New York da interno

 

di TALK

 

Preferisco morire di passione che di noia…

Vincent Van Gogh

 

 

Se l’amore esiste

Una storia verissima

 

Calogero è un tipico nome siciliano, anche se Kal – questo il nickname con cui era conosciuto per le strade di New York – era stato concepito ad Andria, in Puglia, per venire poi alla luce dall’altra parte del mondo, in un villaggio vietnamita.

A dispetto di quel che queste prime righe possano far pensare, dopo la sua nascita e il suo trasferimento negli Stati Uniti Kal non aveva più avuto alcun modo di viaggiare: aveva cominciato a lavorare molto presto, con una occupazione usurante e priva di grandi soddisfazioni, che però non aveva ancora intaccato la sua forte fibra. Tonico, con le fasce muscolari che lo irrobustivano nei punti giusti, nero come la pece; solo un baffo bianco lo faceva distinguere da molti altri suoi colleghi.

Kal aveva lavorato sodo un’intera estate, fino allo sfinimento, prima di finire nell’oblio.

Lavorava di mattina presto, partendo tra la 38sima e la Quinta Strada per arrivare a Central Park passando per il Metropolitan Museum; tutte le mattine, senza poterci entrare mai. Questo il suo grande cruccio. Riusciva solo a immaginare cosa potesse esserci in quella specie di mausoleo così visibile dal marciapiede. E vedeva tanta gente uscire con buste, pacchetti e lunghi cilindri contenenti poster. Aveva sempre creduto che fosse uno shopping mall e non un museo.

Un lavoro stressante, il suo, sempre in coppia con il suo partner, Zino, un tipo tosto come lui: erano fisicamente quasi identici, e inseparabili. Insieme avevano sopportato stress e fatica, costretti per ore al buio e al caldo umido e asfissiante dei loro stretti veicoli sintetici, un lavoro di squadra portato avanti senza nemmeno vedersi, seppure vicinissimi uno all’altro.

Zino e Kal passavano molto tempo insieme anche dopo lavoro, prima mentre facevano l’hammam quotidiano, poi durante il lungo e tonificante stretching del pomeriggio.  Avevano però caratteri molto diversi. Zino – un altro strano vezzeggiativo adattato alle esigenze di sintesi degli States e derivante da un altro nome tipicamente italiano, Vincenzo – era pedante, pignolo; amava fare sempre le stesse cose, nello stesso modo. Kal invece amava sperimentare nuove avventure. Ogni mattina sperava di entrare in nuovi mezzi fiammanti o, almeno, in quello usato dal suo socio il giorno prima, per testarlo; era il momento più eccitante della giornata, quello: adorava doversi conformare a una nuova situazione, impegnarsi per cambiar pelle, tendere i muscoli, allungare le fibre…

Zino invece era abitudinario fino alla paranoia. Ormai si era creato una sua conformazione e detestava qualsiasi cambiamento: sempre più spesso si irrigidiva apposta per indurre il suo datore di lavoro a scegliere per lui il suo veicolo preferito, quello in cui stava più comodo, e faceva dispetti ogni volta che ciò non accadeva. Quante urla aveva ricevuto per quelle pieghe a tradimento! C’erano giorni in cui aveva più plissettature di una gonna scozzese.

Ma a parte le differenze caratteriali e di vedute, le vite di Zino e Kal scorrevano serene, anche se con il lavoro logorante che avevano si stavano accorgendo di sentirsi un po’ svuotati; di invecchiare. Da qualche settimana si erano anche un po’ ingrigiti e già parlavano di ritirarsi in pensione, magari di lavorare d’inverno, ma al caldo. Kal non sopportava questi discorsi, era irrequieto, si sentiva ancora molto vigoroso, ma si stava gradualmente piegando alla routine e ai calcoli del suo partner..

 

La tragedia arrivò improvvisa, in un pomeriggio di fine agosto più buio di una sera di dicembre. Furono sorpresi fuori, mentre erano distesi al fresco. Il Grecale si alzò improvviso, fortissimo, dal mare, seguito da un nubifragio. Un uragano.

Kal riuscì solo per fortuna a rimanere aggrappato alla ringhiera del balcone, ma per Zino non ci fu nulla da fare: precipitò dal quinto piano direttamente nel pozzo luce delle cantinole, lì dove il vento aveva portato stracci, mucchi di foglie secche e sacchetti di plastica. Nessuno poteva nemmeno accorgersi di lui.

Kal rimase solo. E per un calzino da jogging restare solo è un po’ come morire

La mattina dopo fu recuperato – duro come un baccalà per tutta la salsedine che il vento aveva portato dall’oceano – e riposto nella Vasca dell’Oblio, là dove finivano per qualche tempo gli Inutili, prima di essere definitivamente abbandonati.

 

Bamby era bella davvero. Anche se aveva occhi di un cerbiatto, il suo nome non prendeva spunto dalla creatura di Walt Disney, ma derivava da “bambagia”, per via della sofficità delle sue preziose fibre naturali. Era una calzetta di classe, altolocata. In giro si diceva che tra i suoi tessuti c’era del pelo d’angora… Al suo confronto Kal, che pure era un pedalino griffato, era un ruvido bovaro della Texas, tozzo, senza alcuna eleganza.

Del suo vecchio partner, il mitico Lapen, si sapeva molto poco. Qualcuno diceva che era scappato con una giarrettiera francese, altri che aveva preso servizio come berretto del barboncino di una famosa duchessa inglese… Di fatto anche Bamby era sola da troppo tempo, e molto triste, anche se il suo rango non le consentiva di esternare i suoi sentimenti più sinceri.

 

Kal, un tempo aperto e sempre sorridente, si era abituato ormai a stare solo. Anzi, aveva proprio deciso di starsene per i fatti suoi. Aveva ormai troppe sfilacciature, ferite difficili da ricucire. Aveva buoni amici, giù alla Vasca dell’Oblio; soprattutto Bandana, un vecchio fazzoletto da naso un po’ vanitoso e mitomane, che ripeteva ogni giorno le sue avventure di quando stava fuori. Kal giù alla vasca aveva anche avuto un paio di storie, ma l’inedia e l’impossibilità di poter anche solo sognare un futuro diverso da quella prigione lo avevano reso volubile, sempre troppo burbero o troppo buono; talvolta anche le due cose, inspiegabilmente, insieme: due eccessi che costituiscono un errore capitale in ogni rapporto.

Bamby viveva in un appartamento in un palazzone del Bronx ormai da molti mesi, dalla fine dell’inverno, quando, abbandonata da Lapen, fu adottata – per farne una presina più che per pietà – da Irina, l’anziana governante russa della grande villa a Long Island, dove aveva sempre vissuto. Nonostante il dolore, Bamby si manteneva bellissima, morbida e pulita; il suo colorito era ancora di un rosa intenso carico di energia e sensualità.

Le loro vite non si sarebbero mai incrociate se la notte di Santa Klaus, Aleksey-Alfie Unakov, il marito di Irina, modesto ex portiere di hockey su ghiaccio e ora portiere in marsina di un esclusivo building di Madison Avenue, non avesse visto Kal spuntare dall’enorme sacchetto nero lasciato in portineria per una Charity e non ne avesse voluto fare il suo guanto per scaldare la sua mano artritica in una notte troppo fredda. Tornato a casa, il vecchio Alfie gettò subito Kal in lavatrice, senza accorgersi che era stata programmata per i lavaggi delicati. Ma i portieri di Manhattan di origine russa non sono famosi come programmatori di lavatrici, e Kal e Bamby si ritrovarono immediatamente avvolti insieme.

Si conobbero in senso biblico, in un turbinio di sensi e di detergenti, senza nemmeno presentarsi.

Fu strano per entrambi. Sorprendente sarebbe la parola più giusta. Una sorpresa senza classificazione, né bella né brutta. Tutto accaduto troppo rapidamente dopo che entrambi, per motivi diversi, per troppo tempo avevano semplicemente deciso di vivere devitalizzati.

Tutto accadde senza l’intimità e la complicità degli amanti che si conoscono bene… eppure tutto fu intenso, sorprendentemente intenso, di un’intensità e di cui solo chi ama, di chi gode del bene dell’altro , può essere arricchito.

Kal si sentì sorpreso, frastornato. Non credeva potesse ancora provare delle sensazioni così… Era sicuramente colpa, o merito, della centrifuga della lavatrice… Non era nemmeno sicuro che fosse realmente accaduto.

Bamby aveva una sola certezza. Nel buio della lavatrice, avvolti in una sciarpa di Kashmeer, non li aveva visti nessuno.  Lei, la principessina di Boemia, con un calzino da Jogging…

Eppure, oltre la ruvidità di quel dozzinale cotone usurato, aveva appena intuito potesse esserci altro. Non sapeva ancora cosa e come, era solo una flebile sensazione: oltre l’iniziale imbarazzo aveva percepito un calore vero, un’autenticità e insieme un candore che stridevano con l’aspetto di Kal. Questa dissonanza fu l’unico gancio al quale Kal fu inconsapevolmente attaccato per poter rivedere Bamby. La leva che lo tenne praticamente in vita.

 

Dopo quella notte in lavatrice la vita si fece dura per entrambi. L’unico obiettivo, in un modesto e freddo appartamento del West Bronx, era la sopravvivenza. Ma sopravvivere a cosa, poi?

Kal era abituato a correre, a tornare a casa stremato ma a sentirsi utile, amato. Solo questo aveva sempre contato per lui, e ora si sentiva solo un vecchio calzino spaiato. Un essere inutile che si era assuefatto alla sua inutilità.  La notte con Bamby, dopo un po’, gli aveva fatto ancora più male, perché aveva destato in lui quello che pensava aver perso per sempre o che forse non aveva mai sperimentato davvero. Il piacere d’amare. E questo non lo rendeva felice. lo spaventava. Eppure si sentiva fatalmente attratto da questo malessere.

Bamby era tornata tra i suoi pari, in realtà molto pochi in quella casa fredda; tutti blasonati quanto acciaccati, tutti con una lunga anzianità di servizio: Richard, il vecchio foulard di seta di Hermes, Andrea, il maglione Missoni bucherellato dalla cenere, Giulietta, la vecchia sciarpa tarlata di Ferragamo. A questi si era aggiunto, poco prima dell’arrivo di Bamby, il giovane Michael, un papillon di Dolce e Gabbana con un bordo smozzicato da un piccolo coniglio domestico, un tipo irresistibile per tutte le ragazze della corsetteria internazionale, tranne che a Bamby, che lo trovava noioso.

Bamby era sempre vissuta nel jet set della Grande Mela. Nessuno tra i suoi conoscenti aveva mai visto un grande magazzino o una lavanderia industriale, né mai uno di loro aveva soggiornato in una scatola di cartone. Anche qui, in questa casa modesta dei sobborghi Newyorchesi, aveva ritrovato le stesse rassicuranti regole del buon vivere che avevano accompagnato la sua vita; anche qui aveva degli adulatori e dei corteggiatori, classisti che della forma avevano fatto sostanza e che però la facevano sentire a suo agio. Ma sentirsi a proprio agio non era esattamente l’obiettivo finale della sua esistenza, anche se ancora Bamby non lo sapeva.

 

Era l’inizio della primavera, e i giorni erano passati tutti uguali nel gelo polare di New York; inutilizzati dai loro nuovo proprietari, impegnati soprattutto a sopravvivere e a tener testa ai nuovi compagni di viaggio, Kal e Bamby si erano persi di vista subito.

Dopo l’emozione della prima notte insieme non si erano più cercati, forse entrambi spaventati dal rischio di cambiare, di togliere quella maschera che era diventata un grande scudo contro l’inadeguatezza. Finché un giorno Kal impazzì.

Abituato alla strada dalla nascita, ci aveva messo poco a farsi rispettare dai nuovi compagni, puzzolenti pedalini da basket e mutande sintetiche multicolor con cui condivideva spazi angusti. Questo era stato il suo impegno, affrontato di petto e ormai terminato. Kal incuteva timore, quasi inconsapevolmente, per via della sua ruvidità. Non gradiva essere un leader appariscente, nella favola di Salgari avrebbe scelto volentieri il ruolo di Janez piuttosto che quello di Sandokan, ma sin da subito aveva imparato a reagire con violenza e rapidità ad ogni provocazione. E questo ne aveva fatto un capo naturale. Ma a lui tutto questo non importava, non più.

 

Finita la guerra per il potere nel cassetto degli indumenti intimi, gli restò una nota di amaro, una strisciante insofferenza di cui non riusciva a darsi spiegazione. Ripensava a quella notte nella centrifuga e provava una scossa di avversione più che di piacere. Lentamente, un fastidioso senso di incompiutezza lo stava pervadendo.

Giorno dopo giorno, saliva in lui il bisogno di scusarsi per quello che era accaduto… scusarsi di cosa? Non lo sapeva nemmeno lui, ma voleva spiegare a Bamby che lui era diverso… diverso da cosa? Da quale stupido stereotipato eroe dei fumetti? No. Che sciocchezze stava dicendo? Non sapeva esattamente cosa voleva spiegargli.

Tutto di un tratto, capì: voleva semplicemente rivederla; voleva parlarle e ascoltare la sua voce fresca, sentire il suo profumo di ammorbidente al vetiver, urlarle che … non sapeva cosa, sapeva però con certezza che quell’urlo gli si bloccava in gola. Kal, semplicemente, capì che si vergognava anche solo a pensare di poter avere il diritto di amare una come Bamby.

Era in un vortice. Non sapeva che fine avrebbe potuto fare il giorno dopo eppure cresceva dentro di lui la necessità di gridare che era vivo, che anche un calzino spaiato può fare grandi cose… Poi, faticosamente, riacquisiva lucidità. E con quella arrivava la sofferenza.

Brutta cosa la lucidità, ti costringe a vedere le cose da un solo punto di vista, senza sfumature, senza sconti. L’opacità invece può farti interpretare le cose da varie angolazioni. Può darti speranza.

Almeno aveva capito che il suo malessere poteva essere placato, che esisteva una cura per quella strana malattia che lo aveva dolorosamente resuscitato. Doveva rivederla, o fuggire via al più presto da quella casa, per dimenticare la calzina griffata che lui aveva idealizzato forse solo perché aveva bisogno di un ideale. Non poteva essere amore, si ripeteva per convincersene.

 

La mattina del 4 aprile, domenica, il signor e la signora Unakov erano a casa con la loro nipotina. Milly, 3 anni – passeggino giocattolo e bambolotti Barbie e Ken al seguito – non smetteva di guardare i Teletubbies e il vecchio Alfie stava cominciando a dare di matto. Quella data sarebbe rimasta celebre perché alle 2,30 una spettacolare eclissi di luna aveva tenuto sveglie e col naso in su milioni di persone. Lo spettacolo notturno aveva risvegliato nell’ormai anziana coppia la voglia di stare a contatto con la natura, e così decisero di portare la loro nipotina a fare una passeggiata al vicino giardino botanico.

Bisognava schiodare Milly dalla TV. La soluzione venne a Irina, che pensò all’unico modo per stanare Milly: giocare con il suo istinto materno così come lei faceva da bambina. Occorreva creare nuovi vestiti per Ken e Barbie, per convincere poi Milly a portarli fuori.

Giocare con gli stracci: era questo il solo parametro di gioco che Irina conosceva, lei che era cresciuta tra le macerie del dopoguerra di quella città simbolo mondiale della resistenza a oltranza che una volta si chiamava Leningrado. E, nella sua scarsa immaginazione, questi vestiti dovevano essere percepiti facilmente come maschili e femminili: uno scuro e l’altro rosa.

La scelta fu inevitabile: Bamby e Kal si ritrovarono così di nuovo uno accanto all’altro, cappottini perfetti di quei due famosi pupazzi di plastica, figli giocattolo di tante generazioni. Questa volta non erano avvinti al buio nella tempesta della centrifuga. Erano al sole di primavera, trasportati dolcemente in un tour di gradazioni di verde e di fragranze floreali.

L’inizio di Aprile nell’emisfero boreale corrisponde alla rinascita del mondo. Profumi e colori intensi esplodono quasi all’improvviso. L’appartamento in cui vivevano Bamby e Kal era a due passi dal “New York Botanical Garden”, il più grande giardino botanico degli Stati Uniti, 100 ettari di verde voluti alla fine dell’800 da molti cittadini e da pochi capitalisti che hanno fatto la storia e la ricchezza della capitale mondiale della finanza. Qui, nei suoi 48 giardini colmi di piante rare e fiori, la natura stava dando ancora una volta prova della sua grandezza.

 

Fu la mattina più bella di sempre. Kal aveva cominciato a parlare immediatamente e di tutto, come se conoscesse Bamby da sempre. Le sue conoscenze di botanica, maturate sul campo a Central park, gli davano sicurezza. Bamby sembrava apprezzare tutto quello che Kal cercava di dirle di ogni singola pianta esotica, della sua origine e dei suoi possibili utilizzi. Erano argomenti di conversazione mai trattati prima, sconosciuti all’alta calzetteria Newyorchese. Lui nemmeno si preoccupò del suo interesse. Aveva urgenza di parlarle, sentiva che raccontare colmava dei vuoti, leniva chissà quale ferita che lui sentiva di aver provocato, avvicinava.

Aveva immaginato mille volte di incontrarla e si era costruito tesi e antitesi che aveva rimosso al primo istante del loro ricongiungimento. Lui parlava; lei, gli occhi fissi su di lui, ascoltava con attenzione e ogni tanto interveniva con sagacia e innocenza insieme. Bamby si poneva domande. E voleva risposte semplici, vere. Le più difficili. E ora sentiva di poterle avere.

Il tour durò a lungo ma loro quasi non si accorsero del passare del tempo. Kal continuava a parlare, spesso in modo disordinato, irruento. Aveva troppe cose da dire da troppo tempo, tutte le cose preziose che non interessavano a nessuno, tranne che – ne era scioccamente sicuro – alla sua principessa rosa.

Milly incontrò delle amichette, fece il giro delle giostrine, si sbucciò un ginocchio e piangendo fu soccorsa dai nonni che, preoccupatissimi, dimenticarono il passeggino all’orto botanico.

 

Bamby e Ken sono ancora lì, abbracciati, ormai coperti dall’ombra di un’enorme pianta di cappero proveniente dalle gravine pugliesi, i canyon del Mediterraneo.

Parlano tanto, soprattutto Kal; litigano spesso, soprattutto per merito di Bamby; fanno progetti che disfano il giorno dopo.

Non sono mai andati al cinema, non hanno un gruppo di amici con cui uscire e non hanno mai programmato le vacanze in un posto cool. Hanno anche i telefonini scarichi.

Non si sono mai annoiati. Se esiste, questo è l’amore.

16 gennaio 2019

PH credit: https://www.bolognaforense.net/2017/07/un-avvocato-italiano-a-new-york-due-sistemi-a-confronto/

 

 

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