Biodiversità: le lame pugliesi, un libro sul polmone verde di Bari
Domenica 22 maggio 2022 ore 11.40 a Bari nella Villa Framarino, in occasione della Giornata Internazionale della Biodiversità, sarà presentato il libro di Pietro Giulio Pantaleo, dal Titolo “LAMA BALICE“, con la prefazione del prof. Enzo Varricchio della quale samo lieti di anticipare il testo.
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Le “lame” del carsismo pugliese sono aviti letti di antichi fiumi o torrenti, punteggiati di spelonche scavate nelle calcareniti abitate sin dal neolitico da popolazioni rupestri. Il territorio di Bari è solcato da ben nove lame e la maggiore, chiamata Balice dal nome del torrente omonimo, in passato noto come Tiflis, è la più ricca dal punto di vista archeologico, storico e naturalistico. Oggi rappresenta il più grande polmone verde del capoluogo pugliese e uno straordinario contenitore di biodiversità
Era l’anno zero del terzo millennio quando usciva “L’antica masseria Caggiano nel Parco naturale di Lama Balice” (Regione Puglia, 2000), la Puglia non era quella che è oggi e il mondo intero ancor meno. Sfortunatamente, quel mio saggio è rimasto uno dei pochi volumi sul notevole patrimonio naturalistico, storico, archeologico, antropologico, e specificamente mnestico, dei luoghi poetici e solitari dell’antica Lama Balice, quel mondo fantastico ove si è perso da sempre il fanciullo Pietro Giulio Pantaleo, autore del memoir dedicato a questo polmone verde del capoluogo pugliese. Purtroppo, inefficaci sono stati i tentativi di vera valorizzazione di quel patrimonio.
“Memoriale”, così attribuendolo a un genere letterario ben preciso che ha avuto tra i suoi maestri Primo Levi e Ignazio Silone, Pantaleo stesso definisce “LAMA BALICE”, titolo che per lui suona come un personale atto di amore ma che contribuirà, ne sono certo, a salvare quel poco che resta del ricordo di usanze, costumi, tradizioni, personaggi del tempo passato che non dovrebbero essere dimenticati perché non poco peso ancor oggi assumono in quella che si definisce comunemente “identità” o se preferiamo, genius loci, che è poi quel che crea cultura e anche economia, sol se si pensi che le mete turistiche più gettonate di oggi sono quelle più dotate di questo raro ingrediente.
Qualche anno prima del 2000 avevo conosciuto lo stesso Pantaleo che fu poi mia guida nelle oscure spelonche e nelle chiese rupestri come la perduta Sant’Angelo, tra i canneti di vegetazione fittissima e le ferite caveose degli antri, risalendo le cicatrici arse e rugose del torrente Tiflis armati di taccuino, macchina fotografica (gli smartphone non esistevano) e falcetto, alla scoperta di antiche masserie, cappelle rurali, edicole votive, casupoli agresti e frantoi secolari che muti avevano osservato nei secoli il ronzare di laboriose comunità di contadini, servi e patrizi. Da allora, io e “Piero” diventammo e siamo sempre rimasti amici.
Qualche volta portai con me alla Balice anche mio padre, il compianto ingegner Arturo. Fu lui a suggerirmi di non limitare la mia indagine agli aspetti storici degli insediamenti rurali in questione ma di effettuare una ricognizione analitica dei principali manufatti e testimonianze materiali di civiltà, predisponendo anche una mappa di quella zona. Già allora intuivamo bene che il tempo, le intemperie e soprattutto l’incuria degli uomini avrebbero presto decretato la sparizione di parecchie di quelle testimonianze, come già era accaduto ad esempio per la cripta rupestre di Sant’Angelo, da me rintracciata e citata da Pantaleo in questo libro.
Ebbene, a distanza di ventun anni, Pantaleo ha tirato fuori dai cassetti impolverati della sua memoria i ricordi dei suoi genitori e quelli dei loro genitori, poi setaccia quelli dei suoi amici e conoscenti, non per svuotare la sua psiche da un pesante fardello quale forma di autoterapia, bensì per tramandarli ancora ai posteri e sperare che i posteri li tramandino ai loro posteri.
Il memoir non è un’autobiografia, non vuole ricostruire e documentare tutti i fatti dell’autore con le modalità di una ricerca storica. Ma “Lama Balice” non è nemmeno un memoriale come afferma Pantaleo. Non è questo il caso di Pantaleo, il suo non è un romanzo autobiografico, bensì un documento a sua volta, perché un fatto riferito e trascritto o fotografato è un documento, il contenitore di un contenuto che si vuole tramandare.
Questa non è memoria individuale ma memoria culturale, cultura del ricordo. Come insegnato da Jan Assmann la cultura del ricordo concerne il gruppo e non pone la domanda “Che cosa dobbiamo ricordare?” ma la domanda “Che cosa non dobbiamo dimenticare?”. La cultura del ricordo ha a che fare con la memoria che crea comunità, la cultura del ricordo è un fenomeno universale, un radicarsi nel passato, una speranza di persistenza nel tempo, un’aspettativa di futuro. E’ il ricordo che costruisce il passato, che senza ricordo non esisterebbe. Io aggiungo che anche il futuro non esisterebbe senza tale prospettiva di sopravvivenza.
“La cultura del ricordo fa parte della speranza. Il passato nasce solo nel momento in cui ci si riferisce ad esso. Niente appare più naturale del nascere del passato; esso nasce perché il tempo passa. Rispetto a questo processo, le società possono assumere comportamenti diversi. Esse possono vivere alla giornata, possono organizzare ogni progetto in vista dell’eternità oppure guardare al domani già nell’oggi. E’ nel ricordo che il passato viene ricostruito. Affinchè ci si possa riferire al passato, questo deve entrare nella coscienza. Ciò presuppone due cose: Esso non deve essere scomparso del tutto: devono esserci delle testimonianze; Queste testimonianze devono presentare una diversità caratteristica rispetto all’oggi” (Jan Assmann, La memoria culturale, Torino, 1997).
Il senso dell’opera di Pantaleo credo sia tutto nelle parole del noto egittologo. Portare testimonianza (anche Primo Levi affermava di scrivere per “testimoniare”) credo sia il vero scopo ed effetto del suo lavoro accompagnato da un pregevole apparato iconografico che si arricchisce di amabili dettagli e curiosità di botanica alimentare, alimurgia, nel solco di una oggi fiorente letteratura neobucolica, chiara conseguenza dell’ormai insostenibile “logorio della vita moderna” nelle città. Si susseguono cenni di toponimia e toponomastica, di medicina dei semplici, spunti dal folk-lore locale, tradizioni agricole e gustose ricette. Soprattutto gli incontri con persone cariche di umanità arricchiscono questo prezioso regalo alle comunità che abitano la periferia della città di Bari in cui vivo e che amo come una dolcissima seconda madre.
Grazie a Pietro Giulio Pantaleo, per gli amici “Piero”, peraltro non solo “memorialista” ma anche valente pittore e performer. So che entrambi dedichiamo questi scritti alla memoria dei nostri indimenticabili padri che ci hanno insegnato la cultura del ricordo. Gli antichi Egizi sostenevano che un uomo muore due volte. La prima quando muore il suo corpo, la seconda quando nessuno più pronunzia più il suo nome.
Pantaleo ha pronunziato molti nomi in questo suo libro, ha fatto rivivere molte persone. Compresi Don Mimì Pantaleo e l’ingegner Arturo Varricchio. Di questo sono a Piero particolarmente grato.
Enzo Varricchio