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Numero 7, RISO PATATE E BOZZE (Gli inediti)

La Contrada Verde

By admin 1 Marzo 20198 Marzo 2019

 

 

 

di TALK

 

“Maledetti peli…”

Marcel Coquelicot si era svegliato da poco, tutto spettinato e irritato, in una umida mattina di maggio, con la rugiada appiccicata alle sue foglie pelose e al suo stelo barbuto.

Tutti i papaveri di Contrada Verde erano orgogliosi del loro vello, un marchio di fabbrica della loro virilità, della loro prestanza.

Soltanto loro e pochi altri duri – specie pioniere come i tassi barbaschi e le ginestre odorose – erano in grado di sfruttare anche la minima ferita nella pietra, la più piccola crepa nell’asfalto, per spuntare e colonizzare campi e città.

Lui no, Coquelicot teneva molto alla sua cura personale e stava aspettando con ansia e nervosismo l’arrivo di Peppino, il coleottero barbiere a domicilio, per farsi rasare con cura.

Oriundo dalla costa azzurra, un po’ di puzza sotto il naso per chissà quale millantato antico blasone, alla Contrada Verde ormai nessuno lo conosceva con il suo nome di battesimo: era per tutti CrêtedeCoq, Cresta di Gallo, per la sua ossessione a tener sempre in tiro i suoi magnifici quattro petali, quattro cuori di un rosso che nessuna farfalla aveva mai visto prima.

Era l’attrazione del suo podere, era ormai famoso più di Brad Pitt. Ci venivano da tutte le contrade vicine, per vederlo; cavolaie, bombi, cervi volanti… Anche le api più stakanoviste chiedevano un permesso sindacale per venire ad ammirarlo, e persino i grilli stonati e le cimici freddolose prendevano i mezzi pubblici, quasi sempre Camillo – un vecchio ronzino tollerante che faceva ogni giorno la spola dalla Fattoria del Cappero – per venire a vedere the “flower in red”.

Sì, CrêtedeCoq era ormai una celebrità. Non si parlava d’altro, era il più bello del reame; popolarissimo e spontaneamente inavvicinabile, come può avvenire all’epoca dei social. Un suo parere positivo su una ragnatela ben fatta o su un’infiorescenza di raperonzolo poteva valere oro. Si diceva stesse trattando con un boss di Facebook per fare da blogger. Nemmeno Giulietta, la coccinella che qualche contrada più in su sulla collina, con un paio di foto su Instagram aveva fatto la fortuna di Ciccio il rosmarino.

 

 

Fiorite ormai da un mese, tanto da formare un immenso tappeto arancio, le calendule erano apprezzate e frequentate da tutti gli abitanti di Contrada Verde; le fresie, appena spuntate nel loro ordine perfetto, ammaliavano con il loro profumo fresco e intenso, i fiordalisi erano di un blu innaturale, colmo di energia. Centinaia di papaveri fluttuavano al vento, schizzando di rosso il campo di grano ancora di un acceso verde chiaro che lasciava spazio a ondate d’argento.

Pur al cospetto di tanta bellezza, Crêtedecoq affiorava come un faro acceso contro il bianco accecante della pietra viva del suo basso muretto a secco, alla cui base aveva deciso di nascere.

La vita scorreva tranquilla e ognuno era impegnato a dare il meglio di sé:

la camomilla serrava i ranghi, preparandosi a fiorire con mille capolini, nella speranza di essere raccolta ed essiccata in gruppo, continuando cosi a tenere unita la famiglia; il tarassaco si apriva a ventaglio per rubare spazio alla concorrenza e preparare la rampa di lancio per i suoi semi paracadute; la cicoria selvatica procedeva rasoterra, nascosta, lontano dalle lame dei raccoglitori di verdura selvatica.

Accanto a Crêtedecoq stavano sgobbando, come ogni mattina, i sui vecchi amici: Piero, meglio noto come Garibaldi, un argenteo elicriso italiano dall’inconfondibile profumo di liquirizia; Marilena, una malva ipertrofica e invadente con cui occorreva litigare per contendergli lo spazio e la luce; Pasquale, un vecchio asparago spinoso che si era retto a protettore del gruppo invece di occuparsi di dare continuità alla sua stirpe con giovani turioni. “Di qui non passa nessuno”, diceva, “Siamo al sicuro, nemmeno Trump potrebbe costruire un muro invalicabile come questo”.

E aveva ragione. Aveva fatto davvero una bella recinzione pungente. Nemmeno Ignazio, il cinghiale, si avventurava nella barriera di rovi eretta da Pasquale. Solo l’Uomo, con la sua altezza, le sue protezioni e le sue terribili forbici, poteva minacciare quell’angolo di muretto a secco che era diventato ormai il palco di uno spettacolo sempre in scena, come nemmeno a Broadway. E da quando si era diffusa la notizia che i muretti a secco erano diventati patrimonio mondiale dell’Unesco, arrivavano in pullman frotte di zanzare e comitive di blatte perfino dalla Città.

 

Le barriere, i muri, possono proteggere, ma quando alziamo un muro dimentichiamo spesso quello che lasciamo fuori, le sofferenze degli altri, le nostre opportunità in fumo, il mondo che cambia. E se poi siamo ricchi e belli come Crêtedecoq …

“il mio agente sta trattando con il principe inglese Harry: vuole regalarmi come fiore di fidanzamento alla futura principessa consorte, stiamo definendo i dettagli della trasferta, le assicurazioni…” “gli inglesi al massimo ti userebbero per un funerale” lo irrise Garibaldi, che di storia e costumi del mondo ne sapeva più di tutti, alla Contrada Verde.

 

Intanto il sole si era abbassato fino a diventare una enorme palla arancione che aveva incendiato il cielo: tutti gli altri colori caldi si spensero d’incanto. Una bella auto scoperta si fermò davanti al cancello bianco di Contrada Verde, una musica dolce, da night bar, si diffuse nell’aria: “E volando, superando i monti, verso cieli bianchi di libertà, e volando finché tutto il mondo solamente un punto sembrerà…”.

Marilena la malva, che era sempre la prima a parlare, sosteneva si trattasse di De Gregori ma Samantha, una bella di notte che frequentava tutti i locali chic della provincia, giurò che era una canzone di Sergio Cammariere.

 

Calò la notte e tutti divennero uguali, pallidi. Molti si racchiusero nei loro boccioli. Solo Samantha e Lorella, la lucciola ballerina, rimasero sveglie.

Ma non tutti dormivano sereni. Fuori da quel ghetto dorato – il muretto dei pavoni, come lo apostrofavano alcuni vicini invidiosi – animali e vegetali avevano altre preoccupazioni. Due parole moderne terrorizzavano la contrada:

La prima minaccia si chiamava glifosato. Una tortura che portava alla morte per avvelenamento e che non risparmiava nessuno, piante e animali. Quante api aveva visto boccheggiare, ronzare senza meta fino allo sfinimento, drogate da quella strana sostanza diluita nella rugiada?

Per fortuna da qualche anno l’uomo, almeno i più giovani, aveva cominciato a capire che tanta sofferenza procurata non serviva a niente e a nessuno. Non serviva a loro, innanzitutto, che rendevano l’acqua inservibile e si ammalavano di terribili malattie; non serviva a far soldi, perché sempre più la ricchezza faceva il paio con la bellezza, e non c’è nulla di più brutto di un campo desertificato in primavera.

Questo cominciavano a capirlo anche i loro clienti più ricchi e ignoranti, i cittadini, quelli che non sanno se le uova escono dal culo di una gallina o crescono su un pino. Se non era la soluzione immediata, era almeno una speranza per i fiorellini futuri.

I problemi arrivavano soprattutto dai contadini anziani, i veterani. Quelli che “so tutto io” ed “è cosi perché è sempre stato cosi”, quelli per cui se un pesticida viene messo fuori legge vuol dire che bisogna procurarselo a tutti i costi perché è sicuramente migliore, più efficace…

Dai campi dei veterani scappavano tutti quelli che potevano. Non c’era più un insetto impollinatore e le povere piante che non potevano muovere le radici erano condannate agli stenti, alla dannazione.

La seconda, nuova, minaccia suonava sinistra. Si stava portando via gli ulivi millenari, le piante sacre dalla grande memoria, attorno ai quali la notte ci si adunava per sentire le loro storie su Seneca e Lucio Dalla: un batterio corrotto che aveva trasformato la gente della contrada in razzisti da croce celtica.

La Xilella Fastidiosa. Per una volta l’Uomo, incautamente, aveva dato un nome dagli effetti inferiori a quelli previsti, al contrario di come faceva spesso, in un’epoca di bombe d’acqua per descrivere gli acquazzoni, di bombe di calore per due giorni di scirocco estivo e di bollini rossi per un weekend di traffico.

La sputacchina – suo inconsapevole veicolo di contagio – uno degli insetti più tranquilli e solitari, era stata allontanata da tutti, come se l’infezione dipendesse dalla sua volontà e non dal batterio della Xilella veicolata da milioni di piante esotiche portate dall’uomo da ecosistemi lontani senza alcun controllo, e non per fornire cibo o calore ma solo per adornarne le ville secondo modelli emulativi di magioni di Miami, Malibù o Hammamet…

Quante volte in passato l’Uomo aveva visto quelle piccole macchie di saliva sull’erba verde di primavera? Nemmeno sapeva fosse opera della sputacchina, pensava fosse qualche lumaca. Ora tutto era cambiato. Nessuno lo diceva chiaramente, ma la sputacchina era diventata una indesiderabile. Averla in campo significava attrarre la collera dell’Uomo, che si scatenava con terribili insetticidi.

Avevano cominciato a ignorarla, a toglierle il saluto. Qualcuno diceva che si erano formati comitati segreti tra insetti autoctoni, per la difesa della purezza della razza, e che di notte gruppi di insetti incappucciati perseguitavano i soggetti più indifesi. Si diceva pure che qualcuno aveva assoldato un plotone di terribili cimici asiatiche.

 

La mattina esplose all’improvviso. Mattina qui significa luce, contrasti forti; è una copertina calda dopo una notte gelata, è il risveglio collettivo di mille specie diverse che cominciano ad urlare tutti insieme come in un mercatino palermitano… la mattina è una festa.

Crêtedecoq si stava pettinando al venticello di levante che cominciava ad alzarsi. Le margherite si aprivano, i giovani turioni degli asparagi spuntavano vigorosi dalla roccia, le bietole selvatiche mostravano le loro foglioline più tenere e le fresie e le violette inondavano di profumi tutta la contrada. Era domenica, giornata da passeggiata in campagna per l’Uomo, e ognuno voleva essere il più bello, il più buono, il più profumato, per essere impollinato dagli insetti o per essere raccolto dall’Uomo; per dare un senso compiuto alla sua vita.

Crêtedecoq li snobbava tutti, lui aspettava un principe, non avrebbe fatto la fine del fiore secco nella pressa di carta di un moccioso. Lui si sentiva una star.

Le settimane passavano, il grano cominciò a diventare un mare giallo, il destino si stava compiendo a Contrada verde.

Garibaldi e Marilena furono colti per primi, da un vecchio uomo saggio che era un loro antico cliente: passava di lì ogni anno, avrà avuto 100 anni ma era ancora energico, sempre silenzioso. Era il vecchio delle tisane, conosceva tutte le piante e ne faceva medicinali molto apprezzati. Quest’anno con lui era venuto anche un cucciolo d’uomo. Una speranza tramandare una conoscenza importante, pensavano tutti.

La stessa sorte toccò alla camomilla e al fiordaliso, mentre la cicoria e la bietolina furono  raccolte da un Uomo in tuta mimetica a cui era andata male la battuta di caccia.

Anche Pasquale sacrificò tre giovani Turioni alla causa, e una giovane donna raccolse le bellissime fresie profumate. In un pomeriggio di maestrale si esibì il tarassaco, che lancio i sui semi paracadute in uno show applaudito da tutti i presenti.

Le api migrarono verso i ciliegeti, dove potevano fare scorpacciata di polline, e le giornate erano diventate troppo calde anche Calimero l’oziorrinco – un piccolo coleottero nero che mangiava le foglioline d’ulivo di nascosto dall’Uomo – che ora preferiva starsene al freschetto sotto terra.

Qualche giorno dopo, nel campo apparve un mostro d’acciao, un enorme trattore che in un solo giorno taglio e raccolse tutto il grano. Il mare d’oro era stato d’un tratto prosciugato.

Una sera una nottola, passando velocemente, gli disse che stava correndo a Contrada rossa, dove era sbocciata una rosa carminia dai petali bordati di giallo, una bellezza mai vista prima.

 

Crêtedecoq era rimasto solo. Nemmeno Peppino, il barbiere, passava più di lì. Di colpo realizzò che nessun torpedone sarebbe più passato da Contrada Verde per quell’anno. Capì che ora i suoi quattro petali ormai avvizziti non interessavano più a nessuno.

Capì che puoi diventare una star per una stagione, ma che poi la gente dimentica, ha bisogno di altri miti di cui parlare e sparlare. E poi, a rifletterci bene, aveva perso tanto tempo a pettinarsi al vento per cosa?

E così capì cosa fare.

Si nascose all’ombra del grande carrubo, che nel frattempo aveva raddoppiato la sua chioma, si concentrò e fortificò il suo baccello, rendendolo ricco e prosperoso.

 

 

Passò l’inverno. La primavera successiva Contrada Verde cambio nome. Fu chiamata Contrada dei papaveri, perché lì c’erano i papaveri più belli, più rossi e più grandi che si fossero mai visti.

Un oceano di papaveri, per principi e per mendicanti. Uno spettacolo della natura che attirava tutti e che garantì la sopravvivenza della contrada, minacciata fino a quel momento dalla costruzione di una pseudo masseria con piscina olimpica.

E del vecchio Crêtedecoq, sotto gli antichi ulivi, se ne parla ancora, insieme a Seneca e a Lucio Dalla.

 

 

 

20 gennaio 2019

TALK

 

 

 

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