Pollock. Ph. By http://www.artspecialday.com

 

di Roberto Recchimurzo.

 

Numero zero. L’inizio.

La chiesa vicina suonò nove fastidiosi rintocchi che riecheggiarono nella mia testa. Nel mio appartamento al terzo piano non regnava più il silenzio. Il mio respiro era nervoso. Il buio della stanza mi nascondeva. Con lo sguardo rivolto alla finestra osservavo la città che si srotolava sotto i miei occhi. Le mille luci della vita di sotto mi accecavano. Mi infastidivano. Ondeggiavo nella mano destra una mezza pinta di birra scura. La schiuma s’era sciolta quasi del tutto. Portai la bevanda alla bocca e feci un gran sorso. Mancavano esattamente dieci giorni alla festa che più odiavo in assoluto. Il Natale. Nella mia casa un albero semi addobbato, che avevo montato con malavoglia, lampeggiava con una intermittenza quasi ipnotica. Quel luccichio voleva convincermi che quella, in fondo, non era poi così male come festa. Ma per me non era così. Non potevo dimenticare quelle stesse giornate di molti anni prima e di quella sera in particolare. Ore oscure in cui rimasi solo al mondo. Niente parenti, niente moglie e neppure figli. Me l’avevano portata via, la mia amata, per sempre. Un bastardo ubriaco alla guida aveva lasciato un buio vuoto all’uomo che ero e che non sarò mai più. Non avrei più provato amore, il mio cuore non avrebbe mai più battuto per una donna così come aveva fatto per lei. La rabbia mi accecava ogni volta che la memoria tornava e, in questo periodo festivo tornava sempre. Puntuale come una rata di un fottuto mutuo. Fu nell’attimo dopo aver sorseggiato la mia birra che qualcuno bussò alla mia porta. Tre battute secche. Dopo di che, un ombra chiuse il fascio di luce proveniente da sotto la porta e fece scivolare qualcosa attraverso la sottile fessura. Andai subito ad aprire ma il proprietario di quell’ombra era sparito. Mi piegai a raccogliere quel biglietto e tornai nel freddo del mio appartamento.

 

Numero quarantotto. Il Circo.

Aprii gli occhi e un dolore alla testa mi diede il benvenuto. Mi sentivo rintronato. L’ultima cosa che ricordavo, con poca nitidezza, era una sola. Una lettera sgualcita, fatta scivolare sotto la porta del mio appartamento, scritta a mano in vecchio stile, con grafia d’altri tempi. Nessun francobollo, nessuna rintracciabilità. Una richiesta di incontro: un orario e un indirizzo. Ricordo di essere stato piuttosto puntuale a quel misterioso appuntamento al buio. Poi, tutto è confuso. Quando ripresi completamente i sensi, ero disteso su un lettino di quelli da caravan. Anche il resto dell’irregolare stanza gli somigliava moltissimo. Cercai di mettermi seduto e prestai attenzione ai dettagli. Di fronte a me un piccolo corridoio arredato sui lati e, poco più avanti, una porticina che aveva tutta l’aria di essere l’uscita. Una volta in piedi mi accorsi di un telefono cellulare messo ben in evidenza con un post-it colorato. Sopra c’era scritto qualcosa. Stessa grafia del messaggio. Quarantotto scritto a lettere. Presi l’aggeggio tecnologico, lo misi in tasca e mi diressi alla porta. Prima di aprirla notai che un vecchio orologio a ingranaggi scandiva rumorosamente il tempo. Segnava le venti. Questo significava che ero stato non cosciente per almeno una decina di ore e per uno come me, che aveva perso il sonno da anni, era una sorta di record. Evidentemente qualcuno aveva usato qualcosa per farmi stare buono. Forse per potermi spostare in tutta tranquillità. Ma perché? Tutta questa faccenda cominciava ad avere il sapore di un mistero. Quando aprii la piccola porticina dell’abitazione mobile ebbi la conferma che era sera. Feci i quattro gradini in modo lento cercando di riuscire a comprendere dove fossi. Sembrava un parcheggio con una serie interminabile di roulotte e case prefabbricate. Coi piedi finalmente piantati nella fangosa terra mi fermai a pensare cosa avrei fatto di lì a poco. Esaminando i fatti ero certo di poche cose. Che ero stato portato senza saperlo in un posto a me ignoto, che era sera, che erano circa le venti o giù di lì, e che faceva un freddo cane fin dentro le ossa. Avevo bisogno di risposte. Così provai a cercarle nelle altre abitazioni. Bussai alla prima, niente. Qualcosa dietro le tendine delle finestre si spostava. Di sicuro doveva esserci qualcuno oltre me, che probabilmente non era intenzionato ad aprirmi. Alla seconda, neppure. Nessuno era disponibile. Notai poco distante da me un sentiero con tue torce accese alle estremità. Il fuoco danzava nel buio. Stranamente mi sentivo osservato. I pensieri e le domande sul perché di tutto questo cominciavano a diventare un’ossessione. Quasi come un delirio. Svegliarsi altrove senza risposte, ignorato dalla gente e senza avere idea di cosa stesse accadendo. Percorsi il corridoio illuminato da altre piccole fiaccole poste a pochi centimetri da terra. Dopo la salita mi venne incontro una brezza fredda e il primo vero indizio del posto. Dinnanzi a me un grande capannone di tela a strisce bianche e rosse, seguito da un altro paio più piccoli, di quelli che usano gli artisti viaggiatori per fare spettacoli. A questo punto ne ero più che certo, era un circo. Ma non avevo alcuna notizia dell’arrivo di un circo nella mia città, quindi dovevo essere proprio altrove. Mentre ero fermo ad ammirare la struttura scarsamente illuminata, qualcosa cominciò a vibrare nella mia tasca. Era il telefono, lo presi subito fra le mani. Numero sconosciuto. Pigiai il tasto verde e lo portai all’orecchio.

Una voce modificata mi fece:

«Segui la luce della torcia e fa presto, abbiamo pochissimo tempo.» Non feci in tempo a rispondere che la conversazione cadde. Vidi in lontananza una torcia che puntava proprio verso di me. Dondolava nel buio come una lucciola nella notte. Puntando quella direzione mi diressi a passo veloce verso di essa. Poco dopo mi ritrovai all’ingresso del capannone più grande. Ma non c’era traccia di nessuno. Senza esitare entrai. Nella fioca luce dell’interno notai una grossa poltrona che mi dava le spalle. Doveva essere di colore porpora. Oltre, qualcuno stava fumando. Quando fui a circa due metri dal misterioso personaggio mi fermai. Lui cominciò a parlare mentre ruotava la seduta nella mia direzione. Adesso potevo guardarlo in faccia anche se non completamente. La penombra e il fumo di quel sigaro me lo impedivano. Sembrava un tipo esile, dalla folta chioma brizzolata, vestito di un gessato scuro a doppio petto. Abito d’altri tempi. Era sicuramente il mittente del messaggio. Avrà avuto una cinquantina d’anni, credo. Le sue mani sottili serrate sui braccioli denotavano una posizione di calma apparente. Dopo un attimo di silenzio cominciò a parlare:

«Io la conosco così come conosco l’entità delle sue imprese passate. Lei è l’unico che può aiutarmi ad affrontare i miei, diciamo, deliri. L’unico che può riuscire a darmi di nuovo la pace…»

«Avrei molte domande da farle…»

«Cominci pure dal principio e si ricordi di fare quelle giuste. Qui il tempo corre più veloce delle lancette…»

«Chi è lei? Cosa significa tutto questo? Se voleva parlarmi non potevamo farlo davanti a una birra? L’avrei offerta io…»

«Io? Per adesso le basti sapere che per lei sono solo un numero. Quarantotto per l’esattezza! E tutto questo è stato necessario per avere la massima discrezione. Nessun altro deve sapere…»

«Nessuno deve sapere cosa?»

«Nessuno deve sapere che l’ho contattata, nessuno deve sapere di noi, di questa conversazione e di quello che lei farà per me…»

«E chi le assicura che io accetti le sue richieste e condizioni?»

«Accetterà, ne sono certo! Lei è l’uomo più idoneo per il caso che le sottoporrò. Non ne esistono altri…»

«Di cosa si tratta?»

«Dei miei circa cento deliri… novantanove per l’esattezza!»

«Sono tutto orecchi…»

«Vede, vorrei che lei cancellasse definitivamente il marcio che è in essi, riportando a me quella serenità che, con la vecchiaia voglio portarmi fino alla morte.»

«Continuo a non capire…»

«Bene, le spiego velocemente. Da molti anni esiste una confraternita di cento elementi, detta appunto “I Cento”. Tutte persone capaci che, con abilità diverse, avevano lo scopo di supervisionare l’andamento di certi affari, di mantenere l’ordine e un sacco di cose che scoprirà a tempo debito. Ciò fino a quando il numero Zero, capo dell’ordine, non ha cominciato a godere dei benefici terreni di questo mondo. Da quando il seme della follia si è insinuato in lui, tutto è cambiato. L’ordine ha perso la sua originaria direzione e tutte quelle virtù adesso sono usate per loschi fini. È inutile dirle che, a questo punto, siamo tutti in pericolo, io, lei, questo fottuto posto e tutto il resto. Quello che le chiedo è di neutralizzare ogni singolo elemento, ogni singolo numero. Ovviamente sarà ben ricompensato…»

«Qualcosa non mi torna. Come posso da solo tener testa a questi dotati cento, tenuto conto che a parlarmene è proprio uno di loro?»

«Io ne son fuori da tempo e da tempo mi danno la caccia. Così come da tempo cercavo qualcuno che mi avrebbe dato una mano a ripulire dal marcio questo strano paese. Io le sarò di supporto, sempre e ovunque. La porterò nei posti giusti, le fornirò i giusti mezzi per affrontare ogni singola personalità. Poi, a lavoro finito potrà vivere una vita in ricchezza, glielo assicuro. Avrà altre informazioni a breve. Adesso si goda il buio.»

«Ehi, un momento, non ho ancora accettato il caso! E di che buio parla?»

«E’ nella sua indole l’avventura, il brivido e il mistero mio caro. Accetterà, non può fare altrimenti…»

«Quell’uomo non esiste più! Forse un tempo…»

«Quell’uomo sta per tornare…» disse quella pallida faccia nel buio. Dopo la convincente conversazione mi ritrovai al buio e persi i sensi, tutti. Qualcuno mi aveva sparato qualcosa in una gamba. Silenzioso e letale. Nella mia mente era lucido il pensiero di un uomo che voleva vendetta, di un uomo che non avrebbe avuto pace fino a quando non l’avrebbe ottenuta. Ma chi era? E di cosa si occupavano questi Cento? Questa storia non mi piaceva per niente, proprio perché non l’avevo capita. Poi dolcemente mi abbandonai al sedativo e cominciai a fluttuare soave nelle tenebre.

 

 

 

Numero ottantotto. La casa.

Una canzone degli anni cinquanta mi svegliò dolcemente. Era un pezzo che conoscevo ma del quale non ricordavo il nome del cantante. Ancora intontito cercai di realizzare dove fossi. Quando mi misi seduto, la brandina sotto di me non la smetteva di cigolare. Ero in un vecchia casa che sembrava abbandonata da anni. La polvere aveva imbiancato tutte le cose, mobili e soprammobili. Ragnatele ovunque, ratti e milote sembravano impazzite per la mia presenza. Forse era giorno. Dalla finestra di fronte a me entrava una luce che però non assomigliava a quella naturale. No, non era affatto giorno. Raggiunsi quella luce quasi barcollando, come se avessi alzato il gomito qualche ora prima. Ma era semplicemente una conseguenza dei tranquillanti. Il panorama era molto suggestivo. Potevo vedere con i miei occhi quello che doveva essere una specie di paesino. Si contavano al massimo una ventina di casette. Tanti puntini di luce in una piccola valle. All’orizzonte, invece, potevo scorgere il buio più totale e, se le mie orecchie non mi ingannavano e non erano anche loro vittima del farmaco, sentivo l’infrangersi di onde su una scogliera. Ma dove diavolo mi trovavo? D’istinto mi guardai attorno e in un angolo della stanza notai un vecchio comodino in legno marcio con sopra una specie di cofanetto semiaperto. Senza esitare completai l’apertura. Al suo interno vi erano: un biglietto per mezzi pubblici, una moneta simile ad un gettone telefonico e due carte da poker. Era una coppia di otto. In qualsiasi posizione messe avrebbero dato lo stesso risultato. Ottantotto. Quindi avrei dovuto cercare il primo dei deliri. Ma come? Continuavo a non capire niente. Probabilmente nel delirio più grande c’ero finito io. Fortunatamente ricordavo ancora le parole del mittente, e cioè che non mi avrebbe abbandonato. Controllai le mie tasche. Il telefono c’era. Bene. Mi diressi alla porta e la aprii. Dovevo essere nel punto più alto del paese perché la strada cominciava proprio con una discesa di quelle che sembrano interminabili. Cominciai a camminare cercando di ammirare il pallido paesaggio. La luna era alta nel cielo. C’era il sereno e pareva mezzanotte. Arrivai in una piazzola dove c’era un vecchio bus. Fuori servizio diceva il biglietto sul parabrezza scheggiato. Bella l’idea del biglietto per l’autobus pensai. Però trovai una di quelle macchine che si vedono nelle giostre e che vanno a gettoni. La presi, inserii la moneta e schiacciai l’acceleratore. Sul volante era disegnata una mappa con un percorso da seguire. Non indugiai e feci quella strada. Il giro non durò a lungo. La vettura si fermò e proseguii a piedi per l’altro breve tratto di strada. Trovai il numero Ottantotto alla fine di quel viottolo, sotto un lampione acceso. L’unico funzionante. Era seduto a un tavolino. Mi guardò e mi invitò a giocare una partita con lui.

«Se vinci mi toglierò la vita io stesso…»

«Se perdo?» feci.

«Ti ucciderò! Pronto?» rispose secco.

Mi sedetti mostrando calma e bussai sul mazzo di carte. Mi fu servita una doppia coppia. Avevo un otto, due re e una coppia di regine. Mi venne subito in mente che in tasca avevo delle carte. Ed esattamente altri due otto. La schiena delle carte era la stessa. Lo trovai strano. Feci finta di far cadere le carte e le scambiai con quelle. Adesso avevo un full che aveva buone probabilità di vincere.

«Carte?» fece l’uomo.

«Sto bene così, grazie. Servito!»

L’uomo scartò quasi tutte le sue carte. Ne pescò di nuove e mi invitò a farmi vedere il punteggio. Io avevo un full. Lui lanciò il suo mazzo per aria, poi prese la pistola e me la puntò in pieno viso. Restai paralizzato e cominciai a sudare freddo. Mi fissò con occhi serrati senza aggiungere una parola. Quel momento mi parve interminabile. Si alzò tenendo sempre la mira sulla mia testa, fece alcuni passi indietro e si puntò l’arma alla tempia.

«Ho perso!» fece. E si sparò.

Non ho mai capito il perché di quel gesto ma in ogni caso, meglio lui che io. C’era qualcosa che non mi convinceva in tutta questa storia. Si spense il lampione e tutto divenne nero. Scomparvi anch’io.

 

Cinque dei cinquanta. La chiesa.

Stava cominciando a succedere ogni volta che riaprivo gli occhi. Ormai non badavo neanche più a dove mi trovavo o a cosa la mia mente stesse elaborando. Rinvenivo, prendevo l’indizio e procedevo. Come un automa, come un operaio che lavora venti ore al giorno e che non ha una vita tutta sua. Questa volta qualcuno si era preso la briga di farmi un foglietto con dei numeri e delle crocette vicine. Dove c’era la crocetta significava che quel numero non era più un problema, dove non c’era che era tutto lavoro da fare. Quanto tempo avrei impiegato per finire il lavoro? Per quante notti ancora avrei dovuto cacciare? Stando al foglietto, non ero nemmeno all’inizio. Volevo finire alla svelta ciò che non avrei mai cominciato per nessuna ragione. Forse però in tutto questo c’era qualcosa di positivo. Fino a prima di incontrare il Signor Quarantotto la mia esistenza era diventata davvero vuota, avevo smesso di credere nella vita, nella gente e nel mio lavoro. Un lavoro che mi aveva portato a sacrificare il tempo con la mia famiglia e con mia moglie. Questa volta mi trovavo sul campanile di una chiesa. Potevo vedere, poco distante da me, un’enorme campana. Accanto a me nessun indizio enigmatico. Solo una pistola e una sveglia a lancette che indicava le sette e quarantacinque circa. Di lì a un quarto d’ora ci sarebbe stato un baccano infernale. Dovevo muovermi se non volevo diventare completamente sordo. Ma non ero solo. Sotto di me sentivo delle voci di uomini. Il mio bersaglio evidentemente. Senza fare rumore mi accostai al muro che era in prossimità della scala. Poco sotto c’era un tizio di guardia. Indossava una specie di cuffia che mi confermava che il campanile era funzionante. Tornai a prendere l’arma ed attesi che la campana facesse il suo lavoro. Il primo rintocco fu devastante. Nonostante avessi le mani alle orecchie, il suono penetrò la mia testa violentandola. Al secondo rintocco fui pronto. Approfittai del frastuono per agire. Scesi velocemente le scale, presi quel brutto ceffo alle spalle e lo stordii colpendolo alla nuca con il calcio della pistola. Un colpo secco. In meno di un secondo era a terra. Sarebbe stato buono per un po’, giusto il tempo che mi serviva. Proseguii come un’ombra nell’oscurità del pianerottolo. Un piano mi divideva dagli altri. In prossimità del covo dei malviventi mi resi conto che erano troppi. Quattro per l’esattezza. Mentre io ero solo e non come spesso accade in certi film dove c’è sempre qualcuno pronto a darti una mano. Nessun miracolo e nessuna comparsa, nessun eroe e nessuna controfigura. Ma proprio mentre facevo pensieri sul come avrei oltrepassato quell’infame ostacolo, una pistola pronta all’uso era puntata alla mia testa. Il brutto ceffo, il quinto, ci aveva messo poco, anzi pochissimo a rinvenire. Erano guai amari adesso. Mi fece segno di avanzare. Poco dopo ero faccia a faccia con il nemico numero uno. Strano modo di incontrarlo direi.

«E tu chi sei?» fece uno di loro.

«Uno che non dovrebbe essere qui, dico bene?»

«Ci puoi scommettere!»

«Come sei arrivato fin qui? Chi ti ha mandato?»

Non esitai. Parlai.

«Il numero Quarantotto mi ha condotto qui.»

«Chi? Tu?» domandò il capo al tizio che lo aveva accompagnato dagli altri, pensando che fosse lui il latitante numero Quarantotto.

«Fottuto figlio di puttana!» disse l’altro.

«Spione bastardo!» aggiunsero gli altri due.

Tutti presero le armi e cominciarono a fare fuoco. Mi abbassai. E insieme a me i corpi di quelli che stavano morendo. Caddero tutti. Erano riusciti a fare quello che io non sarei mai stato in grado di fare in quella circostanza. Corpi forati, sangue che aveva macchiato il tavolo, muri e vestiti, compresi i miei. Avevano fatto però il lavoro per me. Ma perché? Forse perché il numero Quarantotto era fra loro? E se era fra loro, chi mi aveva ingaggiato? Tutto si faceva più confuso mentre un altro obiettivo era stato portato a termine. Mi sollevai. Il rosso mi colava dalla faccia. Portai una mano in viso per pulirlo. Era fatta. Non so quanto avrei retto ancora ma potevo considerarmi fortunato. Ero ancora in vita, ovvio. Sentii, poi, un rumore alle mie spalle che mi spaventò. Qualcuno mi avvolse in una stretta vigorosa e mi fece respirare da un fazzoletto bagnato. Svenni.

 

Numero uno. Alta quota.

Riaprii gli occhi e mi ritrovai seduto nella corsia centrale di un aereo di tipo internazionale. Completamente solo. Sul piccolo tavolino davanti a me vi erano un bicchiere di quelli da whisky con ghiaccio, una bottiglia stappata di birra e un registratore di quelli tascabili sotto un post-it di colore rosso con su scritto: PLAY. Che idiota! pensai. Non si serve la birra con il ghiaccio. Slacciai la cintura dopo aver lanciato il ghiaccio alle mie spalle e bevuto la birra. Una volta messo in piedi provai a cercare qualcuno del personale. Ma di loro nessuna traccia. Così decisi di dirigermi dal comandante nella cabina di pilotaggio per chiedere informazioni. Ma poco dopo feci una inquietante scoperta. Venni a conoscenza che, nonostante l’aereo fosse perfettamente in volo, lo stava facendo praticamente da solo! Nessuno era alla guida del mostro volante. Ancora una volta, dovevo trovare la soluzione ad un altro delirio e il modo per uscirne vivo. Corsi al posto dov’ero seduto, presi il registratore e premetti PLAY. Ascoltai il messaggio: “Trova il numero. Sopravvivi! Hai cinque minuti a partire da adesso”. Da uno degli schermi per l’intrattenimento dei passeggeri partì il countdown. Pensai velocemente a cosa e a dove guardare. Corsi nella saletta delle hostess, nei bagni, nei bagagliai. Niente. Meno quattro minuti. Controllai le sedute, una per una. Sui tavolini, nelle tasche porta riviste, sotto le poltrone. Ci misi parecchio. L’ansia mi stava consumando ma l’adrenalina mi teneva ben sveglio. Meno due minuti. Corsi alla cabina di pilotaggio. A parte bottoni, leve e un numero infinito di lucette non trovai nulla. Ero spacciato. Uno sguardo al display. Cinquantanove secondi. Poi mi vennero in mente i numeri sopra le poltrone passeggeri. Non li avevo considerati fino a quel momento. Mi era parso di non averne visti, a parte uno. Non ricordavo però la posizione. Quarantacinque secondi. Ricontrollai le sedute. Dopo un po’ tornai alla mia. Il numero era lì. E non era una persona questa volta ma uno stupido segna posto. Il timer mi aveva fatto perdere quella lucidità necessaria alla soluzione di quell’enigma. Diciannove secondi. Era il numero Uno. Dieci secondi. Urlai il numero come in preda a un delirio. Tornai a guardare il display. Meno cinque, quattro, tre, due, uno. Buio. Tutte le luci si spensero. Poi qualcosa colpì il mio collo. Stavo per svenire ancora e quello era stato uno scherzo davvero di cattivo gusto. Mentre cadevo nelle tenebre pensai a come fosse possibile che un aereo stesse in volo da solo. Non era possibile. Qualcuno doveva pilotarlo, qualcuno ben nascosto. In ogni caso era riuscito a darmela bere. E non mi riferisco alla birra con ghiaccio. Mi addormentai.

 

Otto dei sessanta. Il cimitero.

Qualcosa che si stava muovendo sulla mia faccia mi svegliò di soprassalto. Era un topo che aveva deciso di nascondere il suo formaggio nel mio naso. Scossi la testa e me lo levai di torno. Ero per terra e faceva un freddo cane. A occhio e croce dovevo trovarmi in uno di quei mausolei che facevano negli anni cinquanta. Le date di nascita e di morte me ne davano la conferma. Erano loculi occupati. Ed io con assoluta certezza dovevo trovarmi in un cimitero. Accanto a me il solito kit fondamentale per la sopravvivenza alla missione. Un coltellino svizzero e un pezzo di tubo lungo all’incirca un metro. Nascosi il coltello in tasca e sistemai il tubo intorno ai passanti del pantalone. Uscii dal tetro monolocale e andai fuori. La luna era alta nel cielo e così grande non l’avevo mai vista prima. Quasi avevo l’illusione di poterla toccare con le mie fredde mani. L’orologio segnava certo qualche minuto dopo la mezzanotte ed era vivace un oscuro silenzio. Il corridoio di lapidi adornate di spenti e secchi fiori era stretto al mio passaggio. Qua e la delle fioche luci perpetue. Troppo deboli per illuminare anche le scritte sui marmi. Riuscii finalmente a trovare la strada principale. Una dannata nebbia stava dolcemente calando. Arrivai al cospetto di otto uomini impegnati a scavare una fossa con le vanghe. Uno di loro si accorse di me e fece cenno agli altri di guardare nella mia direzione. Erano veramente tanti e tutti con un’aria provata per la fatica.

«Eccolo è lui!» disse colui che mi aveva notato per primo.

«Sei arrivato finalmente…» fece un altro.

«Non ce la facevo più a scavare…» aggiunse l’uomo che stava con le gambe nella fossa.

«Che dici, ci entra?» domandò un altro ancora sghignazzando.

«Dico che è fatta su misura per lui!» replicò il primo.

Mi era parso di capire, dalle loro battute, che quella buca fosse per me. Non dissi una sola parola perché non volevo correre il rischio di ritrovarmi a discutere con otto uomini armati di pala. Uscito dalla fossa, l’uomo mi indicò di avvicinarmi a lui.

«Ti piace?» mi domandò.

«E’ un buco nel terreno, perché dovrebbe piacermi?» risposi.

«Questa sarà la tua nuova casa a partire da adesso!»

«Cosa?» dissi intuendo che le cose si stavano mettendo male. In realtà quella domanda mi fece distrarre e fui subito accerchiato. In due mi presero alle spalle e mi legarono le mani con una corda. Dopo mi sistemarono nella buca nel terreno. Era umido e la terra puzzava. Non potevo reagire in nessun modo. D’altronde meglio farsi seppellire vivo con una chance di uscita che farsi seppellire morto e senza chance. Avevo gli arnesi che il buon mittente mi aveva dato per la missione e potevo contare su un piccolo aiutino. Cominciarono a gettarmi terra prima sulle gambe e infine sulla faccia. Mi ritrovai con la terra dappertutto. Ne sentivo l’odore, acre, umido. Il sapore, orrendo, viscido. Finirono presto e non sentii più le loro voci blaterare. Attesi ancora qualche attimo prima di entrare in azione. La terra aveva invaso le mie narici e rischiavo di morire soffocato. Cercai di spostarmi in modo da creare una camera d’aria. Ruotai il corpo con difficoltà. Un metro di terra pesa come un sasso di grandi dimensioni. Portai le mani in direzione della tasca con il coltellino. Lo sfilai. Con la lama cominciai a tagliare le corde che mi legavano le mani. Lentamente riuscii a liberarmi. Con il pieno possesso delle mani recuperai il tubo e lo spinsi verso la superficie. Soffiai prima. Aria. Riuscivo a respirare. Quel senso di asfissia era scomparso. Prima di procedere mi chiesi perché il mittente mi avesse fornito tali utensili. Sapeva già cosa stava per accadere? E perché quelle otto persone mi stavano aspettando? Tutto sapeva di strano a parte la terra che aveva impregnato i miei vestiti. Come se stessi facendo una nuotata spostai la terra sopra di me prima in una direzione poi in un’altra, fino a trovare il giusto spazio per poter procedere oltre. Una mano uscì dalla terra come fosse il trailer di uno di quei film horror degli zombie. Solo che io non ero morto e poi rinato. Ero vivo. Ed anche piuttosto incazzato. Quando fui fuori cercai di pulirmi alla meglio, determinato a trovare quei pezzi di merda per fargliela pagare. Ma probabilmente la lezione per me non era ancora finita. La palata in testa che avevo evitato di prendere prima di essere sepolto vivo, la presi proprio in quell’istante. Del tutto vana era stata la salvezza. Poi tutto tornò nero nella mia mente.

 

Numeri sei, otto e dieci.

Il Labirinto. Un profumo d’erba umida fu la prima cosa che sentii appena sveglio. Ero disteso su di un prato. Mi misi seduto e mi guardai attorno. Cominciavo ad essere stanco di quelle situazioni. Più procedevo oltre e più non capivo. Adesso mi sembrava di essere in una specie di vivaio pieno di piante e muri erbosi. Accanto a me un fazzoletto rosso. Lo raccolsi e lo esaminai. Niente, nessun numero, nessun indizio. Notai dopo che stavo dando le spalle ad una pianta con sopra, attaccata con uno spillone, una mappa. Era un labirinto! Ero in un labirinto? Al danno seguì la beffa. Un urlo bestiale riecheggiò per tutti i corridoi di quel dannato posto. La cosa mi spaventò terribilmente. Quale accidenti di bestia si trovava in quello stesso posto con me? Decisi di muovermi e confidai nella buona sorte. L’uscita, dovevo trovarla subito. Dopo alcuni minuti di vagare mi sembrava di essere sempre al punto di partenza. Perso nei vicoli erbosi di quel dannato labirinto sudavo copiosamente alla ricerca di una via di uscita o di un chiaro segnale che ci fossi vicino. Alternavo passi a piccole corsette. Intanto quel verso disumano mi faceva trasalire ogni volta che lo sentivo. E ogni volta sembrava sempre più vicino. Dovevo trovare un modo per andarmene prima che quella cosa trovasse me. Corsi ancora per altri corridoi fino a che non incontrai tre persone. Indossavano una T-shirt con dei numeri. Sei, Otto e Dieci. Ma non sarebbero dovuti essere loro il mio bersaglio? Spaventati, cercavano di sfuggire anche loro alle grinfie di quella bestia. Erano più veloci di me. Mi seminarono presto. Ma quando girarono l’angolo le loro urla mi fecero arrestare. La bestia li aveva trovati ed erano spacciati. Dopo non sentii alcun rumore. Restai fermo in attesa di un segnale che mi indicasse quale direzione opposta prendere. Ma quando mi voltai il sangue nelle mie vene cessò di circolare. Era a qualche metro da me. La bestia mi aveva trovato. Faccia a faccia col mostro non potetti non pensare a che fine avrei fatto di lì a poco. Dilaniato da una bestia. Sbranato da una specie di toro. Un momento! Il fazzoletto rosso. E se lo attirassi in una trappola? Proprio alle mie spalle c’era una pianta dalle grandi spine. Con lentezza esposi il fazzoletto in bella vista. La bestia cominciò a battere nervosamente una zampa sul terreno. Era pronta a caricare. Io ero pronto a scattare. Partì. Uno scatto velocissimo azzerò i miei pensieri. Ad un passo da me lanciai il fazzoletto e mi buttai dall’altra parte. L’animale incornò il rosso fazzoletto e si scaraventò sulla pianta spinosa. S’era incastrato. Mentre urlava per il dolore, io continuai la mia fuga. Poco dopo trovai un arco di fiori che indicava l’uscita. L’incubo, anche stavolta, era terminato. Provato dall’emozione, svenni.

 

Numero quattro. Il garage.

Tornai in me con un foglietto fra le mani. Un messaggio: “Decimo piano, interno otto”. Ero in un garage, di fronte ad un ascensore. Premetti il pulsante per prenotarlo. Un suono confermò il suo arrivo. Entrai. Con il pollice spinsi il numero dieci. Nel corridoio che mi si parò davanti lessi i numeri degli interni. Sei, sette e otto! Trovato. La porta era socchiusa. Con calma entrai. Accesi la luce, perlustrai la stanza con attenzione. Niente. Provai in camera da letto. Al mio ingresso non mi accorsi di aver tirato uno strano filo ben nascosto sul pavimento. Ma mentre mi chiedevo cosa avessi innescato, un rumore poco simpatico mi fece trasalire. Lo riconobbi subito. Meccanico. Lo avevo sentito svariate volte. Non era un orologio da comò! Ma uno di quelli che si piazza su di una bomba. E io ero cascato nella più stupida delle trappole come un novellino. Avevo dunque poco tempo, troppo poco. Attimi. Una corsa verso la finestra davanti a me, un salto fuori sfondandola. Boom. Esplosione. Caldo. Dolore. Non ricordai a che piano fossi ma me ne resi conto poco dopo esser uscito all’aria aperta. Il mio corpo era intorpidito, dolorante. Ma nonostante tutto riuscii a trovare un appiglio sul palazzo di fronte. Per fortuna erano cose che non accadevano solo nella fantasia. Appeso con fatica al cornicione resistevo. Una cinquantina di metri mi separavano dall’asfalto. Non potevo cedere. Non in quel momento. Proprio ora che ero vicinissimo al numero di turno. Peccato però che l’esplosione aveva cancellato ogni cosa, tracce comprese. Ma qualcosa mi diceva che, in un angolo a guardare del tutto indisturbato, c’era qualcuno. Feci appello a tutte le mie forze, le poche che mi restavano. Serrai i denti. I lineamenti del mio volto si deformarono per lo sforzo. Poggiai prima i gomiti, poi, sollevandomi, le ginocchia. Ero quasi salvo. Con una gomitata sfondai la finestra che mi avrebbe salvato da quel senso di vertigini. Mi gettai a peso morto dentro l’appartamento. Fortuna che era vuoto. L’intenzione di svenire era del tutto da escludere. Dovevo correre, mettermi in salvo. Mi detti una sistemata. Zoppicante mi diressi alla porta. La aprii. Fuori scelsi di prendere l’ascensore. Direzione meno due. A nessuno sarebbe venuto in mente di cercarmi in un parcheggio. Almeno lo speravo. Non ero nelle condizioni di affrontare un eventuale duello di piombo. La discesa del monovano d’acciaio fu dolce e silenziosa. Aperte le porte un umido buio mi accolse. Con calma mi addentrai nel parcheggio. Cercai subito l’uscita più vicina. Ero stremato, intontito, nervoso. Una volta fuori potevo ammirare il fuoco al quale ero sopravvissuto. Ero libero. Libero in una città fantasma. Potevo continuare la mia ricerca, anche se avevo bisogno di riposare e di riordinare le idee. No! Pessima idea. Non ne avevo il tempo, dovevo improvvisare ancora una volta. Mentre a passo veloce mi allontanavo dal luogo dell’incidente, notai che qualcuno mi stava pedinando con mestiere. Svoltai in un vicolo buio e attesi, nascosto. Nemmeno un minuto e la sagoma di un uomo si fermò proprio davanti all’ingresso del vicolo oscuro. Frugò fra le sue tasche, tirò fuori un pacchetto di sigarette e ne portò una alla bocca. Immobile il tizio fissava l’oscurità. Voleva me, ne ero certo. Doveva essere sicuramente lui. La stessa persona che voleva farmi fuori col botto, lo stesso numero sulla mia lista. Quando finì di fumare, gettò la cicca in terra e la spense col piede nervosamente, poi se ne andò. Feci trascorrere una ventina di minuti prima di uscire dal nascondiglio. Lentamente mi affacciai per guardarmi attorno. Niente e nessuno, l’avevo scampata nel modo più improbabile. Proseguii il mio cammino verso il nulla fino a dimenticare ogni cosa.

 

I dieci settanta. La stanza degli orologi.

Proprio mentre sognavo di essere nel mio appartamento, uno strano cinguettare mi riportò alla realtà. Altro non era che un frastornante suono di un vecchio orologio a cucù. Di dimensioni esagerate direi, visto che copriva una parete. Ebbi poco tempo per realizzare dove mi trovavo questa volta. Ogni parete nella piccola stanza maleodorante era rivestita di ogni sorta di orologi. C’è n’erano di tutti i tipi, vecchi, nuovi, antichi, rotti, grandi, piccolissimi, dalle forme più grottesche, ma tutti dannatamente funzionanti, con i loro fastidiosi ticchettii e le loro stravaganti lancette. Ero stato trasportato in un ennesimo incubo e questa volta nessun cofanetto con indizi, o telefono o stralcio di aiuto. Mi pareva chiaro che avrei dovuto sbrigarmela da solo e, come al solito, non sapevo come. Notai, oltre una parete, una fessura che mi avrebbe permesso di oltrepassarla ponendomi col corpo in posizione laterale. Un lungo, stretto e poco illuminato corridoio adornato come la precedente stanza. Lo percorsi fino alla fine, dove c’era una porta, o così avrei dovuto chiamarla. Era fatta di legno chiaro con degli ingranaggi che partivano dal basso fino ad arrivare in cima. Sopra la porta un orologio antico, con numeri romani e lancette di ferro scuro battuto. Per aprire la porta però avrei dovuto far funzionare il meccanismo. Si, ma come? Cosa diavolo ci facevo in questa specie di delirio del tempo? Feci appello alla calma e al sangue freddo. Tornai al punto di partenza e guardai con attenzione tutto. Notai che tutti gli orologi erano fermi, tranne uno in basso nel corridoio. Lo staccai dal muro e lo girai. Un ingranaggio della grandezza della mia mano, fissato con dello scotch vi era stato posto per esser poi trovato. Raggiunsi la porta e cercai l’esatta locazione del pezzo mancante. Non bastava. Notai che ne mancava un altro ancora, decisamente più grande. Ricontrollai tutti gli orologi daccapo. Tutti erano in funzione e tutti segnavano lo stesso orario. Il panico da soluzione era vicino a me. Lo sentivo con il suo fiato sul collo. Mi sedetti a terra a pensare. Mi venne in mente di controllare ancora una volta tutti gli orologi sul loro retro, tutti i pendoli nel loro interno. E così cominciai dalla stanzetta dove l’incubo era iniziato. Dopo circa un paio d’ore la soluzione mi venne presentata proprio sotto il naso. Non avrei dovuto cercare un altro ingranaggio sul retro di un orologio ma un orologio stesso. Quello che i capitò sottomano aveva proprio la forma di quello che cercavo. Fra tutti quei modelli non l’avevo visto. I miei occhi erano stati ingannati. Ma le mie mani no. Portai il pezzo mancante alla porta. Lo inserii nel suo spazio e il meccanismo, dal basso, cominciò a funzionare. Dopo qualche attimo la porta si aprì. Potevo intravvedere una scala a chiocciola. Scesi al buio, piano, tenendomi al passamano. Giunto alla fine degli scalini toccai la parete in cerca di un interruttore. Lo trovai facilmente. Stava esattamente dove devono stare gli interruttori. Lo pigiai. Quando feci luce mi accorsi di trovarmi in una grande stanza ovale. Sembrava essere una specie di parco giochi in disuso con un paio di tavoli sporchi e una dozzina di sedie malmesse. Una televisione dei primi modelli, forse in bianco e nero, e i muri completamente pasticciati. Alcuni neon erano spenti. Non tutti però. Quei pochi funzionanti davano abbastanza luce dove dovevano. Ma poi, portando lo sguardo in fondo alla stanza, i miei occhi non potevano credere a quello che stavano vedendo. Mio Dio! C’erano dei ragazzini. Nascosti in un parco giochi sotterraneo e abbandonato. Sporchi e puzzolenti, spaventati dal mio arrivo. Il più grande avrà avuto circa dodici anni. Tutti etichettati con un numero che andava dal Settanta al Settantanove. Tutti i numeri Settanta dunque. Tutti lì in un colpo solo! Ma cosa diavolo ci facevano degli adolescenti in un posto come quello? Quali erano le loro colpe, i loro crimini? Un bambino non dovrebbe, ma soprattutto non potrebbe avere delle colpe. In nessun caso. Mi avvicinai a loro parlando in modo calmo, sperando di non spaventarli oltremodo. La ragazzina più grande cominciò a fissarmi e si mise in piedi. Ma quello che potetti vedere sul suo volto non era disperazione o paura, anzi, mi fissò come un cane punta il malcapitato straniero che passeggia nella sua proprietà. Evidentemente erano abituati ad altro tipo di visite e la mia non era contemplata. Con un ghigno poco affidabile fece cenno agli altri di alzarsi e quando furono tutti in fila cominciarono a camminare lentamente verso di me. Erano ragazzi certo, ma erano dieci e tutti sicuramente non sarebbero venuti a manifestare affetto, visto che cominciavano a raccogliere da terra bastoni e ferraglie. Tutto questo somigliava davvero a una specie di incubo e, prima che ne diventassi vittima, avrei dovuto inventarmi qualcosa. Di corsa! Analizzai velocemente i fatti guardandomi attorno. L’unica via d’uscita sembrava essere quella alle spalle del ragazzone, il più in carne del gruppo. Dalla sua maglia comprendevo bene che era il numero Settantotto, ed in mano aveva già il ferro più grosso. La stanza era enorme ed avrei potuto correre in varie direzioni prima di esser preso a bastonate, ma questa non pareva essere una soluzione costruttiva. Probabilmente avrei dovuto usare le mani. Ma come potevo picchiare dei ragazzi? O loro o me? Sì, forse. Ma avrei preferito trovare un altro modo. Cominciai a indietreggiare lentamente verso l’altra parte del padiglione. Avevo bisogno di tempo per pensare. Ma così di colpo, mentre la mia mente era impegnata, gli altri nove cominciarono a incalzare una corsa, con tanto di urla verso di me. Avevo buone probabilità di essere spacciato. Feci un rapido calcolo. Dei giochi, muri pasticciati, una televisione. Bingo! Mi venne in mente un’idea. Tentai. Canticchiai una canzoncina di un vecchio cartone animato: Mago Malù. Di scatto la capo banda si fermò rapita dal mio strimpellare. Si fermarono anche gli altri. Continuai a cantare. Aveva funzionato. Alzai la voce permettendo a tutti di ascoltarmi meglio. Anche il ciccione venne verso di me. Tutti avevano dimenticato le armi che avevano tra le mani e vennero a sedersi proprio davanti a me. Dovevano conoscere quel cartone e doveva anche piacere. A me piaceva molto. Era uno dei pochi che vedevo volentieri quando ero ragazzino. Ho sempre pensato che la televisione fosse una perdita di tempo ma, in quella circostanza, una buona parola per l’inventore l’avrei spesa volentieri. I ragazzini cantarono insieme a me. Avevo smesso di sudare e stavo cominciando a sentirmi a mio agio. Ma non c’era tempo per questo. Dovevo andare via di là. Con passo felino mi portai di spalle all’uscita. La sigla stava finendo, così rallentai le parole mentre pensavo alla mia fuga. E feci esattamente quello che avrei dovuto fare. Scappai! Imboccai la strada per la salvezza, aprii la porta e la richiusi alle mie spalle. Era fatta anche questa volta. E sapevo che di lì a poco qualcuno mi avrebbe addormentato. Mi intorpidii, caddi. Buio.

 

Numero novantanove. La metro.

Questa volta mi trovavo alla fermata di una metro. Sottoterra. Lo spettacolo non era molto diverso da quello che avevo avuto modo di vedere in questa serie di incubi. Manifesti illuminati da neon intermittenti, panchine distrutte, cestini incendiati e rotaie arrugginite. D’un tratto un vento metallico provenne dal tunnel, volarono vecchi giornali e buste di plastica. Il treno stava arrivando a tutta velocità. Lo stridulo dei freni massacrò i miei timpani. Portai le mani a coprirli. Nessuna luce, nessun conducente. Si aprirono le porte. Entrai. Contemporaneamente a me, nell’altra carrozza, entra una donna sbucata dal nulla. La intravvidi dalla porta che divide i vagoni. Mi guardò. La fissai. Gli occhi si scambiarono curiosità. Poi sparì nella sua carrozza. Cominciai a seguirla. Pensai che l’esposizione a troppi sedativi mi stava provocando una serie di allucinazioni. Ma quella non lo era affatto. La donna sedeva indisturbata alla fine del vagone. Mi avvicinai e mi sedetti di fronte. Mi squadrò come solo una donna può fare. Una radiografia senza aver prenotato o pagato il ticket. Le feci fare l’esame con calma cercando di non fissarla negli occhi. Mi guardai attorno e mi concentrai in particolare sulle pubblicità che un display mandava in sequenza. Prima la vacanza perfetta. Una crociera per due innamorati, due signori anziani che si sono amati da una vita si stringevano per mano e salpavano alla volta dell’oceano pacifico verso i paesi caldi. Poi il cioccolato per eccellenza, il vero noir del cacao e poi ancora lo spot di un reality show per decerebrati. Mi interessai a quegli spot permettendo così alla tipa di fare le sue cose con calma. Ripresi il controllo del mio sguardo e lo puntai verso di lei. Adesso mi sembrava triste. Piangeva. Stava guardando una vecchia foto che sulla schiena riportava un numero scritto a penna. Novantanove. Forse qualcuno che aveva amato e che poi aveva perso, oppure qualcuno con il quale aveva fatto i conti. Mi alzai per avere una migliore panoramica della situazione. E capii con rammarico che la persona in foto era un bambino. Forse era il suo. Forse l’aveva perduto. Feci finta di frugare nelle mie tasche. Niente. Nessun indizio, nessun diversivo. Mi rimisi comodo a sedere. Lei parlò con un accento tedesco e con la voce rotta:

«Quando perdi qualcuno che ami è impossibile riuscire ad andare avanti. Difficile reagire e tornare alla vita…»

Annuii col capo. Purtroppo sapevo di cosa stesse parlando e capivo con lucidità a quale dolore si riferisse. Avevo ancora il cuore aperto in più punti. Distrutto dal dolore, dal pianto e dal suo battere. Quello stronzo. Perché batteva ancora? Avrei voluto che si spegnesse in più circostanze ma era più tosto di me. Lui preferiva vivere e se ne sbatteva dei miei pensieri. Del mio volere. La mia nuova amichetta continuò intanto a incalzare una conversazione.

«Ho sperato varie volte che la morte bussasse alla mia porta e che mi riportasse da lui, piccolo cucciolo mio, amore della mamma…»

«Ehm, signora… comprendo il suo dolore ma io credo che lei debba reagire a tutto questo. La vita è una sola e dobbiamo andare avanti…»

Scosse forte il capo. Le lacrime lasciarono il suo viso e si posarono altrove. Cominciò a frugare nella borsetta. La sua mano impugnò qualcosa. Era una pistola e me l’aveva puntata contro. Si alzò di scatto lasciando cadere borsa e fotografia.

«Se è vero che bisogna reagire, perché tu non lo fai? Vieni a farmi la predica senza nemmeno sapere cosa si deve o cosa non si deve fare? Reagisci maledetto figlio di puttana!»

La canna del ferro mirava alla mia spalla destra. Premette il grilletto. Ma non fu una pallottola ad esplodere ma solo un altro di quei tranquillanti. Pensai alle sue parole e a quanto fossero vere. Scivolai dalla sedia fino in terra. La vidi allontanarsi. Poi la luce nel vagone se ne andò ed io con essa.

 

I venti numeri primi. Luna Park.

L’aria era fredda e pesante come un macigno sui polmoni. La polvere mi graffiava la gola ad ogni respiro. Il buio era fitto e mi sentivo. Allungai le mani intorno a me. Trovai qualcosa. Una torcia. Esattamente quello che ci voleva. L’accesi, ma si illuminò dopo vari tentativi. Ora potevo vedere e potevo capire dove mi trovavo. Sembrava essere un vecchio luna park. Una brezza gelida si sollevò nella mia direzione. Che freddo bastardo. Passeggiai a passo lento fino ad arrivare davanti a quello che sembrava essere l’ingresso della ruota panoramica. Un bigliettino era appiccicato al lercio vetro della biglietteria. Mi convinsi anche che quella lattina di birra olandese oltre la vetrata non fosse mai esistita. Non c’era tempo di bere e nemmeno mi andava. Troppo freddo. Sul biglietto:

Hai paura del tunnel dell’orrore?

Era un invito, niente di più. Non volevo fare tardi, così mi misi alla ricerca di quell’attrazione. Ma solo con la luce di una torcia ci avrei messo probabilmente una nottata intera. Vagai per quei viottoli di pietra per un po’. Poi la luce della torcia mi disse addio. Ero di nuovo al buio. Vano fu ogni tentativo di rianimare quel pezzo di plastica che misi in tasca. Un nervoso pensiero partì dalla mia bocca. Imprecai un po’ di illuminazione. Qualcuno ascoltò le mie preghiere. Quel posto prese vita come se non fosse mai stato spento. Le attrazioni cominciarono a muoversi, a brillare e a ruotare. Voci registrate e musiche assediarono i miei timpani. Fu facile individuare il tunnel dell’orrore. Si presentava bene. Una bocca dalle grandi zanne era l’ingresso. Tutt’intorno, mostri di ogni genere disegnati sulle pareti e alcuni manichini zombie allungavano meccanicamente le braccia per spaventare la clientela. Me, per l’esattezza. Ma non potevo avere paura di quelli che erano già morti. A me preoccupavano i vivi, gli unici capaci di farti venire i brividi. Vedi come esempio il guaio in cui mi avevano cacciato. Dovevo accomodarmi su di una sediolina di quelle scomode ed attendere che il tour spettrale avesse avuto inizio. Mi sistemai, meglio che potetti, fra due poltroncine. Una risata satanica partì e la sedia cominciò ad attraversare la bocca che mi avrebbe inghiottito. La gita cominciò subito con dei pipistrelli di gomma che sbucarono da entrambi i lati, poi la luce cambiò di intensità e divenne verde. Due streghe amalgamavano col loro bastone qualcosa in un ribollente calderone. Il fumo sembrava vero e, a dirla tutta, anche le vecchie megere. La sensazione che provavo era proprio quella di essere osservato da distanza ravvicinata. Oddio! E se gli automi del tunnel erano persone vere? Era un pensiero che mi accompagnava fin da quando ero un ragazzino. Mio padre mi portava spesso alle giostre e insisteva parecchio a farmi fare un giro in quelle attrazioni paurose. Lui mi diceva sempre: conosci le tue paure, guardale in faccia e impara a ridere di loro. Parole che non ho mai scordato ma che allora non mi andava di comprendere. E adesso ero qui, in quella situazione che anni fa mi sembrava paurosa perché pensavo che i mostri fossero in realtà vivi e veri. Aveva ragione il mio vecchio. L’unico modo per sconfiggere i mostri è conoscerli. Ero adesso avvolto tra le ossa di vecchi scheletri che cercavano invano di toccarmi. Troppo lontani, troppo stupidi. Le luci e i fumi cambiavano di intensità e colore, mentre le voci di fantasmi e le urla di vittime spaventate erano le stesse. Attraversai un’orda di vampiri, di lupi mannari, di uomini pesce e di alieni dalla testa enorme. Poi, improvvisamente la sedia si fermò di scatto. I manichini si bloccarono e la musica cessò. S’era incagliato tutto il meccanismo o c’era qualcuno dietro tutto questo? Ma certo che c’era! La luce andò via. Ripresi la torcia cercando di mantenere i nervi saldi. Solite botte e riprese a funzionare. Scesi dalla seduta e proseguii a piedi. Urtai contro qualcosa. Cadde la torcia dalle mie mani portandosi distante da me. Il suo fascio di luce però mi indicò l’obiettivo. Qualcuno era lì davanti a me. Solo, nel buio più fitto che avrei mai immaginato, tentai la sorte. Mi gettai contro di lui e lo accompagnai a terra. Usai i miei pugni per stordirlo. Dopo una serie da quattro mi calmai. Nessuna reazione, nessun segno di vita. Ripresi la torcia e la portai in direzione del tipo che avevo pestato. Uno stupido manichino e un messaggio legato al collo con un elastico: ..nelle quantità di mostri esatte hai ricordato ciò che un tempo ti faceva davvero paura. Ora sei pronto più di prima poiché hai sofferto e sei migliore di tutti noi…

Non capii nulla di quel messaggio e quindi mi presi un attimo per riflettere. Ancora numeri. Sette pipistrelli, undici scheletri, due streghe e altro ancora. Avevo capito. Ero di fronte ad un’altra sequenza di numeri. In questo caso erano numeri primi, o meglio, una loro parte. Sì, ma che senso aveva tutto questo? E quel messaggio? Dei passi alle mie spalle mi fecero trasalire. Puntai la torcia in tutte le direzioni. Nessuno in vista. Un sottile rumore mi colpì. L’ennesimo sedativo. Avevo aggiunto un altro pezzo ad un puzzle ancora incompleto. Cos’altro mi sarebbe capitato? Con quali altri numeri avrei dovuto confrontarmi e con quali pericoli? Non so se ero pronto o no a tutto questo, ma una cosa era certa. Chi mi aveva ingaggiato sapeva di me. Mi conosceva benissimo, quindi non poteva essere l’ultimo arrivato. Bisognava cercare indietro nel tempo. Forse qualcuno con cui avevo un conto in sospeso. Ma chi? La luce nera rapì la mia ragione, i miei pensieri. Precipitai nell’ombra.

 

Nove, sette di trenta e quattro di Novanta.

L’ospedale Psichiatrico.

Scossi il capo nel tentativo di svegliarmi. Un intenso odore di benzina riempiva i miei polmoni. Ce l’avevo dappertutto. Sui vestiti, sulla pelle. Nella bocca. Guardai intorno a me. Ero in una stanza priva di finestre. A far luce solo delle lampade ad olio. Guai se fossero state rovesciate. Una parte del pavimento era bagnata e facilmente infiammabile. Sentivo una voce dentro di me che era pronta a farsi strada dallo stomaco fino alla bocca. Gridai. L’urlo rimbalzò sulla mia testa come fosse stato un martello su di un chiodo. Cercai di liberarmi con tutte le mie forze. Riuscii a sfilare una mano dalla stretta morsa dei lacci. Mi liberai e corsi verso l’uscita. Alla mia destra un lungo corridoio. Alla mia sinistra un’uscita di emergenza bloccata da catene e lucchetto. Non avevo scelta. Avevo bisogno di vestiti puliti ed anche di una. Cercai nelle altre stanze. Trovai dei pantaloni e dei camici da sala operatoria. Verdi. Sul tesserino applicato alla tasca del camice lessi il nome del dottore e compresi dove mi trovavo. Era un Ospedale Psichiatrico. Poi, il mio udito fu rapito da un rumore di porta sbattuta con violenza. Proveniva dal corridoio. Questo voleva dire che c’era qualcun altro in quel posto e sapere di non essere solo non mi consolava affatto. I miei sensi cominciarono a vibrare come presi in preda al panico. Ero ovviamente in allarme. Andai fuori dalla stanza. Notai che in prossimità della porta c’era dello sporco per terra che prima non c’era. Spalancai la porta con un calcio. Dell’aria fredda mossa dal vento colpì il mio corpo. La finestra era aperta. Le tende sventolavano libere. Mi affacciai e vidi una figura allontanarsi verso un altro reparto. Decisi di seguirlo. Quella era proprio una notte fredda e buia. Una tempesta era stata preannunciata da alcuni lampi che rischiarivano la mia vista e mi consentivano di procedere nel buio.

Arrivai al reparto di psichiatria. Entrai. Le luci nei corridoi sembravano impazzite. Lampeggiavano a ritmo frenetico quasi fosse una discoteca. Potevo seguire i miei movimenti che sembravano robotizzati sotto quello scherzo della luce. Seguii le tracce di sporco. Sembrava sangue, ma non lo era. Mi abbassai a esaminarlo. Lo toccai. Era terra. Terra mista a qualcos’altro. Concime forse. Il cattivo odore me ne dava conferma, non era terra, era merda! Continuai a seguire le tracce fino ad arrivare in una grande sala di attesa. Anzi no, sembrava essere una sala di ricreazione per i pazienti. L’illuminazione improvvisamente tornò a funzionare. Ero al centro della stanza e in pochissimo tempo alcune figure cominciarono a disporsi in cerchio attorno a me. Indossavano tutti dei camici da dottori ma non lo erano affatto. Da come erano messi non sembravano persone normali. Trasandati e male odoranti. Sporchi e tutti con qualcosa che stringevano tra le mani. Sul loro petto un numero. Feci un giro veloce con lo sguardo. Lessi svariati numeri. C’erano dei novanta e dei trenta. Ma non riuscivo a leggere meglio perché incalzavano un passo veloce verso me e non volevo rischiare di distrarmi troppo. In tutto credo che fossero una quindicina di persone, tra uomini e donne. O forse di più. Solo un numero riuscii a leggere con attenzione. Era il numero Nove. Doveva essere lui il capo. Passò davanti a tutti e venne verso di me. Sembrava proprio un dottore. Il suo camice però lo tradiva. Era più grande di lui di almeno un paio di taglie. Ed anche il suo cartellino diceva il contrario. Mi si avvicinò armato di bisturi e blaterò qualcosa sputacchiando.

«Guarda cosa ci hai fatto, maledetto!»

«A voi? Fatto cosa? Io nemmeno vi conosco?»

«Hai dimenticato la nostra esistenza perché ti sei chiuso in te stesso, razza di bastardo!»

«Io…» cercai di controbattere.

«Hai cancellato i ricordi belli della tua esistenza e le tue vere amicizie. Quelle che ti sono state accanto nei momenti più importanti della tua vita! Riprendi il controllo brutto figlio di puttana!»

«Ma voi chi siete? Cosa volete da me?»

«Vogliamo tornare a vivere! Non vogliamo più essere dei mostri del tuo passato, ma compagni come lo eravamo un tempo. Quando si era felici, quando si era vivi. So bene cosa è accaduto, ma la vita continua. Ognuno di noi ha sofferto in passato e soffre ancora. E c’è chi soffre per questo tuo modo di vivere. Che tu sia maledetto!»

Alzò il bisturi in aria e incitò i suoi amici mostri a prendermi. Mi sollevarono come fossi un pezzo di carne pronta per essere lavorata. Mi portarono in una specie di sala operatoria. Mi legarono ancora. Evidentemente da quelle parti ce l’avevano per vizio. Poi il numero Nove si affacciò ai miei occhi e mi disse:

«Questo ti farà bene!» mi fece mostrandomi una siringa pronta per l’uso e continuò «…con la speranza che al tuo risveglio ogni incubo si trasformi in qualcos’altro…»

«Che cazzo mi stai facendo razza

di pazzoide?» esplosi in una rabbia tenuta a bada per molto tempo. Mi dimenai ma questa volta non riuscii a liberarmi. Sentivo intorno a me la presenza di quelle persone condannate. Quella gente era disperata per causa mia? Cosa potevo aver fatto loro, non li conoscevo nemmeno? Tutto era confuso. Dettaglio noto all’incubo che stavo vivendo da qualche notte. Pensai di essere altrove. In un pub a bere. Chiamo il cameriere, ordino, e lui dopo un po’ mi porta una pinta e ci versa una birra dalla bottiglia. La schiuma cresce, le bollicine esplodono sul fondo del bicchiere. La magia è servita. Un momento ancora prima di assaporarla. Il bianco spumoso perde di spessore, la bevanda prende il suo colore. È fredda al punto giusto. La sorseggio. Buio.

 

Numero novantotto. La caldaia.

Mi svegliai. Ero così sudato che la schiena si era incollata alle lenzuola in cui ero avvolto. Ero completamente nudo. Mi asciugai con la parte pulita del lenzuolo e mi misi in piedi. Trovai dei vestiti puliti, un indizio e una birra. Il mio mandante doveva conoscermi bene. Sapeva come tenermi amico. Bevvi la birra. Era una doppio malto, non troppo scura. Piacevole. Portai lo sguardo sul biglietto e lessi. Novantotto. Indossai i jeans, la camicia a quadrettini e le scarpe. Tutto mi andava alla perfezione. Mi avvicinai alla porta. Era di ferro. Pesante. Provai ad aprirla. Era bloccata. Mi guardai intorno e trovai in un angolo della stanza un piede di porco. Feci leva. Molta leva. I muscoli si gonfiarono al massimo e alla fine la porta cedette. Si spalancò. Oltre, una persona. Un uomo vestito di stracci insanguinati. Si leggeva il suo numero. Novantotto. Mi puntò un coltello contro. Voleva minacciarmi e spaventarmi. Dietro di lui una rovente bocca di una vecchia caldaia. Entrai. Il caldo era soffocante. Non riuscivo a capire come quell’uomo riuscisse a respirare lì dentro. Non dissi niente e mi avvicinai lentamente a lui. Armeggiava con quell’arma cercando di spaventarmi. Ma non poteva sapere che ormai ne avevo viste abbastanza nelle ultime ore. Quindi non poteva spaventarmi con un semplice coltellino. Ci voleva ben altro.

«Tu sai cos’è un incubo?» mi domandò quello che sembrava un uomo disperato. E io risposi.

«Qualcosa che ti inquieta…»

«Esatto! E sai cosa mi inquieta?

«Cosa? Qual è il tuo problema amico?»

«Amico? Sai cosa vuol dire essere amico di qualcuno?»

«Ovviamente…»

«Cazzate! Sono anni che pensi ai cazzi tuoi rinchiuso in quella prigione di ricordi…»

«Ma tu come diavolo fai a…»

«…a bere birra e a non fare un cazzo, se non disperarti? Ma adesso basta sai? È arrivato il momento di fare qualcosa e la farò io al posto tuo!»

Prese il coltello lo gettò nelle fiamme, poi si avvicinò e mi sussurrò qualcosa all’orecchio.

«Ho reagisci o muori. Io ho fatto la mia scelta, tu fai la tua, prima che sia troppo tardi…»

Mi colpì rabbiosamente. Sinceramente non me lo sarei mai aspettato da un mingherlino come quello. Un pugno in pieno viso ben assestato. Fu un dolore piacevole. Alzai lo sguardo un attimo prima che il tizio si gettasse nella caldaia. Rimasi paralizzato dallo spavento. Urlò qualcosa prima di consumarsi fra i carboni ardenti.

«Prima che sia troppo tardiiiii….»

Non ressi allo spettacolo. Diedi di stomaco. Mi inginocchiai perché improvvisamente mi sentivo debole. Pensai a quel gesto poco prima di svenire.

 

Numeri ottantuno e diciotto. La miniera.

Ero altrove. Faceva caldo ma fortunatamente ero su una di quelle spiagge con la sabbia bianca e il mare smeraldo. L’acqua era limpidissima e calma come una tavola. Potevo ammirare i pesci colorati vicino alle mie scarpe. Un momento! Sono in acqua con le scarpe? Mi svegliai con il viso bagnato. Sopra di me, in direzione della mia faccia, delle gocce nate dalla roccia mi colpivano sorde. Senza rumore o dolore. Mi asciugai e cercai di comprendere dove fossi capitato. Gli indizi scarseggiavano da un bel po’. Cominciai a inoltrarmi in quelli che sembravano tunnel di una miniera. Le lampadine accese parevano tante luci perpetue. Fioche al punto da risultare inutili. Proseguii. Nonostante tutti gli sforzi e i continui spostamenti mi sentivo in gran forma. Prestai attenzione a non inciampare su quel pavimento instabile. Mi aiutai con le mani sulle viscide pareti. Dopo una bella camminata cominciai a udire delle voci che si avvicinavano sempre più, passo dopo passo. Erano in due.

«Dobbiamo ammazzarlo quel bastardo!»

«Sì, gli caverò gli occhi dalla testa con le mie dita e poi lo farò a pezzi per quello che ha fatto!»

«Si merita una fine di merda quel cazzone…»

«Lasciare tutto sospeso per un solo morto. La gente muore di continuo. Tutti dobbiamo morire prima o poi…»

«Parole sante fratello! Amen…»

«…e poi ci si deve convincere che la vita continua. A volte è dura, ma cazzo se continua. E invece lui che ha fatto?»

«Se n’è sbattuto di tutto e di tutti! Ha abbandonato la vita e con lei i suoi cari. Figlio di puttana la

pagherà…»

«Sì che la pagherà…»

Parlavano di me. Della morte di mia moglie. Della vita che deve continuare. Ma cosa diavolo ne sapevano loro del dolore, della sofferenza che ti assale quando perdi una parte della tua vita? No. Non potevano capire. Una rabbia mi investì. Uscii allo scoperto intenzionato a fare un discorsetto con quei due pezzi di merda. Mi videro e impugnarono delle bottiglie che ruppero a una estremità. I miei pugni arrivarono per primi. Mandai a terra il primo e continuai con il secondo. Giocai con la sua faccia e saziai la mia ira. Tornai dal primo che si stava per rimettere in piedi. Con un calcio gli feci cambiare idea. Lo percossi come una batteria. Poi lo misi vicino all’altro. I fratellini erano insieme. Presi le mie mani, una per collo, e cominciai a stringere. La mia morsa li stava soffocando. L’arma che avevano in mano cadde frantumandosi in mille pezzi. Il loro sguardo sbiadì. Se ne andarono senza fare troppe storie. Dolcemente. Non capivo invece cosa diavolo stesse capitando a me. Ero diventato un assassino? Perché stavo uccidendo quelle persone? Non ebbi il tempo di pormi un’altra domanda. Venne il sonno. Venne il buio. Mi abbandonai. Tornai sulla spiaggia. Da lontano intravvidi una donna molto bella. Bruna, lunghi capelli mossi dalla brezza del mare, mulatta. Era mia moglie. Non l’avevo più vista se non in fotografia. Mi sorrise e mi offrì da bere in un bar che improvvisamente comparve alle mie spalle. Prendemmo la nostra solita birra. La rossa. Lei non parlò e non lo feci neppure io. Sapevo che stavo sognando e non volevo rovinare niente. Mi gustai la sua bellezza e mi persi nei suoi verdi occhi.

 

 

 

Tre di ottanta e sei altri numeri. Il molo.

Nove uomini mi percossero senza però farmi troppo male. Fu così che mi svegliai, con le mazzate. Mi legarono le mani ai polsi e misero poi un blocco di cemento armato legato alle mie caviglie. Mi gettarono in acqua. Il gelo mi fece schizzare gli occhi dalle orbite e mi fece dimenticare il dolore. Quando il masso toccò il fondo, ero sotto il livello del mare di circa tre, o forse quattro metri. Davanti a me uno sconosciuto aveva fatto la stessa fine. La sua cravatta ondeggiava e il suo viso pallido mi fissava con occhi spenti. Povero cristo! Pensai. Alla cintura aveva una pistola. Approfittai ancora dei servigi della sorte. Mi avvicinai e la presi. L’aria cominciava a mancare, il corpo a intorpidirsi tutto. Sparai alla corda, ma la mancai. Sparai ancora un paio di volte e la corda si spezzò. Salutai colui che volle intrattenersi da quelle parti e lo ringraziai. Fuori dall’acqua presi un bel respiro. I nove loschi individui si stavano allontanando lentamente a piedi. Senza dare nell’occhio risalii il molo e puntai l’arma contro un carrello con delle bombole. Loro erano proprio in quella direzione. Scaricai tutto il caricatore su quel dannato carrello che esplose facendo saltare in acqua tutti e nove gli idioti. Mi avevano fatto davvero incazzare. Ma non erano affatto morti. Maledetta sfortuna! Adesso anche loro parevano assai incazzati. Saltai su una imbarcazione. Accesi il motore e partii. Anche gli altri fecero lo stesso. Cominciò un inseguimento nelle gelide acque di quel porto. Fortunatamente avevo scelto una barca con un buon motore. Loro non riuscivano a starmi dietro. Potevo sentire l’odore delle loro cattive intenzioni anche a distanza. Se mi avessero preso mi avrebbero fatto una festa. E, invece di legarmi a un blocco di cemento, questa volta mi ci avrebbero infilato dentro. Ne ero certo. Ma come succede nella realtà e mai nei film qualcosa andò storto. Finì il carburante e ben presto mi avrebbero raggiunto e preso. Frugai fra le cose della barca. Trovai un fucile da sommozzatore, delle bombole e una maschera. Tentai. Indossai la divisa da sub e mi gettai in acqua. Preferii sopportare il gelo al cemento. Riuscii a fare tutto senza che nessuno mi vide. Li avevo lasciati abbastanza indietro e, nell’ombra della notte, la mia imbarcazione non si vedeva da lontano. Sott’acqua riuscivo a sentire il frastuono dei loro motori. Ero sotto di loro con un quarto d’ora di autonomia di ossigeno. Dovevo pensare alla svelta qualcosa. Dovevo scappare o dovevo trovare un modo per farli fuori? Sentii infine le loro imprecazioni riguardo alla mia scomparsa. Tornarono indietro mentre io scelsi di scappare. Erano in troppi e non ero armato. Magari avrei potuto metterli fuori uso uno per volta. Mi diressi dalla parte opposta del molo, verso la costa. Nessuno mi aveva visto e mi portai più in alto rispetto a loro. Potevo vederli e tenerli sott’occhio. Forse non c’era bisogno di ucciderli. Forse c’era soltanto bisogno di andar via da quel posto, da quell’incubo. Ma il freddo mi teneva bloccato lì, a pancia a terra.

«Non puoi scappare alla tua sorte…» fece una sottile voce alle mie spalle. Mi voltai col fucile da sub puntato nel nulla. Ero infreddolito, stanco e spaventato. E non mi andava di giocare a nascondino. Non in quel momento. Mi misi in piedi cercando di combattere contro i brividi. Cercai nei dintorni il proprietario del sussurro. Niente. Era praticamente sparito. Esausto mi sedetti. Dal buio due braccia mi

presero per il collo.

«Non puoi scappare al tuo destino. Se hai deciso di morire fallo pure, ma non portare con te altra gente.Sono stato chiaro?»

Non compresi il senso di quella domanda e cercai di puntare il fucile in direzione del suo braccio. Sparai un colpo. Colpito in pieno avambraccio. Sganciò la morsa sul mio collo e indietreggiò urlando.

«Maledetto bastardo! È qui! Prendetelo!» con tutto quell’urlare, per il dolore e per la rabbia, gli altri non tardarono ad arrivare. Ero troppo stanco per fuggire e lasciai alle mani del mio destino la mia stessa discutibile vita. Arrivarono con il fiatone. Mi bloccarono ancora. Mi percossero per l’ennesima volta e mancò davvero poco che perdessi i sensi. Questa volta sarebbe stata davvero l’ultima. Di lì a poco sarei probabilmente morto. Il tipo al quale avevo offeso il braccio venne vicino. Le sue mani sporche del suo sangue mi presero nuovamente il collo e strinsero.

«Non puoi fuggire per sempre. Devi scegliere se vivere nel modo giusto o morire e toglierti dalle palle!»

«Non capisco…» risposi in modo convulso.La febbre era arrivata e aveva preso il sopravvento. Non ero più lucido. Non sentivo più freddo. Stavo morendo e in un certo senso stavo anche facendo un favore a quei nove. Non ricordo con esattezza quello che accadde dopo, ma mi parve di sentire alcune frasi e parole: “…è andato tutto storto!” e “…per un maledetto scherzo!”. Non capii il significato di quelle affermazioni. La febbre mi aveva distrutto completamente. Ormai suo mi abbandonai al suo volere.

 

Quindici a caso e tre dei venti. L’hotel.

Tornai in me comodo questa volta. Non avevo più febbre. Ero su di un letto di quelli fatti in una certa maniera. Materasso e rete di primissimo livello. Da quello che riuscii a capire, una volta messo in piedi, era che mi trovavo in una stanza di albergo. Uno di quelli a cinque stelle. I fiammiferi sul comodino me ne davano conferma. Mi affacciai subito al minibar. Presi le uniche due birre che c’erano. Una bionda e una rossa. E non erano donne. Quelle non mi interessavano da un pezzo. Stappai la prima e mi misi ad ammirare il paesaggio dalla finestra. È sorprendente venire a conoscenza di quanto la natura possa essere rigogliosa e piena di colori. Anche sotto una pallida luce, anche nell’oscurità. Gustai la birra fino in fondo e misi l’altra nella tasca del cappotto. Non si sa mai. Poteva venirmi sete all’improvviso. La mia mano sfiorò un foglietto. Lo presi e lo lessi. Numeri, tanto per cambiare. Ma sembravano essere numeri di stanze. Uscii dalla stanza e controllai il numero. Ero stato nella quattro zero uno. Quattro camere da visitare, dunque. Cominciai la mia nuova avventura. Un lungo corridoio mi attendeva. Tutto sembrava a posto. Tutto era tranquillo. L’hotel era pulito e non sembrava in disuso, anzi, c’erano perfino dei fiori freschi sui comodini. Neanche un filo di polvere, anche la moquette era a posto. Niente a che vedere con i posti nei quali ero stato di recente. Controllai le targhette stanza per stanza. La prima che visitai fu la numero quattro zero quattro, come da istruzioni. Era vuota. Al centro un pacco. Segnati a matita sulla scatola c’erano i numeri: Dodici, Ventiquattro, Novantasei e Ottantaquattro. La aprii. Trovai una catenella in argento con due ganci alle estremità. Lasciai la stanza. La prossima dell’elenco era la quattro sei nove. In fondo al corridoio. Entrai. In questa c’era solo una poltrona con una busta poggiata sopra. Scritto con un pennarello dal tratto grosso alcuni numeri. Ventidue, Quarantaquattro, Ottanta, Novantuno e Sedici. Il suo contenuto: un anello di quelli che si usano per infilarci le chiavi. Lo legai alla catenella e tornai al corridoio. La stanza successiva era la quattro sette cinque. Entrai. La stanza era immersa nel buio. Accesi le luci. Conoscevo bene quel posto. Ero stato lì tanto tempo fa con mia moglie, quando eravamo fidanzati e mancavano pochi giorni al matrimonio. Rimasi paralizzato davanti alla bellezza di quel ricordo. Era da parecchio che non ne facevo uno così stupendo. Amavo ancora quella donna. Sul letto dei fiori. E con le rose un bigliettino. Ancora numeri. Ventitre, Quarantadue, Novanta e Cinquantanove. Vicino l’abatjour sul comodino, un altro pezzo. Una specie di gancetto. Lo misi in tasca e proseguii. Ecco, infine, l’ultima stanza. La quattro otto uno. La porta della camera era socchiusa e una lama di luce tagliava il corridoio. Aprii la porta con cautela. Niente. Non c’era nulla di sospetto. A parte un orologio di quelli meccanici posizionato ad altezza uomo sulla parete di fronte. Mi avvicinai. Non funzionava, era fermo. Sotto il solito bigliettino. Ventisei, Trenta Quattordici, Cinquantacinque e Ventuno. Presi il gancetto trovato prima e lo inserii nel buco di un ingranaggio posto di lato all’orologio. Lo collegai al cerchio metallico e alla catenella. Tirai. Quel movimento fece caricare il marchingegno. L’orologio riprese a funzionare. Le lancette fecero scoccare mezzanotte in punto e due piccole porticine si schiusero. Uscì un omino con in mano una piccola chiave. La raccolsi. Alle mie spalle una piccolissima cassaforte a chiave. Provai ad aprirla. Funzionò. All’interno trovai un oggetto avvolto nella carta. Scartai il regalo con attenzione. Poi il sangue gelò nelle mie vene. Non poteva essere possibile. Avevo fra le mie mani un anello. Lo stesso che anni fa regalai in questo hotel a lei. Pezzo che mi costò una fortuna al tempo. Dopo alcuni giorni lo perse e non gliene comprai mai più un altro. Ed ora era tra le mie mani sole. Lo stomaco si chiuse e un nodo alla gola voleva sciogliersi fino agli occhi. Non piansi. Non avevo più lacrime per nessuno in questo mondo. Strinsi quel diamante fino a stampare la sua forma sul mio palmo. In quel momento compresi che il mandante di tutto questo non poteva essere uno con dei problemi con in numeri o stronzate del genere. Tutta questa faccenda sapeva di personale. I riferimenti, le parole dei Cento, i luoghi e anche le birre tra le mie preferite. Ma chi? Chi voleva farmi capire e cosa? Mi accasciai sul letto. Cercai di ricordare solo le cose belle. Le cose di lei che mi avevano emozionato davvero. Pensai a cosa mi aveva insegnato e cosa avremmo voluto fare di noi. Poi pensai al presente e all’incubo nel quale qualcuno aveva deciso di farmi vivere. Mi addormentai.

 

Numero quindici. L’appartamento.

Mi ritrovai sul pianerottolo di una casa di campagna. Ero su uno di quei dondoli che cigola al solo toccarlo. Mi misi seduto. La testa mi doleva e provavo un senso di fame. Dovevo mangiare qualcosa. Entrai senza nemmeno bussare. In quella casa c’era un tanfo che proveniva dalla cucina. Nel lavello c’erano resti di cibo, bicchieri sporchi, piatti incrostati. Insetti. Sul tavolo un pezzo di carne diventata scura circondato da larve danzanti. Sul frigorifero socchiuso un poster di una diva seminuda. Bella, bionda, desiderabile. Controllai nel frigo in cerca di qualche indizio ma, a parte qualche marcia verdura, niente che potesse interessarmi. Andai oltre. In salotto. Un divano di pelle nera disegnava una elle nella stanza. Al centro un tavolino in vetro. Sopra della droga e alcune carte prepagate. Qualcuno doveva aver fatto festa. Mi accomodai e mi servii. Feci delle strisce. Due tirate forti con le narici e in gola l’amaro. Solito bruciore al naso. Merda alla quale non ero più abituato. Già cominciavo a sentirmi meglio. Non sapevo perché fossi in quella casa, né quale fosse il mio bersaglio. Fatto sta, che da quanto tutto era iniziato la testa mi scoppiava perché non avevo la benché minima idea di quello che stesse succedendo. In ogni modo distolsi il pensiero. Nonostante questi deliri, ero ancora in vita. Se mi avessero voluto morto lo sarei stato già da un pezzo. Credo. Mi concentrai e continuai a esaminare la casa. Notai del sangue nel corridoio che portava al bagno e alla camera da letto. Rosse strisce segmentate. Irregolari, macchiavano il bianco di quel muro. Finivano proprio in camera da letto. La porta era spalancata e lo spettacolo mi fece chiudere gli occhi. Rabbrividii. Una donna con svariati tagli era adagiata su un letto. Il sangue gocciolava su un tappeto a fiori in rilievo. Quelle rose adesso erano colorate di un rosso venoso. Il killer le aveva tagliato le vene ai polsi, alle gambe e ai piedi. Si era preso la briga di fare un disegno sulla parete alle spalle del letto. Quindici. Aveva scritto il suo numero quel bastardo! Ma che diavolo era tutto questo casino? Un rumore mi distolse dalla risposta. Proveniva dalla cucina. Corsi immediatamente lì e trovai lui. Un uomo alto e magro. Vestiva con una canotta bianca imbrattata di rosso e un jeans a vita bassa. Sembrava che mi stesse aspettando. Senza pensarci un attimo, quel bastardo afferrò qualcosa da uno dei cassetti in cucina. Una mannaia. Bene! Io ero dall’altra parte del tavolo e potevo temporeggiare proprio come in un gioco. Mi puntò contro il pezzo di legno e acciaio. La luce del neon faceva brillare una lama già insanguinata. Evidentemente, dopo aver ucciso la donna in camera da letto, il porco l’aveva messa al suo posto. Ora c’erano due opzioni. Opzione uno: spingere il tavolo fino a incastrarlo in un angolo e approfittare della situazione. Opzione due: non scappare e cercare un rischioso corpo a corpo. Il suo sguardo si fece arcigno, le sue mani tremanti. Era pronto per uccidere ancora. Ed io rientravo proprio nei suoi pensieri. Tentai l’opzione tre. Sollevai il tavolo impedendogli di lanciarmi contro la mannaia e spinsi con tutte le mie forze verso il muro. Sentii le sue urla rabbiose. Se mi avesse preso in quel momento mi avrebbe fatto a pezzi. Continuai a spingere e a battere le mie spalle contro il tavolo, ancora e ancora, fino a che non sentii più nulla. Era caduto per terra. Probabilmente doveva essere svenuto per le botte prese. In quella circostanza devo dire che fu una vera fortuna aver fatto una capatina in salotto qualche minuto prima. Immobilizzai quell’uomo. Guardai il suo volto e mi sembrò di riconoscerlo. Ma non poteva essere possibile, erano anni che evitavo la gente. Tornai dalla donna. Presi un lenzuolo pulito da uno degli armadi. Poi mi fermai a guardarla. Chissà se aveva anche lei lasciato qualcuno a vivere solo in questo mondo. Chissà come si sarebbe sentito suo marito o il suo compagno. Cosa avrebbe provato? La risposta la conoscevo bene. Avevo perso anch’io qualcuno ed ero entrato in un tunnel dal quale non sarei mai più uscito. Improvvisamente poi del fumo entrò nella stanza. Non mi spaventai. Sapevo che la missione era giunta alla fine e che dovevo andare. Come o dove non mi doveva importare tanto, prima o poi, questo incubo sarebbe finito.

 

Tre numeri col sette. La cella.

La corrente saltò un’altra volta. Passarono diversi minuti prima che tornasse. Ero sveglio da circa una mezzora. Ero dentro un dannato ascensore. Quando l’interno della cabina si illuminò, guardai il mio riflesso nello specchio. Ancora gradevole, nonostante le notti passate a vagare nel delirio più totale. Avevo fame. Tanta fame. Cercai un modo per aprire quelle maledette porte che sembravano sigillate. Poi, improvvisamente, ripartì. Stavo scendendo. Cinque, quattro, tre, due, uno, zero. Meno uno, meno due, meno tre. Le porte si aprono. La tenebra mi stava aspettando. Uscii dall’abitacolo che si richiuse e sparì lasciandomi al buio. Da lontano un neon cominciò a lampeggiare. Si stava accendendo. Poi, un altro e un altro ancora fino ad arrivare a me. Il corridoio si illuminò regalandomi una sorpresa. Ero in una cella. Sbarre grigie mi separavano dalla libertà. Nella cella niente. Nessun lettino, niente bagno. Solo io e il freddo di quella stanza. Sentii dei rumori. Qualcuno si stava avvicinando. Erano in tre. Portai le mani alle sbarre. Le figure si avvicinarono sempre di più. Li attesi. Arrivati in prossimità della porta di ferro si fermarono. Eravamo quasi faccia a faccia. I loro numeri: Ventisette, Cinquantasette e Ottantasette.

«Vuoi vivere?» fecero i tre.

«Cosa?» risposi confuso.

«Hai fame, no? Mangia! Se ci tieni a vivere…»

Gettarono ai miei piedi un sacchetto e sparirono. Lo aprii e feci una magra scoperta. All’interno c’era un panino misto a muffa. L’odore era stomachevole. Ma ero dannatamente disperato. Lo pulii alla meglio e lo divorai. Ingoiai quei bocconi amari come fossero l’ultimo pasto di un condannato. Furono le parole di quei tre che mi scossero. Mi avevano chiesto se volevo vivere. La risposta era si. E se era si, perché avevo permesso che il dolore prendesse il sopravvento sulla mia esistenza? Questo tipo di risposta non saprò mai darla ma di una cosa potevo essere certo, qualora tutto questo sarebbe finito, sarei stato un uomo diverso. Non vi era alcun dubbio. La luce tornò a fare i capricci. Scomparvi nel buio e ancora una volta non ero solo. Qualcuno urlò quasi vicino a me qualcosa:

«Vivi!»

«Vivi dannazione!»

«Non ti arrendere, vivi!»

Alle mie spalle l’ascensore si aprì. Dentro c’era qualcuno che mi prese per un braccio e mi bloccò. Mi iniettò qualcosa. Persi i sensi.

 

Numero quarantanove. La discarica.

M’ero svegliato. Ancora una volta. La notte era già calata. La pioggia ticchettava sull’asfalto come dita nervose su di un tavolo in una sala d’attesa. Oltre, alcuni fuochi alzavano oscure nubi di fumo. Qualcosa era avvolto dalle fiamme. Intorno a me cataste di copertoni e vecchie auto da demolire. Sembrava che fossi capitato in una discarica. Mi alzai. Controllai intorno a me. Nelle mie tasche. Niente. Cominciai a vagare senza meta nei vicoli colmi di gomma e ferraglia. Il mio corpo rispondeva ai miei comandi come fosse ubriaco. Le gambe tremavano e i brividi percorrevano la mia schiena. Non avevo bevuto, no. Anche se avrei tanto voluto farlo. La pioggia mi aveva bagnato completamente e il mio passo s’era fatto più pesante. Un’ombra sfrecciò davanti a me veloce come un lampo. Inizialmente credetti di essermi immaginato quella scena. E intanto la pioggia s’era fatta più insistente sulla mia febbre. Il cielo s’era gonfiato e i primi lampi cominciarono a squarciare il cielo. Ero debole e provato, e la testa mi girava come un cd in uno stereo. Pensai che di lì a poco sarei svenuto. Ma era un lusso che non potevo permettermi. Non ero solo in quel posto. Feci appello a tutte quelle forze che ancora avevo nascoste dentro di me. Proseguii, impavido. Di nuovo l’ombra passò davanti ai miei occhi. Velocissima. E questa volta la cosa mi inquietò, perché riuscii a intravvedere qualcosa. D’un tratto, rapida come un lampo, una mano uscì da quel buio e mi afferrò per il collo. Fui sollevato di peso da terra e sbattuto oltre. Rotolai nel fango più volte. La febbre stava vincendo la sua partita. Io stavo per perdere la mia. Senza forze, senza speranze. Solo contro un numero. Immobilizzato. Alzai lo sguardo verso l’obiettivo e lo osservai. La sagoma era avvolta da un mantello di pelle. Indossava un berretto che gli copriva il viso. Potevo ben vedere un numero. Quarantanove. Si intravvedevano solo una bocca e due occhi grossi e neri come ciò che ti lascia la morte. Poi l’uomo mostrò il volto sotto il cappello. Portava una maschera con un evidente sorriso di quelli stampati. Mi venne in mente una battuta. Ma non avevo le energie per fare del sarcasmo. Mi scrutò dall’alto come fossi un verme da schiacciare. Poco dopo prese l’iniziativa. Tornò alla carica come fa un toro con il suo torero. Mi colpì in pieno petto con un calcio. Le calzature erano di quelle dure e a punta. Mi fece male. Continuò a percuotermi per un po’. Alternava pugni a calci. Io non sentivo più dolore. Ne ero esente da un bel pezzo. Nonostante lo scrosciare della pioggia, prese una tanica e iniziò a versarne il liquido intorno a me. L’odore dolce della benzina pervase i miei sensi riportandomi alla mia putrescente realtà. Fece un cerchio e prima di dare fuoco, disse:

«Riprendi il controllo della tua vita. Non lasciare che un episodio cancelli la tua esistenza…»

Portò alle labbra una sigaretta. La accese con uno zippo. Senza chiuderlo lo gettò verso di me. Quel numero scomparve, tra il fumo e le fiamme che coprirono i miei occhi. Tutta quella luce nella tenebra mi avvolse in un attimo. Ero diventato cieco. Pensai, prima di svenire, alle parole di quell’uomo. Guardai la luna che tornò a splendere nel cielo, piena, luminosa, pallida. La tempesta era passata ma non il freddo. Non il dolore. Quello era tornato vivo come il ricordo di un vecchio incubo. Tornò il buio e io cedetti a quella sublime tentazione.

 

Quel che resta dei numeri. La fine?

Il buio era macchiato dei colori del tramonto. Presto sarebbe stato tutto oscuro. Erano giorni che non vedevo la luce del sole. Intorno a un fuoco alcuni uomini festeggiavano. Io ero distante ma potevo sentire le loro voci di festa. Si stavano divertendo. La brace faceva fumo e della carne si stava cuocendo sui carboni accesi. Potevo sentire quell’odore a me familiare. Erano bistecche. Il clima era perfetto. Non faceva troppo freddo. D’altronde l’inverno non era ancora arrivato. Mi avvicinai a loro. Al tempore di quel fuoco. Al profumo invitante di quel cibo. Mi accolsero come uno di loro. Misero fra le mie mani del pane con la carne e una birra in bottiglia. Non mi chiesi perché indossassero delle maschere, non mi chiesi neppure il motivo della mia presenza in quel posto. Quel che sarebbe successo non mi interessava. Ero stanco di stare a capire o di fare a pugni, di indagare o di avere paura. Adesso ero lì, in quel contesto di festa. Mi sentivo come un tempo. Un uomo con i suoi amici. A parlare di cose inutili o di sport, di donne o di birra. Mi sdraiai a guardare le stelle. Forse in me qualcosa era cambiata. Tutti quei numeri mi avevano fatto riflettere su alcune cose, sul mio comportamento negli ultimi anni. Ero stato un egoista, uno stupido, un debole. Un uomo non può smettere di essere tale solo perché ha subito una dolorosa perdita, ma deve continuare ad esserlo sempre. Ed io, questo volevo tornare ad essere. Un uomo. Mi addormentai serenamente. Incurante di quella gente.

 

Numero venticinque. Il Natale.

Rinvenni fra le braccia di un uomo. Mi fece sedere. Il suo numero era Venticinque. Così riportava il retro della sua maglia. Dietro di lui il buio. Mi guardò e sorrise. Tirò fuori un ordigno che assomigliava tanto ad una bomba. Stando al conteggio sul mio foglietto dei numeri, lui, doveva essere l’ultimo e, un’esplosione per far festa, tutto sommato ci stava bene. Premette il pulsante. Chiusi gli occhi. Non senti nessun botto e li riaprii. La luce mi accecò. Erano tutti lì. In quel grande salone addobbato a festa. Quelli che avevo ammazzato con le mie mani, quelli che avevo fatto finire in trappola, quelli che avevo creduto di salvare e quelli che s’erano suicidati davanti a me. Era stata solo un’illusione allora. I Cento e la loro confraternita erano una invenzione per depistarmi. Una grande messa in scena sapientemente montata solo per farmi tornare a provare delle emozioni. Per scuotermi. I deliri, gli incubi, erano solo i miei. Tutti attori quindi? Il numero Quarantotto mi venne vicino e si tolse la maschera. Lo riconobbi subito. Era un mio vecchio amico. Il mio amico di sempre, che avevo allontanato dopo la disgrazia. Avrebbe voluto tanto starmi vicino ma non glielo permisi. Volevo restare solo. Volevo finire il resto dei miei giorni stando isolato da tutto e da tutti. Ma quel mio vagare nella solitudine mi aveva annientato completamente. Negli anni passati, dopo l’incidente avevo smesso di vivere, ma la vita non aveva mai smesso di rincorrermi. Non potevo restare nel mio appartamento a rivangare il passato tra una birra e l’altra. Mi ero spento come una fiammella su un fiammifero. E questo lo aveva capito chi aveva continuato a volermi bene. E a loro, questo non andava affatto giù. Quello che avevano fatto sapeva di unico e di straordinario. Sorrisi finalmente. C’erano riusciti dopo cinque lunghi anni. Abbracciai il mio amico e lo ringraziai. Era il giorno di Natale e in quella giornata nessuno mai dovrebbe starsene da solo. Proprio nessuno. Neppure io. Riconobbi anche gli altri, erano i miei vecchi colleghi, i vicini di casa, i parenti di mia moglie e ancora altri che conoscevo. Qualcuna di loro portò una birra fresca fra le mie mani, la mia preferita. Era la sorella di mia moglie. Mi abbracciò forte e mi disse quanto le ero mancato. Poi fu il turno di tutti gli altri, ognuno di loro mi disse qualcosa. Parole che mi diedero conforto, altre speranza, altre ancora coraggio. Non so quanto tempo passò esattamente. C’era un clima di festa che il mio cuore aveva ormai rimosso. Gli occhi ricordarono, le mani si intrecciavano. Ci scambiammo gli auguri. Infine, intonarono un canto di Natale. Improvvisamente non lo odiavo più. Era passato l’alone nero che macchiava la mia anima. L’avevano pulita come un candido panno pulisce una superficie sporca. Erano riusciti a farlo nel modo più originale e, per questo avrei nutrito in loro una profonda stima. Bevvi birra per tutta la nottata. Ascoltai le storie e i fatti degli ultimi anni. Tutta roba che mi ero perso. Verso la fine della festa, quando ormai tutti erano stanchi, mi avvicinai all’albero di Natale, stringendo avidamente l’ultima birra della festa. Lampeggiava con una intermittenza quasi ipnotica. Quel luccichio voleva convincermi che quella, in fondo, non era poi così male come festa. Ed aveva ragione. Buon Natale amore mio pensai. Piansi come un bambino.

 

Fine.

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