di Beatrice Di Pumpo

Francesca Crosta

Michele Iannetti

Leonardo Pettigrosso

studenti dell’I.S.I.S.S. “Fiani-Leccisotti”
Indirizzo Classico di Torremaggiore (FG)

    

Associata nel corso dei secoli al deterioramento fisico e cognitivo, la vecchiaia, più o meno avanzata, ha rappresentato una stagione difficile della vita che gli artisti sono stati solitamente restii a  rappresentare, sia in pittura che in scultura.

Scrigno  di saggezza e di fedeltà ma anche di fragilità e timore verso la morte incombente,  l’immagine dell’anziano è stata spesso collegata ad una visione malinconica del destino umano e dell’individuo stesso, impossibilitato a vincere la sua guerra contro l’azione del tempo.

“Non sempre l’arte ha voluto raccontare ogni aspetto della vita…”

L’arte antica, tranne qualche eccezione in età Ellenistica, ha, di solito, evitato la raffigurazione del corpo segnato dall’infierire del tempo.

Il corpo umano doveva rivelare una perfezione fisica piuttosto che un’espressività tragica come, invece, accade nel noto gruppo scultoreo di Laocoonte e i suoi figli.

L’opera, proveniente dalla scuola di Rodi, è probabilmente una copia romana, realizzata tra il I sec. a. C. e il I sec. d. C., dell’originale versione in bronzo, di età ellenistica, risalente al 150 a. C. circa.

Troviamo qui riprodotta la figura di un anziano padre il cui volto è marcato dal pathos.

In essa viene ripreso un celebre episodio epico-letterario della guerra di Troia, narrato nell’Eneide di Virgilio (II, vv.203-219).  Il sacerdote troiano Laocoonte, punito da Poseidone perché ha tentato di impedire l’ingresso del cavallo di legno a Troia, viene stritolato da due serpenti insieme ai suoi figli, Antifate e Timbreo.  La scultura è ricca di drammaticità: basti osservare i movimenti delle sopracciglia e la bocca socchiusa tesa  ad esprimere tutto il dolore umano.

La simmetria compositiva dell’opera vede al centro la figura dell’anziano padre che tenta di liberare dalle spire dei serpenti i figli, collocati ai due lati, con lo sguardo angosciosamente rivolto in cerca di aiuto.

La figura di Laocoonte sembra rimandare all’immagine dell’anziano inteso sia come modello di saggezza che come emblema si accettazione sofferente del destino: egli non osa ribellarsi e accetta la sua punizione in modo arrendevole, come prezzo da pagare per la sua irriverenza nell’aver rivelato  l’inganno del cavallo.

Contemporaneamente al Laocoonte a Roma era divenuta celebre l’arte della ritrattistica che raffigurava con il massimo della veridicità tutti gli individui, a partire da semplici cives (“cittadini”) fino ad arrivare agli imperatori.  I ritrattisti presentavano spesso con le sopracciglia aggrottate i soggetti, in particolare evidenziavano ogni ruga, ogni espressione ostile, ogni difetto fisico. Il ritratto romano repubblicano è una peculiare forma artistica dell’arte romana che si affermò tra l’inizio del I sec. a.C. e il 50 a.C.

Era caratterizzato da una grande cura per i tratti somatici, improntata ad un accentuato “verismo”, derivante dalla tendenza di ogni famiglia a distinguersi per particolari tratti fisici o lineamenti del viso, tali da sottolinearne l’unicità. L’arte romana di questo periodo raggiunge traguardi di grande intensità, allontanandosi progressivamente dall’influenza  greca, eliminando ogni segno di abbellimento, in concomitanza con il burrascoso periodo che vide emergere a Roma la figura di Silla.

La  testa 535, detta anche patrizio Torlonia, che ritrae Catone il Censore ( noto anche come il Vecchio), non risparmia nessuno dei segni della vecchiaia. Lo stile dell’opera è secco, molto minuzioso nella rappresentazione della pelle solcata dalle rughe e dalle rigorose condizioni contadine di cui i patrizi andavano fieri, in quel difficile momento caratterizzato dalla lotta ai Gracchi, dall’avanzare della plebe e delle guerre civili.

Quella di Catone è una vecchiaia fiera e sdegnosa,  rappresentata in modo eloquente dal taglio duro della bocca e dallo sguardo sprezzante, dalla fronte solcata dai segni di una vita, una vecchiaia che rifugge volutamente ogni abbellimento.

Un realismo esasperato, teso a veicolare un preciso messaggio politico e sociale.

Più avanti nei secoli, l’ immagine dell’anziano è stata ripresa e rivalutata nel Cinquecento dal genio di Michelangelo.

L’artista realizzò una scultura di Mosè seduto con il busto inarcato, la gamba sinistra abbassata e l’altra flessa con la sola punta del piede posata sulla base. Il profeta è rappresentato con una folta chioma mossa e regge con la mano destra alcune ciocche della sua barba mentre sostiene le tavole della legge.  Il suo aspetto fisico è robusto, muscoloso e vigoroso, evidenziato dal drappeggio delle vesti. I lineamenti del viso sono turbati dal passare del tempo, anche se dallo sguardo emerge una grande carica vitale. Sul capo sporgono due piccole corna acuminate, tipiche della sua iconografia e determinate da un’erronea interpretazione dell’Antico Testamento, in base alla quale il termine ebraico “karan” (“raggi”) fu confuso con “keren”(“corna”).

La scultura rappresenta un Mosè appena sceso dal Monte Sinai dopo la visione di Dio e dopo aver ricevuto i Dieci Comandamenti.  I gesti che compie simboleggiano tranquillità e controllo dei suoi istinti, sebbene lo sguardo, definito “terribile”, sia stato collegato al carattere irascibile e severo dell’artista.

L’ opera è conservata a Roma, nella Basilica di San Pietro in Vincoli ed è stata realizzata tra il 1513 e il 1515 circa.

Qualche decennio più tardi, nel 1541, Michelangelo realizzò l’ illustre e universalmente noto affresco decorativo, situato nella Cappella Sistina. In esso l’artista rappresentò l’episodio del Giudizio Universale, in cui si assiste, alla discesa dei dannati verso l’inferno e all’ ascesa dei beati in Paradiso. In alto sono collocati Gesù e la Vergine Maria, mentre sulle due lunette superiori sono situati gli angeli che regolano gli strumenti della passione, la corona di spine e la Croce. Intorno a Cristo sono collocati alcuni personaggi dell’Antico Testamento come apostoli, profeti, santi, martiri e vergini. Tra le oltre 400 figure, spiccano innumerevoli volti di uomini e donne anziane, vecchi e vecchie, patriarchi e santi avanti negli anni : tra questi San Bartolomeo in cui è stato riconosciuto l’autoritratto anamorfico di Michelangelo. Per ognuno un’espressione, uno sguardo, una posa, in una caleidoscopica varietà della rappresentazione dell’umano  che la vecchiaia santifica o abbrutisce, deforma o eleva.

Risalta indiscutibilmente tra tutti l’intenso ritratto di Dio Padre nell’atto della creazione del primo uomo: alla giovane e atletica  figura di Adamo, nudo e semidisteso, mentre tende il braccio verso l’Eterno per ricevere la scintilla vitale, si contrappone l’immagine matura e carica di energia del creatore con la capigliatura grigia e fluente e una lunga barba con baffi fluttuante nell’aria.

Lo sguardo sicuro, la posa imponente , la tensione muscolare, il profilo fiero e determinato, gli zigomi contratti fanno del Dio Creatore michelangiolesco la quintessenza della senilità generatrice di sapienza, fine e principio del soffio vitale.

Con un salto di molti secoli, agli inizi del Novecento, divenne celebre, tra le numerose tendenze artistiche, il raffinatissimo stile di Klimt, moderno e fantasioso. Uno stile in cui si fondono scienza, arte e letteratura. Nei suoi dipinti il pittore austriaco ripropone gli elementi compositivi dei mosaici bizantini, i fondi d’ oro tipici dell’arte gotica e alcune caratteristiche dell’arte rinascimentale italiana.  Nell’opera “Le tre età della donna” (1905) di Klimt ritroviamo, magistralmente espresse, al di là del tema, queste peculiarità.

L’ intenzione è quella di raffigurare le tre età della donna tramite tre corpi nudi che simboleggiano l’infanzia, la giovinezza e l’anzianità ma anche la precarietà della vita e della bellezza: l’opera appare, infatti, come un’esplicita allegoria della vita e del corso delle stagioni.

Ciò che spicca, al primo impatto, sulla tela è la figura di una giovane madre dai lunghi capelli biondi, ritratta mentre, affettuosamente, abbraccia la figlia, che dorme serena appoggiata sul suo seno. A quest’immagine si contrappone il ritratto di una donna anziana, posta di profilo, che simboleggia una senilità decadente. Si possono, infatti, notare i capelli grigi che non lasciano intravedere il viso e la mano in segno di dolore e disperazione.

Non solo i  capelli grigi rimandano alla vecchiaia, ma anche le mani rugose e magre, il corpo flaccido, il colore della pelle.

Alla donna giovane, raffigurata frontalmente e coperta soltanto da un velo, e alla piccola bambina paffuta  dalle guance rosa, si contrappone la donna anziana che si copre gli occhi. La sua raffigurazione ha un carattere altamente drammatico: rappresenta la rinuncia ad affrontare la realtà e l’inevitabilità della morte.

“Simboleggia il tempo che scorre inesorabile e la morte che minaccia il genere umano, non solo quello femminile”

La  luminosità delle figure in primo piano crea, inoltre, un deciso ed energico contrasto con quella della donna anziana, così come il colore rosso-dorato della capigliatura.

Spetta allo sfondo creare una netta separazione orizzontale e verticale, quasi a voler suggerire una divisione tra cielo e terra, buio e luce, vita e morte…

L’ambivalenza e la contraddittorietà dell’esistenza umana conducono Klimt a contrapporre al senso di appagamento o di felicità spirituale , suggerito dagli occhi chiusi di madre e figlia, l’accentuato realismo della vecchia.

“La sua rinuncia al passato e alla vita quasi tutta trascorsa, suggerisce allo spettatore una malinconica riflessione sul senso  dell’esistenza, senza escludere la possibilità di un atteggiamento diverso e di una personale riflessione…”

 

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