L’Aquila

di Lena Benedetta De Falco
L’Aquila, proverò a ricomporre con parole il silenzio logorante delle tue macerie, solchi di dolore incisi nelle strade, ferite che irrompono in squarci di memoria e di bellezza, negli affacci delle tue vie che spalancano il mio sguardo tra spigolose e prorompenti montagne, imponenti e mute complici, le uniche fortezze che hanno murato ed abbracciato il tuo dolore.
Perdona indifferenza e cecità che hanno reso tragica una storia che appartiene a tutti noi.
I numeri tondi sono sempre piaciuti, gli anniversari, le ricorrenze, le celebrazioni, le commemorazioni. Forse un po’ meno nel mentre, di cosa è accaduto nel tempo tra un anniversario e un altro. Ad oggi l’Aquila è quel tempo trascorso, sconosciuto ed ignoto. Cammino in labile equilibrio tra strade e macerie, nel rumore dei trapani, dei camion, tonfi di pietre ammassate a 10 anni dall’accaduto. Questa ritmicità fa compagnia e diventa un paesaggio sonoro piacevole in una città vissuta solo dagli operai. Molti stranieri, pochi italiani, vivono quella parte di città cantiere: raccolgono macerie, le smaltiscono, smontano case con le grù che sostituiscono grattacieli con sfondo il Gran Sasso. Sono loro i veri abitanti, non residenti, ma abitanti. Ogni mattino alle 6 dal lunedì al venerdì prendono un bus da Teramo e da Pescara e li porta qui e fino alle 5 scompongono la città in un gioco di Tetris. Ogni giorno i divieti di accessibilità cambiano. I percorsi per raggiungere un punto o l’altro della città si spostano, come le scale ad Hogwards di Harry Potter. Ma possono cambiare nell’arco di ore o di giorni. Le case, le facciate delle chiese, le piazze, nulla è fermo, eppure nulla si muove. Non esistono punti di riferimento da 10 anni. La frammentazione urbanistica si rispecchia in quella comunitaria ancora disseminata tra zone limitrofe, progetti casa, e i Map (moduli abitativi temporanei).
Cenni di vita cittadina si percepiscono nelle vasche tra bambini anziani e coppie che passeggiano nel decumano tra Corso Garibaldi e Vittorio Emanuele. Si guardano intorno, alzano gli occhi tra i palazzi ricostruiti, cercando punti di riferimento di una città che non c’è più e non c’è ancora.
Il primo locale riaperto nel dicembre 2009 si chiama il Boss in Via Castello. Tra vino e taglieri, si riuniscono gli aquilani, si incontrano. È il bar degli amici, il titolare non perde mai occasione di far sorridere i suoi clienti. C’è una familiarità difficile da rinnegare, ci si sente a casa. Un’aria di normalità. Parallelamente a Corso Garibaldi si sbuca davanti alla Chiesa di Santa Maria Paganica, dai tratti fantasmagorici, dove i bambini dell’oratorio giocavano a calcetto e ad oggi il suo frontone è coperto da teloni e da cantieri. Superata quella Chiesa che racconta la difficile coesistenza tra vecchio e nuovo nella memoria degli abitanti, si entra in via Pavesi, e il cielo si confonde con le impalcature di legno, i tramonti con le luci artificiali verdi dei lavori in corso. Qui tutto è nascosto, i colori, le forme. Qui iniziano i racconti di chi ha perso tutto, case non ancora ricostruite, vite non ancora curate, ferite non ancora risanate. Un tempo in Via Cascina, adiacente a Via Pavesi si giocava con lo slittino durante il periodo invernale. Allora chiudo gli occhi e percorro con lo slittino questa via stretta e chiusa fingendo la polvere neve, e sbuco davanti l’Università transennata, con le macerie ancora dentro. E li è difficile ricordare lo slittino. Una ragazza mi racconta che in quello spiazzale c’era un’antica libreria dove si andava a comprare i libri e i ragazzini dicevano “poi passa papà a pagare”; si conoscevano tutti tra di loro. Più avanti c’era un buonissimo ristorante dove si accorreva a mangiare la domenica e accanto una pastisserie francese dove era impossibile dopo scuola non fermarsi. Era una bella città, pullulava di vita universitaria, sicura.
Le case disabitate del centro storico sono state occasione di furti e deturpazione, dato lo stato di abbandono in seguito al terremoto, e nessuno si poteva avvicinare poiché considerata zona rossa.
Il terremoto ha coinciso con la crisi economica locale e la voglia di lasciare la città: si qui vi è una forte specializzazione edilizia, attività commerciali, sede del Centro Sperimentale di Cinematografia di Reportage, manifatturiera oltre che sede del Gran Sasso Istitut e l’Università, che garantiva un grande scarto di qualità rispetto a città come Chieti e Pescara. Il vuoto che si percepisce camminando nella città non grava semplicemente sulla memoria. L’Aquila si estende per 40 km in superficie, le zone periferiche sono diventati dei quartieri satellite che nell’assenza di una progettualità comunitaria e urbanistica chiara e salda ha spinto verso un emorragia demografica. Questo pesa nell’assenza di un centro e cosi Collettivo 99 parla di 3 città all’interno di una sola città: storica, intermedia, dislocata. Da qui non si intravede alcun intervento che tutelasse l’identità di una comunità. Quest’ultima ha perso senso di aggregazione, di appartenenza, chiudendosi nel proprio dolore. Bruscamente i cittadini sono passati da un’assistenza ipertrofica del servizio civile, una forma di infantilizzazione della popolazione, al totale abbandono dalle forze politiche.
Dalle rovine sono esplose delle energie vitali. Il fermento di protesta e di voglia di rincominciare si è perso però nell’assenza di una coordinazione locale amministrativa. La chiusura politica che ha creduto poter risolvere una tragedia con la ricostruzione edilizia e milioni di euro arrivati dall’Europa ha sclerotizzato qualsiasi tipo di possibilità di vera rigenerazione urbana, di partecipazione dal basso della comunità, la quale ha continuato a sentirsi estranea ed esclusa, fisicamente e moralmente, dalla propria città natia. Eppure “ la libertà è partecipazione”. E forse per questo che qualcuno ha affermato “oggi è 7 aprile 2009”. La fuga degli abitanti e l’impossibilità di chi c’era di contribuire a ridisegnare un immaginario hanno annientato quelle forze vitali diventate voci sommese e le finestre di chi è restato sono chiuse perché si respira ancora la polvere.
Non si tratta di ricostruzione fisica ma sociale, un’identità comunitaria senza la quale nessuna città sopravvive nel tempo. È una città che ricorda in 10 anni ancora e solamente un’unica esperienza, quella del terremoto. Da allora non ha mai più vissuto nient’altro. Questa negazione ha reso difficile rianimarla e ripensarla in una prospettiva di autentica utopia, capace di smontare e ribaltare le possibilità, forza motrice e trainante.
Dalla mancata interazione tra organismo comunitario ed ambiente cittadino aleggia una condizione di estraneità tra gli aquilani e la città. Loro non hanno potuto cambiare la condizione della propria città e la città non ha potuto cambiare i suoi abitanti. E così ne rimane un gioco di riflessi e di immagini: nessun piacere, nessun godimento, nessuna esperienza è riuscita a restituire un nuovo senso alla città. La nuova città è già vecchia o troppo nuova per quel che è stato ricostruito, Boudrillard parlerebbe di senescenza del nuovo, rinascere invecchiati. Ma le possibilità sono fertili e nascono negli interstizi tra il passato e il futuro possibile di una città con una grande storia e potenziale. Basterebbe restituire la città ai suoi abitanti, poterla rivivere e immaginarla di nuovo. Insieme. La condizione di impossibilità e di impotenza è chiara. Mi chiedo se è legittima.