di Francesca Casciaro

I social network sono stati una delle più grandi innovazioni dell’ultimo ventennio e si impongono ormai quali grandi protagonisti della quarta rivoluzione industriale, quella tecnologica.

Le loro potenzialità si sono evolute nel corso degli ultimi anni: da essere un mezzo per restare in contatto con vecchie amicizie si sono trasformati dapprima in un modo per crearne di nuove, poi in piattaforme dove promuovere sé stessi e le proprie attività.

L’ultimo capitolo di questa evoluzione ha visto la nascita degli “influencer”: persone normali che, dedicandosi anima e corpo alla cura del proprio profilo social e alla creazione di contenuti, diventano delle celebrità sui generis, che fondano la loro fama non sull’essere irraggiungibili ma sullo stretto contatto e la constante interazione con i loro follower.

Tuttavia, i social network, per quanto siano uno strumento utile e vantaggioso, hanno anche un lato oscuro, rappresentato dal fenomeno dell’hating online che, spesso e volentieri, passa in secondo piano e finisce per essere trascurato.

Le radici del problema sono rinvenibili in svariati fattori.

Il primo è dato dalla possibilità di interagire sui social quasi nel più completo anonimato, utilizzando profili falsi e celando, in tal guisa, la propria identità.

L’anonimato, infatti, consente a chiunque di far uscire impunemente allo scoperto la parte peggiore di sé, senza timore di subire alcuna conseguenza pregiudizievole per quanto viene detto o scritto.

Si potrebbe pensare che la parte migliore di internet sia proprio questa: dare voce e visibilità a chiunque e garantire ai massimi livelli la libertà di espressione, eppure la deresponsabilizzazione che ha luogo quando si sa di non poter essere in alcun modo ricondotti a un determinato pensiero o a un’idea che, nel mondo reale, non vorremmo mai vedere associata al nostro volto e al nostro nome, spesso dà luogo ad abominevoli degenerazioni.

Così non c’è più vergogna, non c’è più paura: si può dire tutto senza alcun freno e senza pensare alle conseguenze che determinati commenti e insinuazioni possono avere su coloro ai quali sono rivolti. Non c’è più decenza.

In questo contesto, il progetto di creare un’identità digitale grazie alla quale sarebbe possibile dare un nome e un volto ben precisi a ogni utente che interagisce sui social appare non solo auspicabile, ma anche necessario.

A ciò si aggiunge un’altra distorsione: l’emulazione.

Leggendo mille commenti crudeli e negativi la gente è portata a seguire la corrente, unirsi alla massa e insultare e deridere senza ritegno.

Entrando in contatto con gruppi di persone che non hanno alcun timore di esprimere pubblicamente aberranti pensieri si perde ogni freno inibitorio e, così, la soglia dell’indicibile si ritrae sino al punto che, ormai, non esiste più alcun tabù.

Anche in questo caso opera una deresponsabilizzazione: rendendoci conto di non essere che una goccia in un mare di interazioni sentiamo meno il peso delle parole che usiamo, non le misuriamo e, ancora una volta, agiamo senza freni.

Ma le radici dell’hating online non sono rinvenibili solo nell’anonimato e nello spirito di emulazione. Questi, forse, ne sono i più frequenti fattori scatenanti ma, in fondo, le cause dell’hating non differiscono troppo da quelle del “vecchio” odio: invidia, noia, amarezza, rabbia e, a volte, semplice e pura cattiveria, gratuita e ingiustificata.

Ma quali sono gli effetti che ha questa pioggia di insulti nei social e, più in generale, in internet sulle persone alle quali sono riferiti?

Basta scorrere velocemente i commenti sotto le foto degli influencer per poter leggere, al fianco di complimenti e apprezzamenti, anche un numero considerevole di commenti denigratori e, talvolta, volgari.

Certamente chi lavora sui social network, per avere successo, spesso è costretto a mettere la sua vita in vetrina e, così, si espone non solo ad assensi ma anche a critiche.

Questa è una conseguenza inevitabile e ineludibile della notorietà: quante volte, al bar o al ristorante, si commentano a tempo perso le parole o le scelte di star del cinema o di politici in vista? Ora che internet ha dato la possibilità a tutti di esprimere il proprio parere direttamente sulle pagine e i profili dei diretti interessati, facendo sentire la propria voce, è ovvio che la gente approfitti di questo nuovo strumento.

E poi ci sono gli influencer: queste piccole e nuove celebrità nate dai social network ma per i quali, spesso, quella stessa interazione sociale che li ha innalzati a divi rischia di tramutarsi in un incubo. E, così, la ragazza che pubblica una foto in costume da bagno verrà insultata perché troppo magra, troppo in carne o perché, più semplicemente, si vuole mettere in mostra.

Ma davvero ogni commento è lecita estrinsecazione del diritto di esprimere e diffondere le proprie opinioni o vi è, invece, un confine indissolubile tra la critica costruttiva, utile e lecita, e il mero insulto, che farebbe meglio a restare intrappolato nella mente che l’ha concepito senza trovare alcuna via di espressione, scritta o verbale che sia?

Esponendo pubblicamente la propria immagine su internet si accetta forse, implicitamente, ogni genere di commento, privo di filtri o misura?

E quando la notorietà non è stata in alcun modo ricercata, ma si è diventati celebri (magari proprio malgrado) per puro scherzo del destino?

Anche in questo caso essere soggetti all’hating online può essere considerato un’inevitabile componente del gioco della fama?

Emblematico, in tal senso, è il caso di Silvia Costanza Romano: una volta liberata dalla prigionia, quando tutta Italia non avrebbe dovuto, a rigor di logica, far altro che rallegrarsi per il suo ritorno a casa sana e salva, è stata invece oggetto di critiche non solo assurde, ma crudeli e disumane.

E così, una ventenne che è stata rapita in un Paese straniero e ha trascorso oltre un anno della sua giovane vita nell’incertezza e nella paura, divenuta celebre, suo malgrado, per la triste vicenda di cui è stata vittima, una volta libera si ritrova a leggere sui social commenti che sorprende possano essere stati addirittura immaginati, figuriamoci esternati, tali sono il disprezzo per se stessi e l’autocommiserazione che dovrebbero provare i loro autori per il solo fatto di averli concepiti.

Un commento negativo o un insulto, isolatamente considerati, sono poca cosa: non ammazzano, non feriscono, possono agevolmente essere ignorati, così come non basta una singola goccia a scavare la pietra. Ma centinaia, migliaia di insulti, improperi e minacce che si susseguono nel tempo, uno dopo l’altro, sono un autentico stillicidio: colpiscono, mortificano e, talvolta, uccidono.

E’ da questo punto di vista che internet deve essere fermato o, per lo meno, regolamentato.

Con un’identità digitale che permetta di dare un volto ai c.d. leoni da tastiera, con innovazioni legislative che tengano il passo di quelle tecnologiche, questo fenomeno potrebbe essere, se non eliminato, perlomeno arginato.

In un mondo in cui internet ha creato una realtà alternativa a quella reale, altrettanto crudele e brutale, è impensabile far sì che nel web continui a imperversare una quasi anarchia.

Molto si è già fatto, ma dovrebbe farsi di più.

 

 

 

 

 

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