di Flavio Andriani

Stagione degli amori,  la primavera.

Schopenhauer è solare quando afferma che il sospirare degli innamorati altro non è che il sospiro della specie. Il vagito della specie che bussa alla porta.

Come l’erbetta che spunta nei prati nell’accecante luce  d’Aprile. Gli amanti  inghirlandano le mani intrecciate stupidamente fissandosi nelle finestrelle degli occhi, mentre lo spermatozoo reclama la sua urgenza di essere messo al mondo.

Ma a parte il misantropo Arthur,  abbondano  da sempre coloro che, sentendosi toccati dalle muse negli umori primaverili,  “esprimono”   nelle Arti e nelle Lettere  la loro rinascita come meglio/peggio possono.   Se Botticelli ebbe la grazia di dipingere quella insuperabile  Primavera, tanti altri non si sono sottratti all’argomento stagionale. Fiumi di-versi, a se stessi o all’amata. Non si risparmiò  Leopardi con “Alla Primavera” o “A Silvia” composta  non certo in adolescenza ma da trentenne.  “ ..era il Maggio odoroso: e tu solevi così / menare il giorno …”.  Stravinskij si cimentò  (scandalosamente per l’epoca)  nella “Sagra della Primavera”  mentre  Loretta Goggi  settant’anni dopo cantava “ Maledetta primavera “.  Ma d’altra parte senza questa stagione, come faremmo oggi senza i campi di Monet, o i fiori e i girasoli di Van Gogh,  o senza i giardini di Renoir e le colazioni sull’erba di De Nittis?  Anzi quasi tutto l’espressionismo  dipingeva freneticamente proprio in quei mesi.

La primavera, araba o pugliese che sia, non bussa invece, entra con prepotenza  nell’umana voglia di cambiamento. Nell’urgenza appunto di far morire il vecchiume, di far pulizia, di innaffiare le radici di un nuovo Stato, di un nuovo arredo. E se la Puglia del dopo Vendola non è diventata certo la California, anche i Paesi del medio oriente, dopo le rivoluzioni di piazza di dieci anni fa, sono nuovamente sprofondate in se stesse, nel migliore dei casi nel populismo.  L’illusione di nascere e risorgere, per poi riassopirsi dopo un naturale ciclo.   E poi si muore anche, e morire in primavera è ancor più straziante e beffardo.  “Ninetta mia crepare  di Maggio / ci vuote tanto troppo coraggio / Ninetta bella andare all’inferno/ avrei preferito andarci d’inverno”.  Cantava De Andrè. E quando  la ascolto mi commuovo ancora.

Ma ora non c’è tempo per i sentimentalismi. Abbiamo da uscire tutti, riversarci per le strade, innamorarci, ingolfare i campi di grano, affollare i ristoranti sul mare, ingozzarci di ricci di mare, ordinare cento, mille, diecimila ricci, fare a cazzotti se son finiti.  Maledire il rientro, sudati nel traffico, maledir la primavera.

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