Giornata europea della giustizia civile a Bari: diritto civile, linguaggio, discriminazioni

 

Lunedì 20 novembre 2023 a partire dalle ore 9.30 presso l’Aula Magna del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bari, si celebrerà la Giornata Europea della Giustizia Civile 2023, con una conferenza sul tema “Diritto civile, linguaggio, discriminazioni”.

La Giornata europea della giustizia civile si celebra di ogni anno con lo scopo di promuovere il lavoro del Consiglio d’Europa e della Commissione europea nel campo della giustizia, con lo scopo di porre la giustizia civile alla portata dei cittadini, offrendo loro l’occasione di informarsi sui propri diritti attraverso eventi, conferenze, simulazioni di procedure, sessioni informative aperte agli studenti, ai professionisti del diritto e al grande pubblico.

L’evento barese più che agli addetti ai lavori, è dedicato a studenti e studentesse delle scuole della regione, allo  scopo di avvicinarli ai temi della giustizia, dei diritti e della lotta a ogni forma di discriminazione, in primis quella derivante dal linguaggio violento, ingiurioso e minatorio, troppo spesso alla base di tanti conflitti nella nostra società.

Per la sua organizzazione hanno collaborato l’Ordine degli Avvocati di Bari, la Scuola superiore della magistratura territoriale di Bari, l’Università degli Studi di Bari dipartimento di Giurisprudenza, l’ufficio scolastico regionale della Puglia, l’Associazione G.I.R.A.F.F.A. Onlus.

Dopo i saluti del Presidente del Tribunale di Bari, dr. Alfonso Orazio Maria Pappalardo e del vicepresidente dell’Ordine degli Avvocati di Bari, avv. Alessandro Russi, sono previste le relazioni della dr.ssa Paola Cesaroni, giudice del Tribunale di Bari, della prof.ssa Claudia Morgana Cascione, docente UNIBA, del giornalista e scrittore avv. Enzo Varricchio, della dr.ssa Rubina D’Errico, psicologa della Associazione GIRAFFA Onlus, e della dr.ssa Valentina D’Aprile, giudice del Tribunale di Bari. 

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di Enzo Varricchio

(estratto della relazione alla Conferenza: Diritto civile, linguaggio, discriminazioni.)

 

Il diritto è lingua che tutela dalle diseguaglianze, il linguaggio crea le distinzioni e le etichettature, producendo inclusione o discriminazione, condivisione o conflitto.

V’è così una profonda e articolata connessione tra le questioni giuridiche, il linguaggio e le discriminazioni.

Il diritto civile è il primo avamposto dei diritti sociali: non tutelare il singolo cittadino nelle sue attività quotidiane in rapporto agli altri equivale a porre le premesse per condotte antisociali e criminose. Ne cives ad arma ruant è da sempre il fine del diritto.

Come detto, il diritto in generale è la sua lingua, è fatto di parole che sono la lingua del diritto nelle leggi, nelle sentenze, nelle dottrine che lo interpretano. Il diritto ha persino ufficializzato la lingua italiana con il Placito notarile  capuano del 960, primo documento in volgare della storia.

Il processo è narrazione, è discorso, è dialogo per sua natura, uso del linguaggio giuridico. Nella sua tradizione umanistica romana, nella sua ricchezza e varietà, nella sua permanente dubbiosità e falsificabilità popperiana, trova spazio la possibilità di fare giustizia, di combattere le discriminazioni.

Il processo civile oggi sta vivendo un processo di progressiva informatizzazione con le udienze virtuali e gli atti telematici, ristretti nei parametri linguistici del decreto Nordio 110/2023 per aumentarne la chiarezza e la sinteticità. L’erosione dell’oralità e della dialogicità in presenza, sia pure in nome dell’accelerazione dei tempi del processo, costituisce una rinuncia alla sua umanità che deve essere consapevolizzata e condivisa, piuttosto che imposta dall’alto.

Per altro verso, la comunicazione (che non è solo quella scritta e verbale ma anche iconografica, mimica, sonora, cinesica, corporea) e i suoi linguaggi sono il principale mezzo per la diffusione delle idee discriminanti e divisive (discriminatio: distinzione, divisione) , che portano inevitabilmente a conflitti di portata più o meno grave e dannosa anche per la collettività. Le parole sono sassi e ne uccide più la parola che la spada, come ben sappiamo.

Paul Watzlawick, in “Pragmatics of Human Communication. A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes”, vedeva le psicopatologie della vita quotidiana causate da vizi/difetti di comunicazione tra individui.

Nelle politiche di istruzione pubblica e culturali è dunque urgente porre grande attenzione allo studio del linguaggio.

La comunicazione e il linguaggio sono qualcosa di complesso che abbisogna di un discorso scientifico. Basta un punto e/o un diverso contesto per cambiare completamente il senso della proposizione: “sei dislessico, detto dallo psichiatra non è la stessa cosa di “sei dislessico”  detto dalla professoressa davanti alla classe. Chiedere ”sei dislessico?” a qualcuno può essere un insulto.

Un linguaggio offensivo, violento, discriminatorio trova spesso origine nella paura dell’altro, del diverso, dell’antagonista, che può diventare un nemico da annientare con guerre piccole e grandi, con illeciti condominiali come con abusi domestici.

Il linguaggio consapevole, giusto, corretto, inclusivo, rispettoso va pensato, studiato, acquisito, controllato e tenuto a bada, non usato come arma di prevaricazione o come esposizione del proprio pregiudizio.

Invece, nessuno ce lo insegna, né a scuola né altrove. Nemmeno nei dipartimenti di giurisprudenza, salvo eccezioni, si insegna l’uso del linguaggio giuridico non violento/non discriminatorio.

Invero, anche la comunicazione giuridica, scritta e verbale, dentro e fuori dal processo, deve sempre partire dalle domande: 1) chi è il mio interlocutore e qual è la finalità del mio messaggio? 2) il mio messaggio è ambiguo, aggressivo, minatorio, violento, non rispettoso della dignità del mio interlocutore? 3) come interpreterei io lo stesso messaggio se fosse rivolto a me?  4) il mio messaggio sarà utile a prevenire o evitare conflitti o erronee interpretazioni da parte del ricevente? 5) Come posso facilitare la comprensione del mio messaggio?

La cultura crea il linguaggio e il linguaggio crea la cultura. Ormai abbiamo imparato che la relazione è biunivoca. Una cultura solida, equa e giusta, una cultura non violenta, genera una comunicazione  chiara, attenta agli altri, inclusiva, non violenta, solidale, rispettosa della pari dignità sociale e dell’importanza di ciascuno di noi. Un linguaggio di tal fatta contribuisce sostanziosamente all’affermazione di una cultura pacifista che i conflitti li previene, li media, li risolve senza ricorrere all’uso della forza ma attraverso gli strumenti del diritto.

Esiste oggi, invece, una diseducazione generale all’uso corretto delle parole e degli altri mezzi comunicativi, soprattutto alla ponderazione di essi rispetto agli effetti che possono provocare sugli altri e su noi stessi mentre li utilizziamo. I media e i social sono pieni di linguaggi discriminatori e messaggi falsi o sbagliati, insulti e minacce, aggressioni morali, zeppi di accuse prive di prove e di condanne di fatti e su persone che non si conoscono se non attraverso l’interpretazione speculativa e  auditelica di chi diffonde il messaggio, la notizia, il video, etc.

Prendiamo poi atto di una serie di cose.

Il mondo è cambiato e stiamo cercando un linguaggio idoneo a descriverlo e un codice per interpretarlo. Navighiamo a vista tra ansie restrittiviste, che invocano una minor liberà d’azione e maggior controllo dei social, e posizioni liberaliste, che si appellano all’art. 21 della Costituzione.

Saggiamente, di recente il presidente della Corte di appello di Bari, Franco cassano, ha perorato un bilanciamento tra diritto di rinformare ed essere informati e diritto alla riservatezza.

Google, You tube e i social networks hanno disintermediato l’informazione e deprofessionalizzato il linguaggio della comunicazione, sostituendo i vecchi giornali, tv e giornalisti con un esercito di blogger, soubrette e provocatori, privi di alcuna deontologia professionale ma con alle spalle eserciti di avvocati pagati per difenderli nei processi per diffamazione et similia.

La cultura di massa ama le storie ambigue, scabrose, violente. E i media gliele propinano in continuazione, alimentando a loro volta una cultura dell’odio, del sospetto, della paura.

La comunicazione tra generazioni è ai nostri tempi più difficile, complicata dai cellulari, dalla fretta esistenziale che consuma i tempi dell’amore e del rispetto in famiglia. Le tentazioni e le provocazioni sono ovunque e spesso non si possiede un codice per comprendere correttamente i messaggi che provengono dal mondo esterno. Il meccanismo è perverso e gli effetti perniciosi.

I giovani così apprendono solo la lingua dei social e quella della strada, inevitabilmente basata su rapporti di forza fisica, economica e culturale, nutrita dalla scabrosità degli eventi, dalla pruriginosità delle investigazioni sui casi più brutali della cronaca. Impazzano i rapper che esaltano e compiono gesta criminali.  Si moltiplicano le trasmissioni e i blog su misteri e crimini di ogni fatta. Il più delle volte è ciarpame comunicativo ma dobbiamo contrapporgli una politica culturale seria.

Quindi, ben venga una legge che affronti sin dalla scuola il problema del linguaggio chiaro, corretto e rispettoso, della comunicazione inclusiva e non violenta.

Ben vengano le occasioni di riflessione sui metodi comunicativi e sui contenuti da comunicare, i momenti di formazione alle relazioni comunicative corrette in famiglia, in classe, in tribunale, allo stadio,  e così via.

Purché partano da basi scientifiche di scienza della comunicazione e di psicosociologia, oltre che di informatica e neuroscienze, che si inquadrino entro il perimetro di una deontologia professionale opportunamente statuita.

 

Articoli di Enzo Varricchio:

https://www.scriptamoment.it/author/enzo-varricchio/

https://www.oralegalenews.it/tag/enzo-varricchio/

 

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