Di Sandro Soglia

All’alba del 1983 la scena musicale italiana era alle prese con l’esplosione delle sonorità elettroniche, tipo Lucio Battisti con “E già”, Matia Bazar con “Tango”, e Alberto Camerini e Ivan Cattaneo, Franco Battiato e i Krisma.
Sergio Caputo va invece in scena con un qualcosa che definire di controtendenza è poco, depositando il suo sguardo su un tempo che ormai rimosso o comunque relegato all’Italia in bianco e nero di nonni e genitori, ma al contempo estremamente moderno e futuristico considerando a posteriori i pruriti blues di Joe Jackson e le sofisticatezze jazz-pop degli Steely Dan, e l’assoluta contemporaneità con il movimento new cool inglese che stava prendendo forma con i primi singoli degli Style Council.
Sergio Caputo conia dei motivi che vivrebbero comunque di vita propria vestendoli con interpretazioni invidiabili e per molti versi uniche e presentando dei testi in cui convivono un linguaggio amabilmente ricercato e contagiosa immediatezza, condendo il tutto con squisita ironia su personaggi da commedia all’italiana che esorcizzano la propria solitudine con le luci del night club, fra orchestre, abiti di lamè e bambole fatali dai capelli biondo platino, il famigerato “sabato italiano”.
Un gran disco da consegnare agli annali, una delle più originali e indimenticate alchimie prodotte dal pop nazionale…

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