di Anna Spero

Un sandwich al prosciutto cotto e formaggio, una mini-confezione di nachos “Doritos” e una Corona light in lattina da mezzo litro. Questa, la cena della mia Vigilia di Natale 2017, servita a bordo di un aereo in partenza alle ore 18.00 da Lima con destinazione finale sette ore dopo a Città del Messico.

Mai, prima di questo momento, mi era capitato di trascorrere una festività così importante lontana da casa. Ma, dato che l’alternativa sarebbe stata restare in Perù dopo sole tre settimane dal mio arrivo e assolutamente priva di amicizie locali, tanto valeva realizzare uno dei miei sogni e andare in Messico con le mie compagne di viaggio.

Atterriamo nella capitale nel cuore della notte, all’una circa e a festeggiamenti iniziati. Ricordo che la prima impressione fu quella di essere in una città buia e pericolosa. Il tragitto dall’aereoporto all’ostello non fu particolarmente rassicurante. Dalla strada provenivano rumori di esplosioni di petardi e fuochi d’artificio, allarmi di auto impazziti e latrato di cani. Sparse qua e là luci natalizie provenienti da case, nelle quali si intravedevano persone intente a mangiare e ascoltare musica latina.

Niente di troppo diverso da quello a cui siamo abituati, ma si sa, quando si arriva in un paese per la prima volta, tutto si osserva con una punta di diffidenza e timore. Arrivate in ostello, con la pancia vuota e un velo di nostalgia rivolta alle nostre famiglie e alle tavole imbandite, decidiamo di dormire, speranzose di una svolta il giorno seguente.

Alla luce del giorno e illuminata da un sole caldo e splendente in un cielo azzurro e limpido, Città del Messico assume tutt’altro colore. Decidiamo di incamminarci a piedi verso il quartiere storico, il più turistico, Lo Zòcalo.

Circondate da palazzoni moderni e imponenti ci facciamo strada verso i primi edifici antichi, caratterizzati dalla tipica architettura spagnola del periodo coloniale: un’ampia strada pedonale costeggiata ambo i lati da negozi, ristoranti, musei e giardini. Alla fine del lungo viale, scorgiamo già un enorme albero di Natale adornato con addobbi bianchi, rossi e dorati. Proseguiamo e, senza accorgercene, ci ritroviamo immerse nello stupore di una delle piazze più grandi del mondo: Plaza de la Constitución.

Perimetrata dalle sedi ufficiali di governo istituzionali, ogni facciata è ricoperta di luminarie di enormi scritte di auguri per un felice Natale ed un prospero anno nuovo.

Al centro della Piazza, per l’occasione, hanno allestito una pista di pattinaggio e dune artificiali di ghiaccio per scivolarci su con lo slittino.

Nella fiumana di persone, tra la confusione delle voci, si ode un suono di tamburi e musica tribale mentre si erge nell’aria un profumo che non riesco a definire. Una nube bianca mi indica la direzione, mi faccio spazio tra la folla e dopo diversi metri scorgo uno spettacolo a me sconosciuto.

Uomini bellissimi dai tratti somatici indigeni ballano nella piazza e indossano costumi tradizionali delle popolazioni autoctone azteche. Alcuni a torso nudo, altri con casacche dai colori sgargianti con sopra disegnate trame lineari e geometriche. Corone di piume e calzari alti fino ai polpacci con sonagli fatti di conchiglie e semi. Intorno a loro un circolo di spettatori folto e interessato.

Mi fermo per una mezz’ora abbondante affascinata dalla perfezione dei movimenti e dalla forza dei gesti fino a che riconosco la nube bianca che mi aveva condotta fin lì; poco più in là, scorgo una coda di persone e incuriosita, mi avvicino anche io.

Tutti aspettano il proprio turno per farsi ricevere da un altro uomo, anche lui ricoperto dagli stessi abiti e dalla stessa corona di piume. Decido di andare direttamente alla fonte per capire meglio di cosa si tratti. L’uomo mi risponde di essere un azteco e che i suoi abiti simboleggiano la sua appartenenza a tale popolazione. Mi spiega che lui, insieme al suo gruppo, è in viaggio per tutto il Messico per continuare a diffondere la vera cultura precolombiana, quella che forse ancora oggi sarebbe vigente se solo i conquistadores spagnoli non avessero distrutto una civiltà imponendo le proprie tradizioni, la propria lingua e la propria religione.

Gli chiedo perché tutte quelle persone siano lì in coda e mi spiega che è in atto una cerimonia di purificazione dalle cattive energie.

Decido di farlo anche io, mi metto in fila e mi viene dato un rametto di albahaca, cioè di banalissimo basilico.

Aspetto e, arrivato il mio turno, mi ritrovo nuovamente faccia a faccia con l’uomo di prima.

Mi fissa negli occhi e mi chiede di dargli il rametto che mi era stato dato. Tra le mani ha una coppa scolpita di bassi rilievi, di un materiale che non identifico molto bene e da cui fuoriescono boccate di denso fumo bianco e profumato che inizia a soffiare su di me, lo stesso che avevo visto in lontananza poco prima, e capisco così l’origine di quell’odore dolciastro che fino a quel momento mi aveva riempito le narici.

All’interno della coppa bruciano foglie di basilico. Mi dice di allargare le braccia e di chiudere gli occhi. Mi passa il rametto di albahaca su tutto il corpo, sul viso e sulla testa. Ripete gli stessi gesti facendomi voltare dall’altro lato e passandomi il rametto anche sulla schiena e le gambe. Il tutto si conclude dopo avermi passato tra le mani il rametto di basilico e un olio essenziale.

Ora, sono purificata.

Non posso fare a meno di guardarmi intorno e pensare a quanto tutto questo possa essere paradossale: essere circondata da addobbi natalizi simboleggianti un’appartenenza cristiana e cattolica ed essere allo stesso tempo spettatrice di tradizioni indigene. Come può un paese cosi legato alla propria storia e alla sua origine intrisa di significato, aver permesso alla cultura occidentale di metterla da parte a tal punto da renderlo quasi solo ed esclusivamente un’attrazione turistica?

Le popolazioni azteche, maya ma anche incaiche non credevano in un Dio, avevano come divinità la concretezza delle cose, gli elementi naturali del mondo circostante.

Credevano nella forza della Madre Terra, del mare, dei tuoni e del vento e tutte le volte in cui volevano ingraziarsi la buona sorte per un buon raccolto o per invocare la stagione della pioggia, facevano delle offerte alla terra stessa, regalando doni, cibo, fiori e oggetti di artigianato.

Come sarebbe oggi la storia del mondo se la prevaricazione religiosa della chiesa cattolica e la legge del più forte non avessero omologato le civiltà?

In quali paesi si festeggerebbe Natale e quali continuerebbero ad essere le tradizioni delle altre culture?

Questo non possiamo saperlo, ma nel dubbio anche io questo 25 dicembre, un rametto di basilico lo comprerò, purificarsi dalle energie negative può solo essere un’azione di buon auspicio.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Abilita le notifiche per non perderti nessun articolo! Abilita Non abilitare