di Roberto Oliveri del Castillo

magistrato e scrittore

 

Milano, stadio Meazza, ore 8.30. Nella sedicente “capitale morale d’Italia”, fin dall’inizio della partita Inter-Napoli oltre 60.000 persone intonano cori discriminatori inneggianti la lava del Vesuvio su Napoli, e “Buuu” razzisti all’indirizzo di squadra e tifosi del Napoli presenti.
La telecronaca di Sky non rileva nulla (si giustificheranno dicendo che “è la loro linea editoriale”!), anche se i cori sono estremamente udibili. La radiocronaca della RAI invece, non condizionata da interessi economici, da’ ampio risalto a queste forme di inciviltà. Onore alla vecchia cara RAI, di Sky meglio non parlare, si commenta da solo.
L’esito lo conosciamo. Esasperazione dei giocatori, falli da nervosismo, espulsione del giocatore più insultato nella serata, il senegalese Kalidou Koulibaly, con tutto il codazzo di dichiarazioni indignate da parte di tutti, compresi quelli che hanno il compito di evitare che tali fatti vergognosi accadano. Rimpallo molto italico delle responsabilità, prima della partita un vero e proprio agguato di centinaia di teppisti di varia provenienza (Milano, Varese, Nizza) organizzati per assaltare i pulmann di tifosi del Napoli con famiglie al seguito. Agguato in via Novara, a due kilometri dallo stadio, pieno centro. Forze dell’ordine assenti.
Per dare un minimo di ordine, dopo il fatto, per capire cosa si poteva fare e non si è fatto, dobbiamo affrontare il piano normativo.
Da alcuni anni esiste una norma del codice sportivo, art. 11, che punisce i cori di discriminazione territoriale. Come è noto, si tratta di un fenomeno che negli ultimi mesi si è segnalato alle evidenze delle cronache per episodi particolarmente incresciosi ed incivili, spesso aventi come obiettivo Napoli e i napoletani anche su campi dove sono impegnate altre squadre. L’art. 11 del Codice di Giustizia Sportiva è rubricato ‘responsabilità per comportamenti discriminatori’, ed il comma 1 stabilisce che ‘costituisce comportamento discriminatorio, sanzionabile quale illecito disciplinare, ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica, ovvero configuri propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori’.
Le funzioni della norma sono molteplici, e conducono a varie forme di responsabilità, diverse in ragione dell’autore della violazione: calciatore, dirigente, club, sostenitori.Le sanzioni sono molto pesanti: ad esempio, per i calciatori protagonisti di comportamenti discriminatori, la sanzione minima consiste nella squalifica per dieci giornate, mentre per i dirigenti, nell’inibizione per quattro mesi. Qualora si tratti di tesserati della sfera professionistica, è prevista anche l’ammenda.Per quanto attiene le società, quando il fenomeno, per dimensione e percezione, è tale da integrare portata discriminatoria, si applica, come sanzione minima, la chiusura del settore in cui le condotte violative sono commesse, fino ad arrivare, ovviamente alla squalifica del campo o alla perdita della gara, con penalizzazione di punti in classifica.
La discriminazione territoriale, invece, è un concetto che non è ben definito nel Codice di Giustizia Sportiva, essendo stato abrogata, come espressione caratterizzante l’art. 11, comma 1, citato, con il C.U. n. 58/A del 18 agosto 2014. L’unico richiamo attualmente presente è quello all’art. 12, comma 3, del Codice di Giustizia Sportiva, secondo cui le società ‘sono altresì responsabili per cori, grida e ogni altra manifestazione oscena, oltraggiosa, minacciosa o incitante alla violenza o che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di origine territoriale’, con conseguente riconducibilità dell’insulto per motivi territoriali al genus delle condotte violente, piuttosto che di quelle discriminatorie.
Con la riforma voluta dall’ex presidente FIGC Carlo Tavecchio del 18 agosto 2014, è stata eliminata la parola ‘territoriale’ che, unitamente all’origine etnica, rappresentava uno dei motivi per cui un comportamento insultante poteva assurgere a discriminatorio. In sostanza, dopo la riforma, un’espressione consistente in un insulto per motivi di origine etnica è qualificabile come ‘discriminatoria’, con applicazione delle relative sanzioni (chiusura settori o stadio) di cui all’art. 11 del Codice di Giustizia Sportiva, mentre non lo è se il motivo dell’offesa è l’origine territoriale (es: zingaro di m….. è discriminatorio, napoletano di m….. no).
Prima della riforma, invece, le due fattispecie erano equiparate. Ma in caso di cori discriminatori o razzisti nei confronti di un giocatore a chi spetta sospendere le partite? Se ne è molto parlato in occasione dei recenti fatti di Milano, con ripetuti cori razzisti contro Napoli e il giocatore di colore Kalidou Koulibaly, esasperato dai cori fino all’espulsione. Ebbene per l’art. 62 comma 6 delle regole Figc (NOIF) è il responsabile dell’ordine pubblico designato dal Ministero dell’Interno che, “in caso di striscioni esposti dai tifosi, cori, grida, ed ogni altra manifestazione discriminatoria di cui al comma 3, costituente fatto grave, ordina all’arbitro, anche per il tramite del quarto ufficiale di gara o dell’assistente dell’arbitro, di non iniziare o sospendere la gara”. Il comma 7 prevede gli avvisi fonici al pubblico di interrompere i cori. Se la le condizioni climatiche od ambientali impongono il prolungamento della sospensione, l’arbitro può ordinare alle squadre, riunite a centrocampo, “di rientrare negli spogliatoi” (comma 8). Ove la sospensione si prolunghi oltre i 45 minuti l’arbitro dichiara chiusa la gara con le tutte le conseguenze previste dalla Giustizia Sportiva (comma 9), ovvero partita persa a tavolino per la società ospitante. Nella fattispecie dei fatti del 26 dicembre, il regolamento è stato platealmente disapplicato sia dall’arbitro sia dal responsabile dell’ordine pubblico, in quanto sono stati effettuati più volte gli avvisi fonici, ma non si è mai giunti alla sospensione della partita, unico provvedimento che avrebbe impedito la prosecuzione dei cori razzisti.
E tutto ciò nonostante da settimane fossero già avvenuti numerosi episodi di cori razzisti e discriminatori contro il Napoli, e all’indomani della denuncia pubblica dell’allenatore del Napoli Carlo Ancelotti, il quale ha invocato provvedimenti più incisivi contro i cori discriminatori (“Insulti a Bergamo? Chiederemo la sospensione”, Fox Sports, 23 novembre 2018). Ebbene, durante gli anticipi Udinese- Roma e Juventus-Spal le tifoserie di Udinese, Roma e Juventus hanno risposto da par loro, intonando i soliti squallidi e incivili cori contro i napoletani, inneggianti il “Vesuvio” e il “sapone”, nell’ipocrita indifferenza di terne arbitrali e dei preposti all’ordine pubblico e all’applicazione del regolamento sportivo che prevede, come sopra ricordato la sospensione dell’incontro. La ricorrenza, continuità, diffusione territoriale (Torino, Genova sponda Sampdoria, Milano, Udine, Bergamo, Bologna, Roma, etc.) di tali cori, tutti più o meno a senso unico e rivolti contro una sola tifoseria, una sola città, una sola popolazione, rende difficile ipotizzare di poter contenere il fenomeno solo nell’ambito sportivo, ancorchè patologicamente attribuibile a frange incivili delle predette tifoserie.
D’altra parte che in Italia esista questo approccio discriminatorio per territorio è testimoniato anche da alcune note testate milanesi, sempre in evidenza per titoli evocanti razzismo a buon mercato e sensazionalismo propagandistico a sfondo razziale, come testimoniano recenti titoloni di pessimo gusto ed etica professionale (Libero, 13.11.2018, “Ci toccherà adottare un meridionale a testa”, a proposito del reddito di cittadinanza voluto dal M5S e inserito nel contratto di governo con la Lega, o ancora Libero, 29.12.2018 “Il vittimismo meridionale non si regge più”).
Si rende invece necessario comprendere, nel silenzio prolungato delle istituzioni sportive e civili, la matrice di tali episodi di inciviltà e razzismo, e se vi siano motivi storico-sociologici che costituiscono una sorta di antecedente causale di quanto accade in questi anni negli stadi del centro nord, come nel dibattito politico, in grado di spiegare e svelare se e come queste manifestazioni di inciviltà, sportiva e non, nascondano altro, ovvero espressioni di vero e proprio odio razziale nei confronti di una componente territoriale ben precisa, caratterizzata da propri usi, lingua, costumi, storicamente colonizzata in spregio al diritto internazionale da una potenza straniera sotto le paludate spoglie di una battaglia per l’unità nazionale.
Volendo affrontare la questione con qualche base attendibile dal punto di vista storico, si dovrà quindi mettere necessariamente in discussione qualche certezza storica, in realtà priva di fondamento, e rimettere al contempo in discussione quanto la vulgata risorgimentale ha sapientemente instillato in 150 anni di celebrazioni di una unità nazionale densa di retorica ma a ben vedere priva di fondamento. Una unità nazionale che,a fare attenzione, appare essere stata imposta dalla dinastia sabauda – contro la volontà dello stesso Cavour – per propri scopi di potere e arricchimento personale, con il ricorso alla forza, a due popoli quello del nord e quello del sud, che non avevano alcuna intenzione di essere uniti, e con il ricorso ad un vero e proprio genocidio della popolazione meridionale gestito dalle sfere militari piemontesi, col beneplacito del Re Vittorio Emanuele II e del Conte di Cavour, dal famigerato gen. Enrico Cialdini e i suoi sottoposti. Ma ciò che non molti sanno, soprattutto perche’ in questi 150 anni sapientemente censurato ed espunto dai libri di storia ed emerso solo in saggi storici di autori non di regime, sono i giudizi e le affermazioni di stampo razzista, spesso provenienti da riconosciuti “padri della Patria”, che costituiscono l’antecedente culturale diretto delle attuali vergognose cronache a margine di molte partite di calcio.
Il primo ad esprimersi in termini inequivocabilmente razzisti sull’unione tra nord Italia e stati del Sud fu Massimo D’Azeglio, che in un lettera privata scrisse: “La fusione con i Napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso” (cit. da Giordano Bruno Guerri, Il sangue del sud – antistoria del Risorgimento e del Brigantaggio, Mondadori). Ma D’Azeglio è solo uno degli esempi di eroi del Risorgimento che in privato dimostrava di detestare i meridionali e in un certo senso svela quali logiche e quali inconfessabili motivi hanno portato i piemontesi all’annessione del Regno di Napoli. Cavour e Farini, suo ministro degli interni nel 1860, avevano fitte corrispondenze dove il secondo scriveva al primo: “Che paesi sono mai questi, il Molise e la Terra di Lavoro (che all’epoca comprendeva le province di Caserta e Frosinone, ndr.). Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a confronto di questi caffoni, sono fior di virtù civile”. Anche nei resoconti giornalistici il Sud viene considerato una terra da annettere e civilizzare piuttosto che una regione che entrava alla pari in un nuovo stato, sicuramente più simile ad una colonia d’oltremare che ad un territorio di pari dignità. E l’emblema di questa presunta arretratezza ed inciviltà risiedeva nella vecchia capitale, vista come una terra caratterizzata da “incapacità, corruzione, inerzia, abitata da un popolo ignorante, ozioso, instabile” come scrive un parlamentare impegnato, come Costantino Nigra, nella campagna contro il brigantaggio, e addirittura un parlamentare di sinistra come Aurelio Saffi, deputato di un collegio lucano, definì il Sud “un lascito della barbarie alla civiltà del XIX secolo”. Il famoso luogotenente di Garibaldi, Nino Bixio, scriverà al Generale: “ (il Sud) è un paese che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandare in Africa a farsi civile”. Il presidente del Consiglio unitario dopo Cavour, Bettino Ricasoli, definì Napoli, fino a pochi mesi prima una delle prime e più brillanti capitali d’Europa, “una cloaca massima dove tutti gli uomini più onesti sono destinati a perire”. E i pochi meridionali che facevano parte dei primi governi unitarinon furono da meno quanto a pregiudizio antiborbonico e antimeridionale, essendo ormai di cultura piemontese e schierati con lo stato sabaudo dal quale traevano vantaggi politici e benefici economici come l’economista napoletano Scialoja e l’abbruzzese Spaventa, ed avendo ormai da anni reciso i legami con le terre d’origine.
La realtà è che la spedizione dei Mille e tutto il clima politico e sociale precedente lo sbarco di Marsala, aveva creato l’attesa di una svolta epocale e un alba di nuovi diritti, soprattutto nelle classi meno abbienti; i contadini, da sempre sfruttati dal regime baronale, credevano che con Garibaldi finalmente si sarebbe affrontato il tema della distribuzione delle terre, da sempre respinto dai grandi latifondisti. E tuttavia, nei momenti critici come in caso di carestie, la ricchezza del regno borbonico e la sua vocazione paternalistica consentiva interventi a sostegno delle popolazioni con distribuzioni di farina e pane, cosa che invece non si verificò più con i nuovi regnanti. Inoltre, le promesse di terre fatte da Garibaldi furono subito smentite dai Savoia, che cercarono il consenso dei vecchi ceti nobiliari e della nuova borghesia imprenditoriale sempre a scapito dei contadini. Ciò determinò l’emarginazione del vecchio Generale che di fatto si ritirò a Caprera dopo l’incontro diTeano proprio per il naufragare degli ideali unitari e nel vedere la guerra al brigantaggio condotta con criteri cruenti e colonialistici. Su quella che si avviava a diventare una vera e propria guerra civile il vecchio Generale ravvisava “una questione sociale, che non si poteva risolvere col ferro e col fuoco, di cui erano responsabili il Governo e la borghesia, e che in gran parte dovuta allo scioglimento dell’esercito borbonico senza che lo stesso fosse assorbito nel nuovo esercito nazionale”(cfr. E.Perino, Vita di G. Garibaldi, 1882, p.796). Già nel 1861, quando i focolai di rivolta erano diffusi in tutto il territorio dell’ex Regno di Napoli, Cavour nominò luogotenente generale per le zone annesse il principe Eugenio di Carignano, al quale veniva affidato il compito di normalizzare la situazione dell’ordine pubblico nelle zone del Sud, con una lettera dal tenore inequivoco: “Il Paese e il Parlamento reclamano a gran voce che si adotti un sistema di rigore e di fermezza che si imponga alla razza volubile e corrotta del Regno di Napoli”. Non c’è da meravigliarsi, se queste erano le disposizione governative, se la guerra al brigantaggio assunse accenti da vera e propria crociata quando morto Cavour, e salito al potere Ricasoli, di idee ancora più estreme, il compito di sovrintendere all’ordine pubblico fu dato al famigerato generale Enrico Cialdini. A costui non solo si deve la distruzione,con l’uccisione deliberata di gran parte dei suoi abitanti, compresi donne vecchi e bambini, dei due paesi simbolo di quella che a tutti gli effetti può essere chiamata “la guerra civile risorgimentale”, ovvero Pontelandolfo e Casalduni, ma si devono anche le cifre delle sue attività solo nelle province napoletane: circa 9.000 fucilazioni, oltre 7.000prigionieri, 6 paesi distrutti, oltre 13.000 prigionieri deportati, 1.400 paesi posti in stato d’assedio. Non sono numeri da lotta alla criminalità, ma numeri da guerra civile nei confronti di popolazioni colonizzate malvolentieri e tutt’altro che aderenti con liberi plebisciti (per lo più taroccati) ad un nuovo stato unitario su basi paritarie. Tra il luglio e l’agosto 1861 Abruzzo, Molise, Sannio, Ciociaria, rappresentano i luoghi più sconvolti da insorgenza, ribellioni, massacri di massa. Solo a Napoli, e solo nel mese di Luglio 1861, il gen. Cialdini aveva fatto fucilare quasi 600 oppositori, oltre a centinaia di incarcerazioni sommarie. Tra questi i briganti veri e propri erano una minima parte, per il resto vi erano soggetti che per la storiografia ufficiale viene ascritta al brigantaggio, mentre per la versione borbonica erano semplici oppositori del regime sabaudo e pubblici critici della monarchia piemontese. Tra gli arrestati figura addirittura il Cardinale Sisto Riario Sforza e il suo vicario, lasciati in carcere qualche giorno e poi portati in nave a Genova. La ribellione armata in quei giorni montava, Castellammare era tornata sotto il controllo borbonico, e la stessa Napoli era in procinto di essere assediata da truppe legittimiste borboniche. Cialdini chiese aiuto (di nuovo, dopo quanto era avvenuto durante lo sbarco di Marsala, evidentemente secondo precisi accordi presi da Cavour) al commodoro inglese che era di stanza in zona, e ben 400 soldati inglesi sbarcati dalla nave da guerra Exmouth (a proposito, ma che ci facevano nel porto di Napoli?) aiutarono i piemontesi a respingere gli assalti. Poco dopo altre sette navi britanniche giunsero con compiti di supporto e se necessario, di intervento armato, ovvero bombardare gli insorti. In quei giorni Pontelandolfo era tornata sotto controllo borbonico con l’intero paese che aveva festeggiato il ritorno delle insegne di Francesco II. Cialdini fece muovere le truppe del generale de Sonnaz da Campobasso, tra queste un drappello di una quarantina di soldati agli ordini del tenente Cesare Augusto Bracci che doveva restare nei dintorni di Pontelandolfo, in attesa dei rinforzi, senza addentrarsi nell’abitato, affatto sicuro. Invece l’incauto Bracci entrò nel paese e fu circondato da una folla di contadini armati. Decise così di fare rotta verso Casalduni, ma la strada era controllata da reparti dell’esercito borbonico sbandati, agli ordini del sergente Angelo Pica, detto “Picuozzo”, lo scontro fu inevitabile e i piemontesi (l’esercito si sarebbe potuto chiamare italiano solo se fossero stati implementati i reparti borbonici, ma non essendovi soldati napoletani, l’esercito continuava in sostanza ad essere quello piemontese) ebbero la peggio, alcuni soldati savoiardi morirono, e gli altri furono disarmati efatti prigionieri. Condotti a Casalduni, il sergente Pica voleva liberarli dopo averli interrogati, trovandoli non colpevoli delle precedenti razzie nella zona, ma la folla ne decretò la fucilazione come rappresaglia per le violenze commesse dai soldati piemontesi in quei mesi nella zona, quando le soldataglie razziavano, uccidevano, violentavano civili inermi nel tentativo di avere notizie e informazioni sulle bande di briganti della zona, che tali erano le modalità della raccolta di informazioni in questa vera e propria guerra civile. La rappresaglia decisa da Cialdini fu quella che si percepisce tra le pagine non dei manuali di storia, che non ne parlano, ma nelle pagine di saggistica specifica, di siti internet alternativi (tutti citati da G.B.GUERRI, Il sangue del Sud, cit.) e non censurate dalla retorica di Stato. I due paesi furono distrutti ed incendiati di li il 14 agosto 1861 con tutti i loro abitanti (Pontelandolfo ne contava 5.000, Casalduni 3000: oggi sono ridotti a meno della metà). Le cronache ufficiali parlano di circa 160 morti. Quelle ufficiose di almeno 900 morti ed un numero imprecisato di dispersi, tanto che il deputato milanese Giuseppe Ferrari in Parlamento si espresse così rivolto a Cavour, dopo aver fatto un viaggio nei due paesi distrutti, rievocando l’orrore visto direttamente a Casalduni: “A destra e a sinistra le mura erano vuote e annerite, dalle finestre vedevasi il cielo. Qua e là incontravasi un mucchio di sassi crollati…edifici puntellati minacciavano di cadere a ogni istante…”, e a poche anime che ancora vagavano come fantasmi si vedeva in faccia l’orrore vissuto delle razzie dei piemontesi che depredavano le case prima di incendiare e uccidere al grido di “Piastre! Piastre!” mentre cercavano gioielli e preziosi, addirittura strappandoli di dosso alle donne prima di violentare ed uccidere. “Di fronte ad un uditorio dal quale provenivano anche risate e sghignazzi, Ferrari concluse: “Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so come esprimermi” (cfr. “ Il sangue del sud”, G.B. Guerri, cit. , pag. 150, 151).
A fronte di dati difficilmente discutibili date le stesse cronache di soldati piemontesi (basta leggere i resoconti dell’eccidio redatti da Carlo Mangolfo, un bersagliere di Sondrio citato da Giordano Bruno GUERRI nel suo ultimo saggio citato sopra) ci sono ancora ricostruzioni di storici filo- piemontesi tese a minimizzare i fatti e gli eventi di quell’agosto di sangue del 1861, per lo più prive di fondamento storiografico o basate su letture di parte, oltre che infarcite di luoghi comuni giustificazionisti con la “lotta al brigantaggio”, in cui “bisogna tenere conto del contesto” e “dell’uccisione di 41 soldati del Regio Esercito” (cfr. “Il doppio massacro di Pontelandolfo”, Sergio Boschiero, in Storia in rete del 12.6.2018, pag. 62 e ss., o ancora “Borbonia felix…o infelix?”, altro articolo folcloristico e irridente, Pierluigi Romeo di Colloredo, ivi, pag. 18 e ss.).
In questa pseudo saggistica filo-piemontese , dove si giustifica tutto, si mette quasi in burla il Regno delle Due Sicilie, si legittima l’operato di Cialdini e Negri (il comandante sul campo che si occupò della rappresaglia verso i due paesi), dove si afferma che “le violenze c’erano da entrambe le parti”, e che c’era la legalità da una parte e i terribili briganti dall’altra, (con ciò da una parte negando la realtà di una vera e propria guerra civile che infiammò il decennio tra il 1860 e e il 1870, e dall’altra legittimando il concetto di rappresaglia nei confronti di inermi popolazioni civili, che costituisce a tutti gli effetti un crimine contro l’umanità come hanno dimostrato i processi instaurati solo 80 anni dopo contro i nazisti (Fosse Ardeatine, Marzabotto, etc.), stranamente si tace un aspetto. Ma alla fin fine, perché?
Perché queste trame diplomatiche, questi accordi internazionali tra Regno sabaudo, Francia, Inghilterra, questa ansia di procedere alla unificazione delle terre italiane, questi movimenti di truppe senza bandiera e senza uniforme, quando le popolazioni che si volevano unificare erano così arretrate, barbare, povere, incolte, e piene di difetti, tali da essere più africane che italiane? Per gli ideali di unita’, di Patria, di italianità? o non c’erano dietro ben definiti interessi economici che condividevano I Savoia con Francia e Inghilterra, magari paludati e occultati da grandi ideali patriottici? Ci sarebbe materia per un’altra ben più lunga riflessione, che non è il caso di infliggere al paziente lettore di queste note. Sta di fatto che spesso i più biechi interessi economici vengono veicolati nella popolazione con ben più allettanti principi e ideali, basti pensare alla dottrina Wilson e all’autodeterminazione dei popoli, che se da una parte si poneva come argine al totalitarismo, dall’altra consentiva la rivendicazione di autonomie anche violente per il crogiulo di popoli costituito dall’Europa soprattutto nell’Est, o in tempi più recenti ai processi di integrazione europea basata solo su criteri di matrice economica.
Ebbene, forse la risposta sta, come sempre, nelle analisi economiche piuttosto che negli ideali dei patrioti. Citando uno studio di Francesco Saverio Nitti, non certo uno studioso “neoborbonico”contemporaneo, G.B. GUERRI riporta dati economici inequivocabili. Nel 1860 la riserva aurea del Regno di Sardegna ammontava a 27 milioni di lire, il Granducato di Toscana aveva da parte 85, 2 milioni di lire, Romagna Marche ed Umbria 55,2, mentre le riserve auree del regno delle Due Sicilie ammontavano alla astronomica cifra di 445, 2 milioni. Ecco spiegato, forse, il motivo di tanto fervente ardore ideale nel Re sabaudo, e perché invece uomini politici più avveduti come lo stesso Cavour, a fronte delle differenze sociali e culturali, auspicavano invece soluzioni federaliste, purtroppo non considerate né da Vittorio Emanuele II per ingordigia, né da Francesco II per incapacità e miopia politica, non volendosi inimicare il Papa.
L’annessione si rivelò, quindi, un grande affare per il Piemonte, e mentre da una parte il Sud era letteralmente depredato delle sue ricchezze, delle sue riserve auree, delle sue fabbriche all’avanguardia tecnologica, dall’altra parte lo stesso Sud era ridotto a colonia di smistamento dei prodotti industriali del nord Italia, ed in più, oltre ai danni, la beffa delle cronache folkloristiche sulla presunta inferiorità civile e morale dei meridionali, quasi a giustificare il sacco che stava avvenendo. Se oltre a questo aggiungiamo che la spesa per le terre nell’ex regno di Napoli raggiungeva percentuali minime di bilancio rispetto a quanto era speso al Nord, con la complicità di una classe dirigente meridionale parassitaria, collusa e cialtrona, ben descritta da Tomasi di Lampedusa ne “Il Gattopardo”, il quadro di insieme di quella che già allora era definita “la questione meridionale” appare completo. Ce n’è abbastanza per cominciare a rivendicare, magari proprio per il 14 agosto, la data per il ricordo delle vittime del genocidio della gente meridionale che si opponeva all’invasore piemontese e che tradì tutti gli ideali di svolta sociale e di rivendicazioni libertarie che venivano evocate in quel periodo, procedendo ad una annessione colonialistica basata sul saccheggio e sul sangue dei vinti. E sarebbe l’ora che le sonnacchiose e inerti classi politiche meridionali trovassero un minimo di coraggio ed orgoglio identitario per far finalmente riscrivere una pagina di storia negletta e soffocata da una retorica di regime ormai insopportabile e appestata dal tanfo mefitico della menzogna.
Con ciò non si vuol certo difendere un regime reazionario, autoritario e sanguinoso come quello borbonico sotto il Re Ferdinando II, o dire che tutto era perfetto nel Regno delle Due Sicilie come fosse una Città del Sole, (come vuol fare apparire in modo poco storico e molto folkloristico l’articolo “Borbonia felix o …infelix?” lo storico Pierluigi Romeo di Colloredo sulle tesi neoborboniche, in Storia in rete, cit., pag. 18 e ss.). Si vuol solo dire che gli ideali di libertà, riforme economiche, diritti civili, utilizzati nella propaganda filo-sabauda e che tanti convinse a sposare la causa “unionista” si è rivelato un autentico specchietto per le allodole, e la dimostrazione di ciò si ebbe con la saldatura tra la classe dirigente piemontese e le classi abbienti soprattutto siciliane, a danno dei ceti contadini e produttivi del Sud, e ancora di più, sotto il profilo militare, con la battaglia d’Aspromonte tra piemontesi e garibaldini, dove Garibaldi fu bloccato nel proposito di spingersi fino a Roma, e arrestato per impedirgli altri colpi di mano. “Loro hanno creduto”, si potrebbe dire parafrasando il famoso romanzo di Anna Banti, a proposito dei patrioti meridionali che tra il 1848 e il 1860 pensavano di instaurare un regime di riforme e di libertà al Sud grazie ai Savoia, mentre invece consentirono ad un regime autoritario di sostituirsi ad un altro, come si vede anche nel bel film di Mario Martone.
Quindi non tanto deprecare un’unità che, come si è visto, in realtà si voleva solo per interessi economici, ma deprecare e stigmatizzare il modo attraverso il quale si è giunti a tale unità, a colpi di cannone e di stragi piuttosto che di riforme sociali e diritti civili, che consentissero di rendere omogenei due territori e due popoli tanto diversi per storia, cultura, costumi, lingua.
Partendo da tale consapevolezza, non è escluso che possa ripartire con maggiore serietà anche una più incisiva battaglia per debellare il razzismo negli stadi italiani, esemplificato dai cori discriminatori e razzisti, sospendendo le partite e chiudendo settori di stadi allorquando queste vergogne avvengano.
Gli anni tra le due guerre mondiali e dal secondo dopoguerra ad oggi, con spese in bilancio caratterizzate sempre da fondi destinati in gran parte al centro nord, ed al sud erogati con criteri emergenziali e di stampo assistenzialistico, che hanno finito per ingrassare criminalità organizzata e ceto amministrativo parassitario meridionale, costruendo generazioni di politici di respiro strettamente localistico, è fenomeno tutt’ora particolarmente evidente con l’assenza di interventi strutturali seri e credibili per la vita delle comunità locali (le vicende kafkiane del Palagiustizia di Bari, atteso da 20 anni, o dell’ILVA di Taranto, per restare in Puglia, sono emblematiche del gattopardismo nostrano e connotano da decenni la vita pubblica pugliese).
In tutto questo, non c’è risvolto della vita quotidiana nel quale questo odioso cripto-razzismo non faccia a volte biecamente capolino, come in occasione della vicenda della annunciata nascita di un distaccamento della Scuola Superiore Normale di Pisa a Napoli, d’intesa con l’Università Federico II. Il progetto, dopo aver avuto tutti gli assensi dei due Atenei coinvolti e del competente Ministero, è stata fatta naufragare dal sindaco leghista di Pisa, insorto all’idea che Pisa e Napoli potessero unirsi in un progetto formativo di alta qualità. Le dichiarazioni rese alla stampa sanno tanto della frase di Massimo D’Azeglio sui napoletani, e costituiscono una brutta pagina per l’autonomia dell’Università: “Non ci sarà nessuna Normale al Sud. La scuola d’eccellenza è e resta pisana e rimane nella nostra città. Abbiamo fatto una battaglia per Pisa e la dimostrazione che quando le amministrazioni locali insieme ai deputati eletti lavorano per il territorio i risultati arrivano”. Il sindaco leghista di Pisa, Conti, può andare fiero di sé. Pisa è salva, anche se non si sa da cosa. Forse questo oscuro funzionario di partito non sa, tutto chiuso nell’angusto spazio di piazza dei Miracoli, che l’Università di Napoli, primo Ateneo laico d’Italia, vanta ben più blasonate join-venture, come quella con la californiana Apple, che da ques’anno ha aperto con il Politecnico partenopeo la Apple Developer Academy per 400 sviluppatori, e forse nemmeno sa che la Scuola Superiore Normale a Napoli si farà lo stesso, anche senza il connubio con il rinomato Istituto pisano. Si chiamerà Scuola Superiore Normale Meridionale e siamo certi che darà nuova linfa alle energie intellettuali del nostro Sud in un’ottica nazionale ed internazionale.
Il sindaco leghista di Pisa, invece resterà, ne siamo certi (e buon per noi), solo il sindaco di Pisa.

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