svuotandola per mitizzarne l’antica essenza, prima che vada perduta, per musealizzarla. Fotografa la trasformazione urbana con un’operazione concettuale che la consegnerà ai posteri come un monumento di ciò che era. Tutti vorrebbero avere in casa un’opera di Verrastro sul luogo di Bari che amano perché rivitalizza la memoria della città e la proietta nell’empireo delle più belle, oltre la stessa realtà. Magie della tecnometafisica.

Può una città diventare metafisica?

Solo nella visione di un artista. Una città, notoriamente, è una formazione antropica in uno spazio geografico, un elemento insediativo economico, politico, culturale, dalle connotazioni variabili nel tempo e nello stesso spazio che occupa. Quindi, un sistema fisico diveniente e relativo per definizione.

Mentre metafisica è una realtà assoluta e universale, non transeunte, esistente in sé, antecedente al pensiero e alla stessa realtà naturale.

L’arte può essere metafisica in quanto costituita da oggetti materiali ma in grado di cogliere l’essenza delle cose, la loro ontologia o verità, più o meno nascosta dalle apparenze fenomeniche. Ciò, ben prima e al di là della scuola pittorica novecentesca inaugurata da Giorgio de Chirico che porta questo nome, che non a caso riferiva tale appellativo sia alle proprie opere che a quelle dei grandi maestri del passato, anche se a lui e al fratello Andrea Francesco Alberto (in arte Alberto Savinio) va attribuito un ruolo primario nella creazione di tale poetica moderna, poi ripresa da Carrà, Soffici, Morandi e da altri ancor oggi.

Ad esempio, ritengo metafisica, nel senso di iperrealistica, la luce dei dipinti di Michelangelo Merisi o quella del suo garzone e poi allievo bergamasco Cecco del Caravaggio nella misconosciuta e sublime Resurrezione del 1619-1620.

La pittura metafisica del XX secolo nasce in Italia per contrasto dalla situazione materiale e reificata delle moderne città alveare, si ambienta in piazze deserte, stazioni ferroviarie, torri, statue e monumenti, menomati dall’assenza del protagonista urbano per eccellenza: l’uomo. Straniamento, enigma e solitudine sono i suoi temi prediletti, inconscio e sogno le sue fonti ispirative, manichini, statue, ombre e figure mitologiche i suoi personaggi.

Da pittura traslò nell’architettura di centri storici come Brescia o Varese, oppure in città di nuova fondazione, come quelle dell’Agro Pontino (Sabaudia, Aprilia), per culminare nello spettacolare impianto incompiuto dell’EUR.

Quella di Giuseppe Verrastro è una “tecnometafisica”, visto l’uso della videografica, metafisica modernizzata: a trasfigurarsi e mitizzarsi non sono più le bellezze urbane, i monumenti famosi svuotati di vita, ma i signorili palazzi abitati dai “murattiani” allo stesso modo dei recessi più reconditi e negletti delle zone periferiche, gli anfratti sperduti di archeologie industriali ormai dimenticati e dismessi, così assorbiti dalla bruttezza da divenire poetici. Divengono non-luoghi immobili, così misteriosi e silenti, da tornare significanti, paradossalmente rivitalizzati da inserti di elementi artificiali.

Tutto questo metafisicizza lo sguardo di Verrastro, in passato pittore di tavole lignee di stampo medievale, formatosi alla ortodossia geometrica delle chine, alla tecnica immaginifica dell’acquarello, allo studio del colore veneto e fiammingo.

Non è pittura, ma computer art, fotografia modellata non dal diaframma ma dalla mente dell’artista, quadro nel quadro, manipolazione imagopoietica, altamente concettuale e idealistica.

In questi teatri della memoria, ancor riconoscibili dall’occhio attento del cittadino barese, la fantasia dell’artista scorrazza indisturbata: le architetture eclettiche del quartiere fieristico diventano castelli di levante, gli edifici di Corso Cavour potrebbero essere le nostre case, il vecchio liceo “Flacco” è il punto di osservazione di un quadro surrealista, la cittadella della cultura sembra dipinta dal pittore danese Vilhelm Hammershøi, le ciminiere abbandonate delle ex “acciaerie Scianatico” evocano la “Torre rossa” di De Chirico, mentre il Santo patrono Nicola fa capolino sulle strade vuote.

D’ora in poi, insieme alla focaccia, all’orecchietta e alla Peroni, l’orgoglio barese potrà postare anche gli scorci mitici di Verrastro.

 

Il catalogo della mostra

 

 

 

 

 

 

 

BARI METAPHYSICS

 

Who would have said that Bari, like Ferrara, Rome or Milan, was also a metaphysical city?

That the Fiera del Levante, the “Umbertino” and even the Libertà district could emulate the dechirican Castello Estense, Piazza Ariostea, the historic Santini Brothers’ Factory, or the Capitoline settings of the E.U.R.?

This is the conceptual operation of techno-metaphysical artist Pino Verrastro. Bari is no longer the suburban city it used to be, teeming with tourists and launched into the Olympus of holiday destinations, but its historic center has turned into a sort of huge open-air restaurant, its streets are dirty, and its traditions are being commodified in the service of the user on duty.

Verrastro metaphysicizes it, emptying it to mythologize its ancient essence, before it is lost, to musealize it. He photographs the urban transformation with a conceptual operation that will consign it to posterity as a monument of what it was. Everyone would like to have a Verrastro work in their home about the place in Bari they love because it revitalizes the city’s memory and propels it into the empyrean of the most beautiful, beyond reality itself. Magics of technometaphysics.

 

Can a city become metaphysical?

Only in an artist’s vision. A city, famously, is an anthropic formation in a geographic space, an economic, political, cultural settlement element with connotations that vary over time and in the very space it occupies. Thus, a physical system becoming and relative by definition.

While metaphysical is an absolute and universal reality, not transient, existing in itself, antecedent to thought and natural reality itself.

Art can be metaphysical insofar as it consists of material objects but capable of grasping the essence of things, their ontology or truth, more or less hidden by phenomenal appearances. This, well before and beyond the twentieth-century school of painting inaugurated by Giorgio de Chirico who bears this name, who not coincidentally referred this appellation both to his own works and to those of the great masters of the past, although he and his brother Andrea Francesco Alberto (aka Alberto Savinio) are to be credited with a primary role in the creation of such modern poetics, later taken up by Carrà, Soffici, Morandi and others even today.

For example, I consider metaphysical, in the sense of hyperrealistic, the light of Michelangelo Merisi’s paintings or that of his apprentice and later pupil from Bergamo Cecco del Caravaggio in the misunderstood and sublime Resurrection of 1619-1620.

Twentieth-century metaphysical painting was born in Italy as a contrast to the material and reified situation of modern hive cities; it is set in deserted squares, railway stations, towers, statues and monuments, maimed by the absence of the urban protagonist par excellence: man. Strangeness, enigma and solitude are his favorite themes, the unconscious and dreams his inspirational sources, mannequins, statues, shadows and mythological figures his characters.

From painting he translocated to the architecture of historic centers such as Brescia or Varese, or to newly founded cities, such as those in the Agro Pontino (Sabaudia, Aprilia), culminating in the spectacular unfinished layout of EUR.

 

Giuseppe Verrastro’s is a “technometaphysics,” given the use of videography, modernized metaphysics: to transfigure and mythicize are no longer the urban beauties, the famous monuments emptied of life, but the stately palaces inhabited by “Murattians” in the same way as the most recondite and neglected recesses of the peripheral areas, the lost ravines of industrial archeologies now forgotten and disused, so absorbed by ugliness as to become poetic. They become immobile non-places, so mysterious and silent that they become significant again, paradoxically revitalized by inserts of artificial elements.

All of this metaphysicizes the gaze of Verrastro, formerly a painter of medieval-style wooden panels, trained in the geometric orthodoxy of chine, the imaginative technique of watercolor, and the study of Venetian and Flemish color.

It is not painting, but computer art, photography shaped not by the diaphragm but by the artist’s mind, picture within a picture, imagopoietic manipulation, highly conceptual and idealistic.

In these theaters of memory, still recognizable to the attentive eye of the citizen of Bari, the artist’s imagination runs undisturbed: the eclectic architectures of the fairgrounds become castles of the Levant, the buildings of Corso Cavour could be our homes, the old “Flacco” high school is the vantage point of a surrealist painting, the citadel of culture seems painted by Danish painter Vilhelm Hammershøi, the abandoned chimneys of the former “Scianatico steelworks” evoke De Chirico’s “Red Tower,” while the patron saint Nicholas peeps out on the empty streets.

From now on, along with focaccia, orecchietta and Peroni, Bari pride can also post Verrastro’s mythical glimpses.

Enzo Varricchio

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