Wendy verso l’isola che non c’è tra pensieri felici e dualismo

 

di Rocco Lombardi

Francesca è bella, molto bella.

Sul suo corpo tonico riposano in movimento alcuni tatuaggi che hanno qualcosa in comune: sono cartoni animati della Disney.

“Ho tre cartoni animati perché mi piacciono tanto… A questi due nella foto si aggiunge nei miei piani Capitan Uncino che partendo da Simba raggiungerà l’altro.”

A prima vista sembra una scelta piuttosto banale e infantile. Ma quel terzo tatuaggio?

Qui partono i primi problemi…

Perché Hook è l’antagonista di Peter e quindi rompe un po’ l’immagine idilliaca dei bambini e della fatina che vanno alla ricerca del posto speciale.

Mi viene, quindi, in mente un discorso nato per caso durante un piacevolissimo pranzo di qualche tempo fa.

Dissi a una mia amica che l’avrei chiamata Bambi perché la somiglianza con il cerbiatto era palese.

Sarà stata la voglia di approfondire i discorsi dell’infanzia o le diverse bottiglie di rosato ghiacciato, ma si giunse a una conclusione.

I cartoni animati della Disney sono il primo vero interlocutore artistico dei bambini, tuttavia, come in molti sanno, nelle pellicole colorate del genio americano di originale c’è ben poco.

Dei lungometraggi classici d’animazione vengono spesso riportate fiabe tradizionali, storie tramandate oralmente, romanzi o allegorie degli stessi.

Sì, perché come si può pensare a Simba senza scomodare l’Amleto?

Passiamo poi al ruolo pedagogico dei suddetti cartoni animati Disney.

La generazione cresciuta con le videocassette non può non ammettere di aver avuto il primo trauma con l’incendio nel bosco di Bambi, di aver capito l’importanza dell’umiltà da Cenerentola, il ruolo dell’amicizia nella vita da Pumbaa e Timon.

Ma se la società si evolve, la storia è ciclica.

E allora, se nel 1941 i corvi di Dumbo rappresentavano lo stereotipo degli afroamericani perdigiorno e pusillanimi, prima della grande vittoria dell’umanità sul tema dei diritti civili, come può reagire oggi un bambino al messaggio subliminale sull’odio razziale?

Io continuerò sempre a sperare che si concentrerà più su quella gran gnocca rom di Esmeralda, piuttosto che sul detestare i corvi di colore.

Ma torniamo al tatuaggio di Francesca.

In realtà lei sa bene che c’è del dualismo in tutto questo:

“Ho letto il libro originale di Barrie e l’ho adorato. In realtà nel romanzo la voglia di non crescere è una maledizione. L’eterna infanzia non è sempre una cosa positiva ma riconosco questo tratto caratteriale in me. Da un lato l’infanzia è purezza e il credere in sogni e pensieri felici è l’unica cosa che ti fa volare, ma il rifiuto di crescere è anche il rifiuto delle responsabilità”.

Quindi Francesca non ha scelto i cartoni animati perché sono carini. Lei si fa prendere dai sogni e poi si nutre di una curiosità culturale che le fa aprire un romanzo dei primi del ‘900. Lei sa che c’è del dualismo serio tra sogni infantili e realtà.

Ed ecco perché ho scelto questo tatuaggio per celebrare “Elle. L’arte è Donna”: quante volte vediamo in una donna qualcosa che ci sembra banale ma nasconde un messaggio profondo e culturalmente strutturato?

E’ anche questa l’arte delle donne: rendere banale chi ha l’arroganza di giudicarle a prima vista.

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