La vera storia della Disfida di Barletta

Frammento film "Il Soldato di ventura"

 

di Domenico Dalba

(Tratto da Odysseo)

 

Barletta. Verso le ore 22 del 9 settembre, sfila su corso Vittorio Emanuele, sotto gli occhi ieratici di Eraclio, il corteo trionfale che, assieme a varie altre iniziative messe in campo per il 7, l’8 ed il 9, mira a celebrare la Disfida. Uno scontro armato tra mercenari al soldo della Francia e della Spagna che nel lontano 1503 imperversano sul territorio per la sua conquista e colonizzazione.

Un episodio storico di una banalità unica, coda di offese ed insulti, come le tante scazzottate che i ragazzi si scambiano frequentemente, uscendo dalla scuola, per mettere alla prova i propri muscoli e far valere prepotenza ed arroganza. Una baruffa tra gente avvinazzata fino al midollo che si ricorderebbe, guarda un po’!, della dignità personale e dell’appartenenza ad una nazione. Che non è nei sogni di nessuno dell’epoca! Che cari!

Ad enfatizzare positivamente il remoto evento, per giustificare l’esistenza in tempi remoti di un sentimento patriottico che non esiste né in cielo né in terra, è Massimo d’Azeglio, genero dello scrittore Alessandro Manzoni. Anche lui si cimenta nella scrittura, realizzando un romanzo storico, ma chilometrico è il divario che lo distanzia dalle risorse morali, spirituali e letterarie dell’amato suocero. Chi ne legge l’opera, “Ettore Fieramosca” o “La Disfida di Barletta”, che coraggio! , prova profonde sensazioni di nausea e disgusto. Seguite da conati di vomito.

Il tipo, uomo di alto lignaggio per il sangue blu che scorre nelle sue vene di marchese, divenuto Primo Ministro d’Italia, nutre una tale repulsione, uno schifo viscerale verso la gente del Sud, quindi anche verso i suoi antenati, signor Sindaco, che lo porta a scrivere testualmente in una lettera, inviata il 17 ottobre a Diomede Pantaloni: “La fusione con i napoletani mi fa paura, è come mettersi a letto con un vaioloso.” E non molto tempo fa, Matteo Salvini, suo degno erede e discendente, a Pontida, in una festa del suo partito la Lega Nord così canta in coro con i suoi degni sodali: “Senti che puzza scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati.”

E pensare che a pagare prezzi altissimi nella formazione dell’Italia unita, è proprio il Mezzogiorno, che è di gran lunga più avanti, rispetto al Nord, per la finanza, l’economia, l’industrializzazione e la cultura, nonostante la presenza di un vasto settore retrivo della Chiesa e dei baroni locali. Chi legge, almeno, il saggio “I Terroni” di Pino D’Aprile, sa come sono veramente andate le cose. Molto diversamente da come la retorica dei colonizzatori le raccontano nei libri di testo in circolazione nelle scuola italiane. Ma, purtroppo, la storia la scrivono sempre i vincitori!

Ma noi, gente del Sud, smemorati, siamo avvezzi a sorvolare anche su valori fondamentali e principi. Dimentichiamo tutte le contumelie, offese e malefatte ricevute ed issiamo sugli altari i nostri carnefici. Infatti, intitoliamo una scuola elementare al D’Azeglio, che non presta attenzione ai bambini in età scolare. Persino gli viene eretta una statua.

Al suo coetaneo generale Cialdini che fa bruciare due interi paesi della Campania, Pontelandolfo e Casalduni, e stuprare ragazze e madri, come ricompensa, gli è dedicata una strada, e nessun sindaco di Barletta ha la dignità ed il coraggio, come quello di Napoli, Luigi De Magistris di liberarsi dell’oltraggiosa ed infame figura. Ora, a Lamezia Terme l’ex via Cialdini è dedicata ad Angelina Romano, la bambina uccisa dall’esercito piemontese comandato dal “macellaio”.

Come non condividere, quindi, le amare riflessioni di Alessandro Manzoni? Nel primo coro dell’Adelchi, infatti, rivolgendosi al volgo, amaramente conclude:

Tornate alle vostre superbe ruine,
All’opere imbelli dell’arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l’antico;
L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D’un volgo disperso che nome non ha.

Abbandonerei la mia attuale postazione, prospiciente l’ingresso laterale della Basilica del Santo Sepolcro, e me ne andrei via anzitempo, ma sono proprio irresistibili due bambine, belle come tutte le coetanee del mondo. Con smorfie, boccacce, linguacce e versi cercano di divertire un piccoletto, bella cuffia adorna di ciclamini e campanule, adagiato soavemente nel carrozzino, mentre la mamma, grandi occhi luminosi, dialoga con un’amica, fluenti, i biondi capelli. Il piccino sgrana gli occhi, sorride d’entusiasmo, mentre gambette e braccine, candide come la neve appena caduta, si agitano convulsamente.

Da lontano cominciano a sentirsi esplosioni. La folla, allegra e festante, ma ignara di storia, messi a riposare gli smartphone, si fende in due ali. Sopraggiunge caracollando un panciuto signore in camicia bianca, che, guardando a destra ed a manca, monitora la situazione dei luoghi. Qualcuno suggerisce al vicino che è il comandante della polizia urbana.

La location è impeccabile. Un tripudio di calde luci e colori smaglianti. Corso Vittorio Emanuele, svuotata delle autovetture, è bellissima. La sua pavimentazione profuma di pulito. Se si fosse provveduto anche a lucidarla avrebbe potuto competere in igiene, fragranza e splendore con molte abitazioni, dove i componenti danno il meglio di sé, per l’irresistibile attaccamento alla proprietà privata. Mentre il resto della città langue miseramente. A fine spettacolo, il lerciume riprenderà il sopravvento.

Apre il trionfale corteo, un’agguerrita formazione militare, che produce botti talmente assordanti che le mie orecchie, affette da ipoacusia, invocano il diaframma delle mani per lenire la fibrillazione dei timpani. Ti guardi intorno. Occhi sgranati, respiri trattenuti, sospiri bloccati, bocche sgomente ed… isteriche risate. Il bambinetto del carrozzino, congestionato viso, terrore nello sguardo, convulsioni nel corpo, strilla come un tenore, e la madre, precipitatasi nel raccoglierlo, lo stringe amorevolmente al seno. Anche la palla di Eraclio fa un balzo, mentre i suoi occhi ieratici perdono la consueta compostezza.

E’ poi un susseguirsi di gente armata, bardata di tutto punto. Archibugieri. Trombonieri. Assordante, il rullo dei tamburi, lancinante lo squillo delle trombe, elegante lo sventolio delle bandiere che, lanciate in aria ad ogni sosta, il più delle volte finiscono nelle mani degli artisti, ma talvolta si spiaccicano, dolenti, al suolo. I mangiafuoco eruttano lingue di fiamme (che bisogna fare per campare!),  e gli applausi scrosciano. Dame, paggetti, cavalieri incedono elegantemente, fasciati in vestiti, presumibilmente, d’epoca. Alcuni figuranti danno il meglio di sé, stando nel loro ruolo con grande professionalità, altri, invece, compiaciuti di se stessi, esibiscono la loro smaccata provincialità espressiva, ridendo e salutando con gesti amici e parenti.

Mancano gli stuoli di prostitute che sempre seguono le compagnie di ventura e gli eserciti. E’ assente anche il popolo minuto dell’epoca, coperto di stracci e segnato dai bluastri lividi, subiti per essersi opposto agli invasori nella difesa delle loro umili dimore e nella salvaguardia della integrità fisica e morale delle loro figlie, sorelle, nipoti e mogli.

Scalpitano, cavalli e cavalieri, bardati di tutto punto. Seguono a piedi, gli scudieri. Il pubblico, disabituato a vedere bestie, una volta di casa nel tirare carri per la campagna o per trasportare sacchi di farina, conci di tufi e balle di fieno, si appassiona, ma teme anche di venire travolto. Non gli sembra, poi, vero che a montare le cavalcature siano attori famosi, costati per la loro presenza una montagna di soldi ad un Comune, casse vuote per iniziative utili, ed il servile entusiasmo fa spellare le mani.

Ogni tanto i tuoi occhi si incrociano con quelli di Eraclio, il cui disappunto è alle stelle. Eppure, lui, schivo, che da secoli piantona con le sue bronzee gambette la parte centrale del bellissimo corso, terra di gioco del pittore Giuseppe De Nittis, di nefandezze ne ha viste a iosa.

Qualcuno che ti è vicino esclama, con compiacimento: “Che bello!” “Spettacolare!” Senza comprendere l’assenza di senso. Gli smartphone, pròtesi umane indispensabili al giorno d’oggi, entrano in scena e febbrilmente fotografano a tutto spiano. Pochi si chiedono a che serve, a chi è utile, la messinscena, il vuoto di verità, ovvero, meno pudicamente, la carnevalata.

Se, poi, lo spirito critico facesse la sua comparsa, tutti si renderebbero conto che la loro dignità è messa sistematicamente sotto i piedi. Ma è difficile che la coscienza morale faccia la sua apparizione e si attivi, perché, come dice Leopardi, “il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci. Le classi superiori d’Italia, poi, sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni.”

Quando i fantasmagorici fuochi di artificio finiscono di illuminare il cielo, in piazza Castello, l’oscurità ritorna e prevalere. Balugina lontano, una miriade di remote fiammelle, i sogni e le verità dei tanti bambini della favola di Andersen, divenuti cittadini a tutto tondo, che hanno il coraggio di dire a gran voce: “Il re è nudo”.

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