di Flavio Andriani

Scrittore

 

Il massimo della vanità è scrivere i propri pensieri, nascondere il quaderno e poi sperare che qualcuno lo trovi.

Spesso la vanità vince sulla necessità di dire qualcosa di veramente utile (o anche inutile).

È una trappola diffusissima.

A un individuo abbiente e rispettabile non  verrebbe mai in mente di vivacchiare con ciò che è detto Arte. O Letteratura.  Anche se le motivazioni che lo spingono sono tante, troppe, che ruotano sul solito perno dell’esser padre delle proprie opere, parto di sua esclusiva fantasia, inseguire il suo stimolo creativo etc. etc.

Nessuno li obbliga a consegnarsi ai voti delle muse, ma gli autori,  stregati da una momentanea vocazione di sempre-eterna  “volontà e rappresentazione”,  rivendicano orgogliosamente la paternità dei propri scritti,  partecipano numerosissimi  non tanto ai saloni del libro, ma alle fiere della vanità.

Non che quest’ultima sia cosa esecrabile, ma diventa urgente al punto  di affidarsi agli Editori a pagamento  (troppi) per vedere la luce di una  pubblicazione.

E questo rappresenta il vero male di certa  editoria che andrebbe chiamata  semplicemente…tipografia.  Le Case Editrici che non chiedono contributi all’autore e che investono sulla qualità, sono la minoranza.

I quattrini diventano un aspetto residuale e gli  Editori, tranne rari casi, riservano  ai nuovi Autori  una manciata di spiccioli, quando tutto va bene.    Il paradosso finale è che,  in caso di eventuale  successo,  la cartaccia moneta  diventa  vera matrigna (di tutte le arti)  e stabilisce, come da regole del marketing,  quale sia  il prodotto  che piace ai più.  Un libro in fin dei conti, è un prodotto qualunque al pari di uno yogurt, da mettere o togliere da uno scaffale della distribuzione.

La qualità quindi va a farsi benedire.

Che dire poi degli artisti…tanti sforzi  e a volte poche fatiche.  Andrebbe finalmente  riconosciuto loro  uno status, uno statuto professionale.

Come avviene  in Canada dal 1992. Lo sviluppo di un quadro giuridico e istituzionale al fine di sostenere la scena artistica e museale contemporanea, e di conseguenza, la sua filiera. . Cioè l’adozione e l’attuazione di una serie di misure  contrattuali, fiscali e assicurative. Agevolare il riconoscimento professionale degli artisti.

Non più dopolavoristico sollazzo.

Questa sarebbe una vera scommessa, puntare sul nulla, sull’inutile, sull’estetica, discutibile o no.

Perché ciò che conta non dovrebbe essere il prodotto artistico, ma il prodursi dell’artefice, in rapporto al quale, l’opera non è che una caduta residuale, un escremento nell’etimo,  ciò che si separa e cade dall’organismo vivente della vita.

Se l’arte  è vita, come irripetibilità dell’evento vivente una volta sola, l’opera è perciò il materiale morto, il cadavere evacuato dall’evento.  Stupendo o no che sia.  È probabile che in questo modo, l’iper produzione artistica subirebbe una scrematura, e godrebbe di una qualità più verticale.

Dall’iper-pop all’iper-coop, il passo è breve.

È utopia pensare di puntare, come in finanza, sul titolo più basso del listino, scommettendo in una sua  risalita?

Ma mentre scrivo, ripesco un foglietto stralciato, prezioso:   ù

Siamo pervasi di parole inutili, di una quantità folle di parole e di immagini. La stupidità non è mai muta, né cieca. Il problema non è più quello di fare in modo che la gente si esprima, ma di procurare loro degli interstizi di solitudine e di silenzio a partire dai quali avranno finalmente qualcosa da dire. Le forze della repressione non impediscono alla gente di esprimersi, al contrario la costringono ad esprimersi.  Dolcezza di non aver nulla da dire, diritto di non aver nulla da dire: è questa la condizione perché si formi qualcosa di raro o di rarefatto che meriti, per poco che sia, d’esser detto”.  (Gilles Deleuze, Pourparler).

 

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