L’artista non è un’isola. L’antropologia poetica di Moreni

 

di Dunia El Farouk

L’artista nella società: un pellegrino che percorre le ere su mezzi aerei leggeri attraverso una dimensione storica tanto greve quanto inquieta. Rende materia le sue visioni, le riproduce quasi palpabili in grossi grumi di colore scuro che si rendono previsione distribuita su superficie, come terra su tela, tela così sospinta oltre la bidimensionalità. Opere silenziose sobillatrici, perché esternazione di una rivoluzione interna in grado di prevedere le derive definitive di un sociale mutilato dalla cesoia tanto spietata quanto raffinata della tecnica.

Si percepisce la visione di un eremita che dalla realtà non si è mai staccato definitivamente perché pertinacemente l’ha abitata e, prevedendola, a suo modo, l’ha persino governata: anticipandola a chiari segni, narrandone la prepotenza tecnologica, prevedendone gli esiti lontani dall’umano.

Mattia Moreni, Il cubo alienato non cuba più – Regressito consapevole, 1986, olio su tela, 100×100 cm

 

La tecnologia, il paesaggio e la carne in una destrezza grafica che riduce le forme senza perderle. L’eros nella fase intermedia del suo percorso artistico, quella più centrale, quella più simbolica ed eterna, come aspirazione di rinascita, come auspicio di ricreare attraverso il sensuale un’opulenza perduta, stilizzata dalla aridità della tecnica, dispersa nell’avanzamento delle tecnologie.

Così Mattia Moreni (Pavia 1920 -Brisighella 1999) si racconta e viene raccontato a Firenze presso la Galleria Il Ponte a Firenze, nella mostra che si è conclusa il 10 gennaio 2020, per riportare ai nostri occhi una forma pittorica di mediazione Junghiana tra conscio e inconscio, tra caos indistinto e visione lucida, uno sforzo di rappresentazione di archetipici elementi strappati al flusso onirico così efficacemente in grado di rendere lo spettatore convinto di trovarsi dinanzi ad una realtà più vera del Vero. Sorprende l’operazione accurata con cui sogno e reale si mescolano, analisi della storia perduta e mondi a venire si amalgamano perfettamente, per superare l’innaturale scissione tra sociale e artistico, tra narrazione del visibile e intuizione di immagini inintelligibili.

https://www.galleriailponte.com/it/mattia-moreni-it/

Un’arte iniettata di verità che pulsa quale traiettoria pittorica di divinizzazione perché raffigurazione di un presente-futuro più simile a presagio. Come un testo sciamanico, la produzione artistica di Moreni dissemina il suo racconto di chiavi rituali e formule di creazione della realtà al fine di trasvalutare il significato più immediato del visibile e offrire spiragli di accesso ad un significato più profondo dell’esperienza. Come in bilico tra l’inevitabile esito di un sempre più incalzante progresso e una visione che travalica il tangibile, Moreni si fa portavoce poetico del profondo senso delle cose che solo un poeta o il più scientifico degli antropologi riuscirebbe a cogliere.

La matrice creativa da cui prendono forma le sue rappresentazioni è tanto istintiva, lo confermano le forme archetipiche del demone della creazione cui è impossibile sottrarsi, quanto riflessiva: il rimpianto per gli antichi luoghi, l’indagine sull’evoluzione storica, tecnica e geomorfologica dei contesti in cui il suo cosmo poetico si snodano ne sono perfetta estrinsecazione.

Mattia Moreni, L’agonia dell’anguria allunata su pelliccia, 1970, olio su tela, 130×130 cm

Di nuovo, le ambivalenze dell’animo di Moreni, così come riprodotte nelle sue raffigurazioni di mondi interiori di mondi reali e di mondi futuri, riportano ad una sensibilità che tanto si avvicina alla visione Junghiana, per cui l’istanza creativa debba partire da un risveglio del lato oscuro, quindi inconscio o subcosciente dell’animo, o meglio, per essere più corretti, dalla « iniziazione al regno dell’oscurità». Per entrambi, per il maestro della scienza della mente e per quello dell’arte che qui trattiamo, sembrerebbe decretato l’ineluttabile destino di chi è autore di una prospettiva di evoluzione umana divergente da quella comunemente accettata e che si dipana dall’inevitabile tensione verso il polo negativo degli opposti psichici, artistici e di indagine sociale.

Il filo conduttore dell’opera artistica di Moreni fa da appendice ad un’epoca e da capitolo introduttivo di un’altra, quale rivelazione ad occhio nudo di una sperimentazione subcosciente che si riporta a linee grafiche tanto essenziali quanto intraprendenti nelle suggestioni: annunciare al consorzio civile, che gode di apparenti e illusori fasti, il crollo della torre di Babele sta nel coraggio profetico dell’oracolare intuizione dell’artista pensatore che destruttura per riformulare poeticamente e sottoporre a critica l’incedere sociale.

E se fosse davvero imprescindibile un legame tra coscienza sociale e consapevolezza artistica? E se davvero si dovessero prendere le mosse dal luogo comune che vuole a tutti i costi l’artista un individuo staccato dalla realtà e annodato con nastri di seta alle caviglie in un castello fantastico così inidoneo al paesaggio del mondo?

 

PIC: Mattia Moreni, Paesaggio di estrema decadenza, 1973

 

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