di Dunia El Farouk

 

L’artista e il mercato.

Un frastornante andirivieni di idee o presunte tali portano a far confluire nel caotico traboccante ramaio dell’arte straordinarie opere di innovitavo ingegno e straordinario ciarpame rivestito di lustrini o provocazioni delle più sublimemente risibili.

Penso, allora, con la nostalgia incisa nel mio dna, al dadaismo, a Tristan Tzara, alla sua poesia affilata, alla geniale alleanza con Breton. Presto avvizzita in un addio prematuro. Penso anche a Nadja di quest’ultimo. Al suo personale elogio alla Follia trascritto nel volto di una passante che diviene suo amore (parzialmente) platonico e figura chiave di un manifesto che è movimento artistico letterario antropologico e di pensiero. Penso. All’abbandono di un vecchio stantio paradigma che nacque da un amore (malauguratamente) non corrisposto per il padre della psicanalisi e per le sue intuizioni anticipatrici ogni tempo e ogni spazio.

Dunque, oggi, che il mondo degli intelletti e quello delle arti spesso si divaricano in un due ampiezze inconciliabili, mi si chiede di pronunciarmi sull’artista, sulle sue pene odierne, sulle sue afflizioni rispetto alle inevitabili aridità (non solo spirituali, certamente pur monetarie) del contemporaneo che è in corso. Se mancano le idee manca l’innovazione, se manca l’innovazione manca il riscontro del mondo.

Se il mondo è una torre di Babele in decadenza, occorre che l’artista si butti, abbracci una personale interiore renovatio, in barba ai Cattelan & co. di cui parla l’insegnante delle medie ai suoi alunni, il panettiere alle massaie e Don Mauro alle riunioni parrocchiali.

La logica del mercato a volte vince, certo, ma non é sacrosanta. Soprattutto in taluni casi.

È chiaro che uno scambio fecondo tra gli intellettuali e gli artisti e gli artisti intellettuali potrebbe fortunosamente portare, come avvenne in passato, alla produzione di finalmente nuove costellazioni di pensiero, di creazione, per sovvertire, infine, un’ordine di tendenza che vede l’artista piegato alle posizioni del commercio. Avverrebbe una vera e propria battaglia per la libertà del metodo, scevra da opportunismi sacrificati al far parlare di sé. A tutti i costi. Al prezzo più caro, quello delle idee che muoiono nel focolare delle quotazioni più alte. Pur di vendere.

Occorrerebbe riappropriarsi del flusso che è corrente, che è contro i ritmi del tempo che corre. Occorrerebbe partire dalle retrovie del pensiero per illuminarlo. Occorrerebbe una doccia fredda. E, a proposito di acqua, penso anche ad Emote, allo scienziato giapponese che, con un suo ormai celebre esperimento, dimostra che i cristalli dell’acqua modificano la propria struttura in relazione ai messaggi che ricevono da parte dell’osservatore-creatore. L’acqua sottoposta alle vibrazioni di parole e pensieri creativi forma dei cristalli esteticamente armoniosi simili a quelli della neve, l’acqua sottoposta alle vibrazioni di parole e pensieri caotici o negativi reagisce creando strutture amorfe e prive di armonia.

Così avviene nella creazione di un’opera. A partire dal pensiero che è esperienza personale del mondo si crea l’oggetto artistico, il quale non è fantasticheria inconsistente né reazione alla domanda dell’acquirente più danaroso.

Poiché, gadamerianamente, il Pantheon dell’arte non discende da una volontà astratta e atemporale rivelata alla coscienza estetica, ma nemmeno deriva dai moti calcolati di un mercato celebrativo delle antinomie illetterate vendibili ai più, bensì è l’esercizio di uno spirito che si sforza nell’autocomprensione e, a partire da essa, ne delinea forme tanto equilibrate quanto autentico è il suo sforzo verso un’intuizione soltanto interiore.

Chiaramente,è da considerare che chi ne sta parlando ora è sfegatata fan di Feyrabend, del suo inno ad un’epistemologia anarchica. Dadaista. Che è presa di coscienza circa il fatto che l’elemento storico, in questo caso gli indici di mercato, non può essere nemmeno considerato come elemento alfabetico di un codice scientifico, tanto meno artistico, letterario, ma soltanto possa essere assunto ad elemento orientativo (disorientativo?). Poiché “non esiste nemmeno una “regola” che non sia stata storicamente violata”.
Difendere l’epistemologia anarchica nell’arte, me ne rendo conto, è mettersi dalla parte dell’outsider, ma dell’outsider cosciente, che, consapevole delle logiche corrotte di un mercato ipocritamente neopositivista perché indotto dalla domanda che sollecita l’offerta, non viceversa, se ne fa un baffo ed applica il suo genio e la sua tecnica senza congetture obbligate. E ci riesce. Persino a vincerlo, questo mercato conformista e disattento. Andatevi a ri-vedere l’arte e la tecnica paladina della libera inventività di Giacomo Vanetti e capirete subito a cosa mi riferisco.

L’inosservanza delle regole del mercato parte da un principio polemico che è il più creativo di tutti, a dispetto del suono delle parole che lo decantano: “c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio secondo cui qualsiasi cosa può andare bene” (Contro il metodo di Feyerabend).

 

PH: Giacomo Vanetti

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