di Samanta Leila Macchiarola

Sicuramente vi sarà capitato di aver “ fatto fiasco”, di aver comunicato un vostro insuccesso a qualcuno, o anche solo a voi stessi, utilizzando questa espressione.
Sicuramente, in quel momento non avete pensato al perché si dica “ho fatto fiasco” tanto è chiara la situazione a cui tale modo di dire si riferisca.

Per quanto curiosi, l’origine di certe espressioni passa in secondo piano rispetto allo stato d’animo, all’accaduto e al contesto che spontaneamente ne richiedono l’ utilizzo.
Per citarne solo alcune, mi vengono in mente “piantare in asso”, “prendere un granchio”, “fare le scarpe”…
Oggi, invasi come siamo da inglesismi ed espressioni alla moda, piuttosto che “fare fiasco” si direbbe è stato un “flop”, oppure “ho fatto flop”, senza interrogarsi troppo, visto che flop in inglese
significa ”fallimento, insuccesso”.

Al bando, quindi, ragionamenti e quesiti intorno a quella che, invece, nella nostra lingua risulta un’espressione controversa in quanto a provenienza.

Che nasca dall’arte e dal mestiere del soffiatore di vetro oppure da una vicenda legata ad un insuccesso teatrale, è questo il dilemma per chi andasse alla ricerca dell’aneddoto e delle origini
storiche legate, appunto, a questa espressione quotidianamente usata.

Io stessa, a dire il vero, ne ero all’oscuro quando, qualche sera fa, durante una cena in famiglia, a proposito della partecipazione ad una prova di selezione di una giovane aspirante attrice seduta a
tavola con noi , per scongiurarne quasi scaramanticamente l’insuccesso, uno dei commensali le augurava scherzosamente di non fare fiasco… rivelando poi l’origine dell’espressione.

Vuoi perché sorpresa e incuriosita da quella erudizione, vuoi perché desiderosa di accertare l’attendibilità dell’informazione, non ho esitato ad avviare una personale ricerca.

Motivo per cui sono qui a parlarvene, lasciandovi, poi, la facoltà di optare per l’una o per l’altra verità: certo è che d’ora in poi quando vi riferirete a qualcosa come ad “un fiasco” sarete più che edotti sull’origine di questo modo di dire. Che, poi, è quello che mi capita ogni volta che, in maniera più o meno dolorosa , mi sento “piantata in asso”: rivedo la povera e delusa Arianna, abbandonata dall’ingrato Teseo sull’isola di Nasso, lasciata “in (N)asso”, dopo avergli offerto il suo aiuto per uccidere il Minotauro…

Chiusa la parentesi, possiamo dire che, secondo una prima versione, quando l’artigiano sbagliava e falliva nella delicata operazione di soffiatura del vetro, ritrovandosi con un oggetto informe, ben
diverso da ciò che intendeva realizzare, per la somiglianza ad un fiasco, diceva, appunto, di aver “fatto fiasco”.

La seconda versione fa risalire la nascita di questa espressione a Domenico Biancolelli (1636-1688), attore teatrale che recitava come Arlecchino, il quale, in piena Commedia dell’Arte, essendo solito presentarsi ogni sera con un oggetto diverso, decise di improvvisare con un fiasco in mano. Non riscuotendo il successo atteso, visto che non fece per niente ridere il pubblico, si cominciò con l’associare “il fiasco” all’insuccesso.

È pur vero che qualcuno potrebbe rimanere perplesso di fronte a questo genere di spiegazioni, ipotizzando che esse siano state costruite ad hoc e considerandole poco credibili, per ragioni
“grammaticali” la prima” ( perché dire “fare fiasco” e non “fare un fiasco?), e per ragioni “lessicali” la seconda ( perché usare il verbo “fare”? o molto probabilmente l’espressione precedeva
l’aneddoto a cui era stata collegata?). Costui potrebbe obiettare che, di fatto, il fiasco rimanda di suo, per la sua stessa forma, a qualcosa di mal riuscito, e quindi, per analogia è diventato sinonimo
di fallimento… ci troveremmo, dunque, di fronte ad un’etimologia “forzata”.

In questo caso, anche io, ahimè, avrei “fatto fiasco” al cospetto dei lettori !
Mi auguro, però, che non sia lo stesso per la mia cara aspirante attrice….

2 thoughts on “Modi di dire modi di essere

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